Imparare dal creato

Vincent van Gogh, Campo di grano con cipressi, 1889, olio su tela, 73.2 × 93.4 cm, Metropiolitan  Museum of art, New York.
Vincent van Gogh, Campo di grano con cipressi, 1889, olio su tela, 73.2 × 93.4 cm, Metropiolitan Museum of art, New York.

14 novembre 2021

Mc 13,24-32
XXXIII Domenica nell’anno
di Luciano Manicardi

In quel tempo Gesù si mise a dire a Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea:

«24In quei giorni, dopo quella tribolazione,
il sole si oscurerà,
la luna non darà più la sua luce,

25le stelle cadranno dal cielo
e le potenze che sono nei cielisaranno sconvolte.

26Allora vedrannoil Figlio dell'uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. 27Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall'estremità della terra fino all'estremità del cielo.
28Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l'estate è vicina. 29Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.
30In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. 31Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
32Quanto però a quel giorno o a quell'ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre.


Tratta dal discorso escatologico (Mc 13), l’odierna pagina del vangelo secondo Marco (Mc 13,24-32) annuncia come certa la venuta del Signore, ma afferma che la sua data, il suo momento, sono incerti: “Quanto a quel giorno e a quell’ora nessuno lo sa” (Mc 13,32). Un evento certo, ma di cui non si sa il quando, esige che lo si attenda. Il credente può dunque assumere spiritualmente la dimensione della venuta del Signore nello spazio dell’attesa. L’attesa è una delle poche dimensioni in cui noi ancora sperimentiamo nel nostro corpo e nella nostra psiche il tempo. Ne patiamo il logorìo e ne conosciamo le promesse. Nell’attesa, soprattutto se intensa, vissuta, patita, il tempo stesso diventa stato d’animo. L’attesa poi è ciò che prepara il futuro, fosse pure un futuro prossimo, il futuro del giorno dopo, il futuro di un incontro, di un appuntamento. Noi che abbiamo normalmente giornate programmate, quando c’è l’attesa abbiamo un vuoto da riempire che sollecita la nostra libertà, ma ci assilla anche con l’ansia o con l’angoscia. Attendere significa poi anche immaginare, proiettarsi nell’evento atteso, anticiparlo, viverlo interiormente. L’attesa ci situa su una soglia, tra ora e dopo, tra oggi e domani, tra storia e Regno, tra tempo ed eternità. Nell’attesa, chi è assente viene reso presente, e lì cogliamo anche la radice dell’atteggiamento spirituale dell’attesa del Signore. Questa è anzitutto fiducia nella promessa del Signore che ha detto: “Io vengo presto”. È un atto di fede, l’attesa del Signore. Un atto di fede nella parola del Signore ma soprattutto nella persona del Signore Gesù. Un atto di fede che unifica tutte le nostre energie, anche le più profonde, e le orienta verso un unico fine. L’attesa ha una capacità unificatrice della persona: tutte le fibre dell’essere sono coinvolte e impegnate nell’attesa, il corpo e lo spirito, la mente e i sensi.

Nello spazio spirituale l’attesa si declina anche come resistenza, ovvero come forza nelle tribolazioni e nelle avversità della storia, come lotta; come pazienza, cioè come capacità di vivere l’incompiutezza e l’inadeguatezza che riscontriamo nel quotidiano, in noi, negli altri, nella comunità, nella chiesa, pazienza che è anche capacità di soffrire e patire nel supportare gli altri, nell’attendere i loro tempi, nel perdonarli e nel lasciarsi perdonare; poi come perseveranza, cioè come rifiuto di apostatare, di abbandonare nei momenti bui, di rimanere incassando la testa fra le spalle nei momenti difficili, di dare durata al tempo della propria sequela, di reggere la dura prova del tempo che passa senza cadere nel cinismo o nella sfiducia o nella disperazione; poi ancora come fede che crede le cose invisibili come più salde e sicure di quelle visibili; e anche infine come speranza che intravede il futuro e consente di camminare nell’oggi, di reggere il peso dell’oggi. La speranza ha il suo effetto sul presente consentendo la vita oggi. Dice Paolo: “Sperare quel che non vediamo, significa attenderlo con costanza” (Rm 8,25). Per patientiam expectamus. L’attesa paziente diviene persino motivo di beatitudine secondo il libro di Daniele: “Beato chi attenderà con pazienza” (Dn 12,12).

Questa attesa radica nell’oggi e dà senso e direzione all’oggi. Il vangelo sottolinea che l’annuncio della venuta del Signore non aliena il credente dall’oggi, anzi gli chiede capacità di aderire al presente, addirittura alla terra in cui vive, e di amarla. Una delle parole di Gesù più dense di tenerezza e di attenzione al reale è il detto che segue l’annuncio dei fenomeni cosmici che accompagneranno la venuta del Figlio dell’uomo: “Dal fico imparate la parabola: quando già il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che l’estate è vicina” (Mc 13,28). Gesù pone in relazione l’atteggiamento di attesa del Signore, l’annuncio dei segni cosmici che preannunciano la venuta del Signore e la capacità di osservare il ramo dell’albero di fico. Come se volesse dire che le cose non sono affatto in alternativa. Solo chi sa osservare realmente i rami del fico e cogliere il momento in cui essi mettono i nuovi germogli può esprimersi così. E questo indica dunque un aspetto dell’umanità di Gesù. Insomma, solo chi ama la terra, questa terra, può credere la nuova terra della promessa. Mentre annuncia l’evento escatologico, Gesù chiede all’uomo di mettersi alla scuola dell’albero del fico e, con esso, di tutta la natura colta come parabola della storia di Dio con il mondo. La fedeltà alla terra è la condizione per credere e attendere la venuta gloriosa del Signore.

