Dall’ascolto all’amore

Odilon Redon, il Cristo del silenzio, fine XIX sec,  Pastello, Carbone su carta vergellata,Petit Palais, Museo delle Belle Arti della Città di Parigi
Odilon Redon, il Cristo del silenzio, fine XIX sec, Pastello, Carbone su carta vergellata,Petit Palais, Museo delle Belle Arti della Città di Parigi

31 ottobre 2021

Mc 12,28-34
XXXI Domenica nell’anno
di Luciano Manicardi

In quel tempo 28si avvicinò a Gesù uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». 29Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l'unico Signore30amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza31Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c'è altro comandamento più grande di questi». 32Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all'infuori di lui33amarlo con tutto il cuore, con tutta l'intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». 34Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo


Dopo una serie di controversie in cui Gesù ha fronteggiato dei gruppi di avversari (sacerdoti, scribi e anziani: Mc 11,27ss.; farisei ed erodiani: Mc 12,13ss.; sadducei: Mc 12,18ss.), si avvicina a Gesù un singolo. Membro sì di uno di questi gruppi che normalmente contestano Gesù (è uno scriba: Mc 12,28), ma si presenta solo. E si presenta con una disposizione non preconcetta e non pregiudizialmente negativa. Infatti, si avvicina a Gesù avendo “visto come aveva ben risposto” ai sadducei. E tra lui e Gesù si instaurerà una consonanza profonda. Udita la risposta di Gesù, lo scriba dirà: “Hai detto bene, maestro, e secondo verità …” (Mc 12,32). A sua volta, Gesù, “vedendo che (lo scriba) aveva risposto saggiamente” gli disse: “Non sei lontano dal Regno di Dio” (Mc 12,34).

Lo scriba interroga Gesù su quale sia il primo dei comandamenti. Questa domanda implica l’idea che all’interno dei molti comandi veterotestamentari vi sia una gerarchia, un ordine, un comando principale obbedendo al quale si obbedisce a tutta la volontà di Dio. C’è un’unità nella volontà di Dio, e dunque il rapporto con Dio è qualcosa di semplice. Gesù sintetizza la volontà di Dio nei comandi di amare Dio e il prossimo. E la sintetizza riprendendo i due comandi di Dt 6,5 e Lv 19,18. A differenza dei testi paralleli di Luca e Matteo, Marco conserva la formula di introduzione di Dt 6,4: “Ascolta, Israele”. L’ascolto è già movimento di amore in quanto ascoltando mi apro all’altro e ospito in me la sua presenza. L’ascolto fonda un legame, una relazione in cui io esco dal mio isolamento e vivo in relazione a un altro. Anzi, le parole dello Shemà Israel (Dt 6,4-5) riprese da Gesù (Mc 12,29-30) disegnano un movimento – sempre da rinnovarsi – che dall’ascolto (“Ascolta, Israele”) conduce alla conoscenza (“Il Signore è uno”) e dalla conoscenza all’amore (“Amerai il Signore”). È un esodo, un movimento di liberazione che scaturisce da Dio e dalla sua parola.

Marco distingue un primo comandamento (amare Dio) e un secondo (amare il prossimo). In particolare Gesù ripete il comando del Deuteronomio che chiede di amare Dio “con tutto il cuore”. L’antropologia biblica insegna che con il cuore si designa la persona stessa, il suo essere corporeo e psichico, razionale ed emotivo. Pertanto “amare Dio con tutto il cuore” è anzitutto un percorso, il cammino di tutta un’esistenza e un itinerario tutt’altro che scontato. Nel nostro cuore infatti abitano anche pensieri e desideri ben lontani da quanto ci chiede il vangelo. Dunque, passo preliminare per giungere ad amare Dio è riconoscere che ciò è tutt’altro che scontato.

Perché l’espressione “amare Dio” abbia una qualche credibilità e praticabilità occorre rinunciare agli spiritualismi, ai discorsi che ripetono parole stanche e scisse dalla concretezza della vita e invece cercare di dare realtà a ciò che di per sé è quasi impossibile: come amare chi non si vede, quando è già così problematico ed enigmatico amare coloro che vediamo? Occorre dunque anzitutto accettare il lavoro diconoscenza di sé che ci porta a riconoscere, nominare e accettare le dimensioni di negatività e le carenze che abitano in noi, nel nostro cuore. Infatti, “Dal cuore umano escono i propositi di male …” (cf. Mc 7,21-23). Per amare Dio con tutto il cuore occorre il coraggio di affrontare il lavoro di conoscenza del proprio cuore: conoscenza che, normalmente, ci riserva sorprese sgradite. Questo lavoro è essenziale per arrivare a porsi in autenticità davanti a Dio. Conoscere i propri limiti morali e intellettuali, fisici e psicologici, emotivi e affettivi è essenziale perché venga abbattuto quell’io ideale che ci costruiamo e che offriamo agli altri e a Dio come protezione da noi stessi. Un “io” immaginario ma che ha tutta la potenza di inganno e fascinazione dell’idolo. Scopo di questo cammino di conoscenza di sé è l’adesione alla realtà, l’accettazione di quel particolare essere che noi siamo, con le negatività e le ricchezze che ci caratterizzano. Questo cammino lo possiamo chiamare “rientrare in noi stessi” (Lc 15,17) o “ritornare al proprio cuore” (Is 46,8: redite ad cor).

