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XIV Domingo do Tempo Comum


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3 Julho 2011
Refexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
Diante da tentação de eliminar da nossa vida tudo o que custa e que implica sofrimento em nome da idolatria do "tudo, rapidamente e sem esforço" é importante sublinhar que não se fazem grandes realizações humanas e espirituais sem esforço, dedicação e sacrifício. 


Zc 9,9-10; Sal 144; Rm 8,9.11-13; Mt 11,25-30

La prima lettura presenta una figura messianica connotata dalla ‘anawah, che è piccolezza e umiltà. Il re di cui parla Zaccaria è un curvato, un obbediente; secondo la versione greca dei LXX è un mite, come Gesù nel testo evangelico. E tanto nel re di Zaccaria quanto nel Messia Gesù, la connotazione di umiltà e mitezza non si esaurisce sul piano morale, ma è elemento rivelativo dell’essere e dell’agire di Dio. Matteo presenta Gesù come figura di rivelazione e di iniziazione alla rivelazione: mentre, con la sua umiltà, rivela l’umiltà di Dio, Gesù si propone anche come fonte di umiltà per i suoi discepoli.

Nel testo evangelico, il versetto 25 inizia affermando che Gesù, “rispondendo” o “prendendo la parola” disse… Gesù reagisce con la preghiera (“Ti benedico, Padre”) a quanto narrato precedentemente: nel capitolo undicesimo emerge la constatazione dello scarso interesse suscitato dalla persona, dalla predicazione e dalle opere di Gesù (cf. Mt 11,1-24). Gesù integra nella preghiera l’insuccesso, mette tutto davanti al Padre e conferma il suo “sì”, il suo “amen”, la sua decisione irrevocabile di adesione a Lui. Il suo “sì” al Padre non è condizionato dal successo della sua missione, ma è un’adesione radicale che anche situazioni sfavorevoli o contraddittorie non intaccano.

La preghiera di Gesù ringrazia il Padre non tanto per l’azione di nascondimento nei confronti di alcuni, quanto per l’azione di rivelazione nei confronti di altri. L’adesione di alcuni, definiti piccoli e semplici, che, credendo alla parola e alle opere compiute da Gesù, hanno colto in lui la rivelazione del Padre, diviene svelamento e giudizio del cuore di altri, la cui sapienza intellettuale e dotta si rivela inconsistente davanti alla semplicità dei piccoli: “Grande è la misericordia di Dio: egli rivela i suoi segreti agli umili” (Sir 3,20 secondo il testo ebraico).


 

Le parole di Gesù nei vv. 28-29 abbozzano un vero e proprio itinerario di sequela del discepolo. Abbiamo anzitutto la chiamata: “Venite a me”; quindi la necessaria rinuncia alla volontà propria per obbedire alla volontà del Signore (“prendete il mio giogo”). Per “volontà propria” non si intende la libera determinazione dell’uomo, ma la sua volontà egocentrica, autoreferenziale, “carnale”. Quindi c’è l’attitudine del discepolo, l’obbedienza del discepolo al suo maestro e Signore (“Imparate da me”) e infine il riposo, la pienezza di vita trovata nel Signore (“troverete riposo per le vostre vite”).

Il “giogo” di Gesù non designa dettami religiosi o comandi da eseguire, ma una relazione, un legame, onorando così l’etimologia della parola (l’indoeuropeo yug, cf. anche il sanscrito yoga) che designa l’azione di “riunire”, “mettere insieme”. Il giogo di Gesù leggero e soave è in continuità con il comando biblico di amare e con l’idea che colui che ama fa con gioia la volontà dell’amato. Anche l’atto di comandare l’amore, assurdo se posto in bocca a un terzo, è pienamente sensato se posto in bocca all’amante. L’amante può dire “Amami!”, l’amante può chiedere amore.