Il nostro testo è inquadrato fra due avvertimenti identici: blépete, “guardate”, “state attenti”, “tenete gli occhi ben aperti e il cuore vigile” (Mc 13,23 e 33). Dunque il testo è incastonato all’interno di un’esortazione alla vigilanza e al discernimento. Il tempo della storia è abitato da tribolazioni, Marco ne ha parlato nei versetti precedenti (Mc 13,19-20), tribolazioni che precedono l’evento centrale dell’annuncio escatologico, che pone fine alla storia accordandole un fine: la venuta del Figlio dell’uomo. Lo sconvolgimento delle realtà celesti (cf. Mc 13,24-25) dice che è in atto un evento divino, un evento di cui è protagonista il Dio creatore, ma sole e luna, astri e potenze celesti erano anche, nel pantheon degli antichi romani (e Marco scrive a cristiani di Roma) entità divinizzate, idoli. Qui non vi è solo la fine del mondo, ma la fine di un mondo, il crollo del mondo degli dèi pagani detronizzati dal Figlio dell’uomo. E se si afferma che la fine dell’idolatria si compirà con il Regno di Dio instaurato dalla venuta del Signore, si insinua anche che la prassi dei cristiani nel mondo può costituire un segno del regnare di Dio grazie alla vigilanza per non far regnare su di sé gli idoli. Probabilmente, molti destinatari romani del vangelo prima della conversione erano adoratori di questi idoli. Dunque viene intravista la possibilità dell’idolatria da parte dei cristiani. Annunciando la sua venuta gloriosa, Gesù chiede dunque ai cristiani, come gesto profetico, la conversione. Vivere l’attesa del Signore significa vivere in stato di conversione. Ma la conversione ha come premessa necessaria la vigilanza. E se l’idolatria è assolutizzazione del penultimo e delle realtà umane, se è divinizzazione di oggetti e realtà naturali, Gesù chiede però anche un’adesione alla realtà naturale e creazionale domandando di porsi alla scuola di un albero di fico, di farsi discepoli del suo magistero: l’albero di fico in realtà parla anch’esso di realtà cosmiche, del mutare di stagioni. Nel piccolo, Gesù vede il grande, nell’ordinario vede lo straordinario. Anche un albero, per chi sa ascoltare e guardare, per chi è umile di cuore, diventa parabola, narrazione che va ben al di là di se stesso e dice di una storia che lo supera, narra la storia di Dio con il mondo. Quando vedete che il ramo di fico diventa tenero e spuntano le foglie, voi sapete che l’estate è vicina: analogamente, quando vedrete accadere queste cose, esse significheranno la prossimità della venuta del Signore. Vi è una parola di Dio, una sua eloquenza anche nel creato, negli elementi naturali. Proprio mentre Gesù afferma che il cielo e la terra passeranno, ma le sue parole non passeranno, egli dice anche che c’è una parola autorevole da ascoltare in un albero. “Dall’albero di fico imparate”: màthete. Gesù il verbo manthano che è il verbo da cui deriva anche il termine mathetès, “discepolo”. È il verbo del farsi discepoli, dell’apprendere, dell’imparare. Come c’è da imparare dalla parola di Gesù, così c’è da imparare dalla natura, dal creato. Se dunque c’è una possibilità di idolatria nei confronti delle realtà terrene e naturali, Gesù chiede non evasione, non fuga, ma un rapporto equilibrato con il creato, un rapporto amichevole con la realtà, un rapporto che possiamo definire di “prossimità nella distanza”, ovvero un rapporto gratuito e contemplativo, sottratto alla volontà di possesso, un rapporto di docilità e mitezza ben esemplato nell’atto di porsi in ascolto di un albero.

Ecco dunque un messaggio del testo: l’attesa della venuta del Signore alla fine della storia può insegnarci a vivere un rapporto equilibrato con la storia, con l’oggi. Di nuovo siamo alla dimensione dell’attesa come soglia. Dimensione difficile e a cui spesso reagiamo con l’impazienza e la fretta, con l’attivismo e la produttività, dimensione faticosa a viversi perché segnata da speranza, certo, ma anche da indeterminatezza, incertezza e rischio. Dimensione faticosa anche perché dice la povertà di chi attende, la sua non sufficienza, il suo aver bisogno di altri e di altro. E poi, l’attesa del Signore si presenta come particolarmente ostica e dura per noi perché si accompagna all’evento della nostra morte. Come il Signore viene come un ladro, così sarà della nostra morte; come non sappiamo il quando della venuta del Signore, così ignoriamo il quando della nostra morte. Quello stare svegli, quel non dormire, quel vegliare e vigilare a cui con insistenza ci esorta il vangelo (cf. Mc 13,33-37), diviene così un’esortazione affinché la morte ci colga vivi, ci colga, come dice altrove il vangelo, intenti al nostro lavoro (cf. Mt 24,46; Lc 12,43), impegnati nella quotidiana fatica della carità, della fede e della speranza.