In Dt 6,2 l’amore per il Signore è unito al timore (“Temi il Signore”), nozione questa che non è decaduta con la nuova alleanza ma che è essenziale per un equilibrio dell’amore: amare Dio senza temerlo rischia di essere un amare Dio come proiezione dei propri desideri, così come temere Dio senza amarlo è allontanarsi dal volto di Dio rivelato dalle Scritture e da Gesù Cristo. Il timore di Dio è rispetto dell’alterità di Dio, senso della distanza che intercorre tra uomo e Dio e che rappresenta lo spazio della relazione e della comunione possibile tra creatura e Creatore.

Che l’amore poi sia comandato non stupisce, se si pensa che per la Scrittura Colui che comanda l’amore è anche Colui in cui risiede la fonte della salvezza. Per l’uomo biblico, il comandamento di Dio non è mai inteso in senso legalistico, ma nello spazio del dono e dell’amore. Come l’amato gioisce nel fare la volontà dell’amante, così il figlio d’Israele trova la sua gioia nel compiere la volontà di Dio. “Ricompensa per un comandamento è un altro comandamento” recita un detto rabbinico. E chi mai può comandare l’amore se non colui che ama? Se non l’amante? Così l’esperienza di essere amati da Dio è alla base del comando di amare sia Dio che il prossimo. Ed è fondamento della possibilità da parte dell’essere umano di adempierlo. “Solo l’anima amata da Dio può accogliere il comandamento dell’amore del prossimo fino a dargli compimento. Dio deve essersi rivolto all’uomo prima che l’uomo possa convertirsi alla volontà di Dio” (Franz Rosenzweig).

Il comandamento poi non è solo “ordine”, ma anche rivelazione di una possibilità. Il comandamento dice “tu devi”, ma dice anche e prioritariamente “tu puoi”. Anzi, si basa sul “tu puoi”. Il comandamento diviene così luce sulla via dell’uomo, diviene offerta di senso e di vita fatta da chi crede alla capacità dell’uomo di metterlo in pratica e di trovarvi la propria gioia. Il comandamento è attestazione di fiducia di Dio nei confronti dell’uomo. Dio crede nell’uomo e nella sua capacità di amare, tanto che il comando suona anche come promessa: il testo evangelico, presentando il comando (Mc 12,28) di amare, lo formula come una promessa: “Tu amerai”. L’obbedienza al comando diviene ciò che plasma il cuore dell’uomo rendendolo più simile al cuore di Dio. Somiglianza che risiede nell’amare. Tu amerai: ovvero, tutto ciò che fai fallo per amore, agisci per amore, persegui l’amore. Tu amerai: ovvero, il tuo vero “tu” è il “tu” che ama. Tu amerai: ovvero, non scoraggiarti, perché l’amore che ora non vedi in te, il Signore potrà donartelo come grazia nel momento che tu non sai.

Amare Dio con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze e amare il prossimo come se stessi significa che il luogo dell’amore è la corporeità. L’ascolto della parola del Signore tende a inscrivere nel corpo, cioè nell’uomo intero e in tutte le sue relazioni, la parola divina. L’esegesi piena della Scrittura che chiede di amare Dio e il prossimo è una persona infiammata dall’amore di Dio e che brucia di amore per Dio e per i fratelli. L’ascolto, e dunque l’obbedienza alla parola di Dio, pone l’uomo nella situazione di relazione e di libertà che è essenziale per amare. Infatti, “il verbo shamà non ha solo il senso di udire, ma anche di credere e di ricevere” (Bahya Ibn Paquda). E credere è sempre credere all’amore (cf. 1Gv 4,16), accogliere l’amore, fare affidamento sull’amore di Dio che ci rende capaci di amare.

Il comando di amare il prossimo è presentato come secondo (Mc 12,31) rispetto a quello dell’amore per Dio. La priorità del comando di amare Dio sottrae l’amore del prossimo all’essere semplicemente atto morale frutto della buona volontà dell’uomo, lo sottrae alla fragilità dello spontaneismo del sentimento e, soprattutto, gli evita di chiudersi nella polarità “io-tu”, sempre a rischio di fusionalità e di violenza, di assorbimento in me dell’altro e di mia dissoluzione in lui, e lo pone nell’ampio e liberante spazio del Terzo (Dio, appunto). La priorità del comando di amare Dio inserisce l’amore del prossimo in un orizzonte, da un lato, senza confini (ogni altro che incontro è “prossimo”), dall’altro, libera questo stesso amore dai rischi dell’amore grazie al terzo, il Signore mio e del prossimo, il Signore dell’altro e di me che, a mia volta, sono prossimo del mio prossimo. Al tempo stesso, il comandamento di amare il prossimo è secondo rispetto al comando dell’amore per Dio per non lasciare solo il primo, per evitare la solitudine del primo comandamento, una solitudine che potrebbe essere nefasta. È secondo per agganciare il primo e dargli la concretezza e la corposità che altrimenti lo lascerebbero in balìa del soggettivismo spirituale della persona. È secondo per dare verità e concretezza al primo: amare il Dio invisibile trova un suo inveramento nell’amare il fratello che è visibile, che è l’immagine di Dio nel mondo. Un’immagine non partorita dalla mia mente e dunque che non mi scomoda, ma già data, concreta, limitata, obbligante, scomodante. Forse, potremmo interpretare questa sequenza di primo e secondo comandamento alla luce di un’antica interpretazione rabbinica che così svolge il comando di amare il prossimo come se stessi: “ama il tuo prossimo come tu stesso sei amato da Dio”.