Gesù promette riposo a chi assume il suo giogo (cf. Mt 11,29). Un’esistenza credente che sia perennemente stressata dagli impegni pastorali e si configuri come frenetica attività che non conosce sosta e riposo, dimentica quell’affidamento a Cristo che è fonte di riposo nella fatica e di consolazione nelle contraddizioni. E che plasma il volto del credente non a immagine e somiglianza di manager iperattivi e sempre nervosi, ma del Cristo mite e umile, paziente e benevolo.

Al tempo stesso, un giogo resta un giogo e nulla toglie la fatica di portarlo. Amare è un lavoro impegnativo e la sequela Christi comporta sforzo e fatica. Di fronte alla tentazione diffusa di eliminare dal vivere ciò che è faticoso e comporta sofferenza in nome dell’idolatria del “tutto, subito e senza sforzo”, occorre ribadire che non si danno grandi realizzazioni umane e spirituali senza fatica, dedizione, sacrificio. Né possiamo dimenticare che il giogo dell’obbedienza portato da Gesù durante tutta la sua vita è divenuto, alla fine della sua vita, un portare la croce.

LUCIANO MANICARDI

Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno A
© 2010 Vita e Pensiero

Corpo e Sangue de Cristo


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26 Junho 2011
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
A Vida de Deus e a vida do Homem encontram-se no amor, no ágape, alimento que, de facto, nutre o Homem e realidade que constitui a vida de Deus: "Deus é amor".

Domingo 26 Junho 2011

Dt 8,2-3.14b-16a; Sal 147; 1Cor 10,16-17; Jo 6,51-58

Deus alimenta o seu povo; Deus dá alimento às suas criaturas. Esta afirmação atravessa as três leituras deste dia. No deserto Deus nutriu o seu povo com o maná (I leitura); Jesús é o pão dado por Deus para a vida do mundo (evangelho); o único pão, que é Cristo, nutre a comunidade cristã e fá-la participar na vida do seu Senhor (II leitura).

O alimento que vem de Deus e que permite ao seu povo continuar como peregrino no deserto, no exigente êxodo em busca da terra prometida (I leitura), é o pão do povo peregrino em busca do Reino, é o pão que tem uma valência escatológica; é o pão que dá a unidade à comunidade constituindo-a como único corpo (II leitura), radicando-a no dom de Deus e no seu amor, e tem por isso uma valência eclesiológica; é o pão vivo que assume o rosto e o corpo de Cristo, que reflete a sua vida e a sua humanidade, a sua carne e o seu sangue (evangelho) e enquanto tal, tem uma dimensão cristológica.

As palavras de Jesús: “Eu sou o pão vivo que desceu do cèu: quem comer deste pão viverá eternamente” (Jo 6,51) não devem ser compreendidas de imediato com um sentido eucarístico e referindo-se ao pão eucarístico. Estas palavras indicam Jesús como aquele que revela o Pai e que pode dar a vida ao mundo com a sua própria vida, com a interpretação da vida humana que Ele mostrou à humanidade na sua existência concreta. O "me comer" (cf. Jo 6,57), o “comer a minha carne e beber o meu sangue” (cf. Jo 6,53.54.56) remetem o discípulo para a operação espiritual de assimilar na própria vida, a vida de Cristo. Desta operação faz parte a fé, o crer, faz parte a escuta da Palavra das Escrituras, faz parte a prática, o fazer em concreto a vontade do Pai.  Não faz parte apenas o "comer" eucarístico.


 

A vida humana de Jesús (a sua carne e o seu sangue), como testemunhado nos Evangelhos, é o alimento de que cada crente é chamado a nutrir-se para que a vida de Jesús viva concretamente nele. A Igreja é o lugar em que a humanidade concreta de cada crente (a sua carne e o seu sangue) é chamada a igualar-se à humanidade de Jesús, à sua vida. Para que seja verdade que uma só vida, uma única vida una o Senhor e o seu discípulo. Ali, a Igreja manifesta-se como lugar de aliança entre o Senhor e o crente.

A vida eterna prometida a quem assimila a sua vida (cf. Jo 6,51.54.58), na realidade inicia-se aqui e agora para o crente. Trata-se de integrar a morte na vida fazendo da vida uma dádiva de si, um acto de amor no rasto de Jesús (cf. Jo 13,34). Como acto de amor é aquele pelo qual Jesús se entrega como alimento e bebida aos Homens. Como acto de amor é a morte de Jesús, amor que está na origem da ressurreição e da promessa de vida para sempre como Senhor no Reino.

Na afirmação de que Jesús é o pão que não provem da terra, mas do Céu e que é destinado a ser comido para dar a vida aos Homens reside o mistério e o escândalo da comunicação: para dar a vida é preciso perdê-la. Mas a vida que perco em mim, vejo-a florir noutro. Para dar aos Homens a vida de Deus, o filho de Deus entra na vida humana, participa da carne e do sangue (cf. Heb 2,14) e convida o homem a mudar, convida-o à relação, à participação, à comunhão. Convida o Homem a comer a sua carne e a beber o seu sangue, isto é, convida-o e torna-o capaz de participar na sua vida.  

A Vida de Deus e a vida do Homem encontram-se no amor, no ágape, alimento que, de facto, nutre o Homem e realidade que constitui a vida de Deus: "Deus é amor". (1Gv 4,8.16). A Eucaristia é o sacramento da caridade, do agape, em que o dom de Deus aos Homens é a narração absoluta do seu amor por eles e a fonte para se amarem como Cristo os amou.  A comunidade que nasce da Eucaristia é constituida pelo conjunto dos "doadores", por aqueles que são "capazes de se d(o)arem" porque eles próprios são "destinatários do dom" num circuito de doação que tem a sua origem no alto, em Deus. A comunidade que nasce da Eucaristia é formada por "aqueles que amam" ("Amai-vos uns aos outros" Jo 13,34) enquanto “amados” (“como Eu vos amei”: Jo 13,34).

LUCIANO MANICARDI

Comunidade de Bose
Eucaristia e Palavra
Textos para as celebrações eucarísticas - Ano A
© 2010 Vita e Pensiero

Pentecostes


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Domingo 12 Junho 2011
Reflessões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
Antes de ser capacidade de perdão no encontro com o outro, o Espírito ensina ao crente a reconhecer o mal que habita nele e a vencê-lo com o bem e com o amor. De resto, como pode fazer a paz fora de si, quem não a promoveu dentro de si?  

At 2,1-11; Sal 103; 1Cor 12,3b-7.12-13; Gv 20,19-23

Il dono dello Spirito celebrato a Pentecoste è intravisto dai testi biblici odierni come linguaggio della comunità cristiana che riesce a comunicare ad extra le opere di Dio (I lettura), come principio ordinatore che regola i doni e i ministeri all’interno della comunità secondo il principio dell’“utilità comune” (1Cor 12,7; II lettura), come forza escatologica che stabilisce la pace nella comunità e consente ai discepoli di rimettere i peccati (vangelo).

Lo Spirito crea relazione e innesta in Cristo le relazioni intra-ecclesiali, inter-ecclesiali e missionarie. Esso guida ciascuno e tutti nella comunità ad assumere i modi e i pensieri di Cristo in vista dell’edificazione dell’unico corpo: la chiesa.

Il vangelo stabilisce un nesso tra Spirito santo e remissione dei peccati. Il Risorto mostra ai discepoli le ferite delle mani e del costato e dona la pace e lo Spirito santo. Perdonare è donare attraverso le ferite ricevute, è fare del male subìto l’occasione di un gesto di amore, è creare pace con una sovrabbondanza di amore che vince l’odio e la violenza sofferti. Il Risorto ha vinto in se stesso, nella sua persona, con l’amore, il male patito e, manifestando ai discepoli la continuità del suo amore nei loro confronti, comunica loro anche la via per partecipare alla sua vita di Risorto: vincere il male con il bene, rispondere alla cattiveria con la dolcezza, far prevalere la grazia sulla vendetta e sulla rivalsa. Prima di essere capacità di perdono nei confronti di altri, lo Spirito insegna al credente a riconoscere il male che abita in lui e a vincerlo con il bene e l’amore. Del resto, come potrebbe stabilire la pace fuori di sé chi non ha stabilito la pace in se stesso? Come potrebbe amare il nemico esterno chi non ha cominciato a far prevalere l’amore sui nemici interiori e sull’odio di sé?


 

Frutto dello Spirito, il perdono è evento escatologico prima che etico. Tuttavia, il dinamismo umano del perdono è lungo e faticoso. Per perdonare occorre rinunciare alla volontà di vendicarsi; riconoscere che si soffre per il male subìto e che tale male ci ha privati realmente di qualcosa; condividere con qualcuno il racconto del male subìto; dare il nome a ciò che si è perso per poterne fare il lutto; dare alla collera il diritto di esprimersi; perdonare a se stessi (soprattutto il male subìto da persone amate o vicine suscita pesanti sensi di colpa che rischiano di imprigionare per tutta la vita); comprendere l’offensore, cioè guardarlo come un fratello che il male ha allontanato da me; trovare un senso al male ricevuto; sapersi perdonati da Dio in Cristo. Questo cammino il credente lo vive aprendosi alle energie dello Spirito che fanno regnare Cristo in lui e nei suoi rapporti.
Lo Spirito è dono e promessa: le due cose a un tempo. Come dono esso è verificabile nella vita del credente e della chiesa nei frutti di carità, pace, benevolenza, pazienza, mitezza; come promessa esso apre il futuro, suscita la speranza, dà una direzione di cammino. Nel nostro testo, lo Spirito è dono e impegno: dono del Risorto che impegna nella missione i discepoli. Missione che, avendo al suo cuore la remissione dei peccati, è essenzialmente far sperare, dare una forma vivibile al tempo degli uomini, dischiudere orizzonti di senso narrando il perdono di Dio.

Lo Spirito, in quanto dono di Dio, dona al credente e alla chiesa la forma Christi. Come il Risorto dona lo Spirito attraverso il suo corpo, corpo ferito e risorto, così lo Spirito, accolto dai discepoli, vivifica il loro corpo psicofisico (paralizzato dalla paura) e il corpo ecclesiale che essi formano (immobilizzato nella chiusura). Il Figlio, inviato dal Padre, ha donato agli uomini il volto e l’umanità di Dio, e ora dona loro il respiro, il soffio di Dio grazie a cui essi potranno donare al mondo, con i loro corpi, le loro vite e le relazioni che vivranno, la narrazione del volto di Cristo. Narrazione che nel donare il perdono trova il suo momento più alto. Non a giudicare o a condannare è chiamata la chiesa ma a narrare la grande opera del Dio che ha risuscitato Gesù dai morti: la remissione dei peccati, il perdono.

LUCIANO MANICARDI

Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno A
© 2010 Vita e Pensiero

V Domingo de Páscoa


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22 Maio 2011
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
Jesús, com as suas palavras, faz, da sua partida e do vazio que ela deixa, uma ocasião de renascimento para os seus discípulos. Pedindo fé, pressiona-os a transformar o medo do novo e o terror do abandono na coragem de se darem, apoiando-se no Senhor; 

domenica 22 maggio 2011

At 6,1-7; Sal 32; 1Pt 2,4-9; Gv 14,1-12

Il Cristo risorto, andato al Padre (vangelo), è il fondamento dell’edificio spirituale che è la chiesa (II lettura): è in riferimento a lui, con la preghiera che guida il discernimento, che i credenti affrontano i problemi della comunità cristiana cercando di farlo regnare sulla vita della comunità (I lettura).

Il Cristo che lascia i suoi discepoli e sale al Padre chiede loro la fede (cf. Gv 14,1.10.11.12); la chiesa fondata sul Crocifisso Risorto è l’insieme dei credenti chiamati a “offrire sacrifici spirituali graditi a Dio” (1Pt 2,5): il riferimento è certamente alla liturgia, ma più estesamente al culto nell’esistenza quotidiana, a fare del quotidiano il luogo dell’adorazione di Dio in cui il credente offre il proprio corpo in “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1); i problemi organizzativi della comunità, che rischierebbero di  soffocare ciò che è essenziale nella chiesa, devono essere risolti in modo da far sempre emergere il primato della Parola di Dio e il suo servizio. La predicazione stessa deve sempre essere innestata nella preghiera: “Di che utilità potrebbe mai essere una predicazione disgiunta dalla preghiera? In primo luogo viene la preghiera, e dopo la parola, come dicono gli apostoli: ‘Noi ci dedichiamo alla preghiera e al ministero della parola’ (At 6,4)” (Giovanni Crisostomo).

Che il Cristo risorto sia “pietra scartata dai costruttori, ma scelta da Dio e divenuta pietra angolare” (1Pt 2,7; cf. Sal 118,22), è importante per quanti si trovano a vivere “vite di scarto” (Zygmunt Bauman), a essere rigettati ai margini della società o del mondo o del loro gruppo o della chiesa. Dio sceglie ciò che nel mondo è disprezzato e insignificante, sceglie “la spazzatura del mondo” (1Cor 4,12) per confondere i costruttori mondani e le loro costruzioni che si reggono su criteri di efficienza e produttività, che richiedono conformismo e omologazione, che vogliono che le pietre sino morte e non vive. Una pietra viva, fedele eco del Crocifisso Risorto, è un ossimoro intollerabile per la razionalità mondana e abbisogna di essere scartata.


 

Il vangelo presenta l’addio di Gesù ai suoi. L’addio è l’ultimo saluto che intercorre tra chi se ne va per sempre e chi resta. Ma l’addio, e più che mai l’addio pronunciato da Gesù, è anche una promessa: ad Deum. Con l’ad-Dio il futuro, proprio e degli altri, è posto in Dio. Gesù, che ha sempre vissuto le sue relazioni nell’ad-Dio, cioè davanti a Dio e per Dio, vi pone anche il suo futuro. Che è anche il futuro di chi è “suo”, di chi “crede in lui” (cf. Gv 14,12). Infatti, il Figlio è nel Padre e il Padre è nel Figlio (cf. Gv 14,10), e il discepolo che rimane nel Figlio (cf. Gv 15,1-7), rimane anche nel Padre (cf. 1Gv 2,24). Se così va inteso l’ad-Dio, allora ogni nostra relazione dovrebbe restare sotto il suo segno, cioè sotto il segno dell’apertura e dell’invocazione all’Altro che salva le relazioni con gli altri dai rischi dell’assolutismo, della tirannia, della violenza.

Dopo aver annunciato la sua partenza, Gesù ha dato ai discepoli il comando dell’amore (cf. Gv 13,33-34) e ora chiede loro di aver fede e di non essere turbati (cf. Gv 14,1). Di fronte a un distacco si prova dolore per la persona che se ne va, ma anche smarrimento e ansia per il futuro proprio e della propria comunità che era legata vitalmente alla presenza che ora non è più. La dipartita di Gesù è crisi per la comunità dei suoi discepoli. E il turbamento del cuore non riguarda solo la sfera emotiva e dei sentimenti, ma indica anche la paralisi della volontà e della capacità di prendere decisioni, l’annebbiamento dell’intelligenza e del discernimento. Gesù, con le sue parole, sta facendo della sua dipartita e del vuoto che egli lascia un’occasione di rinascita dei suoi discepoli. Chiedendo fede, li spinge a trasformare la paura del nuovo e il terrore dell’abbandono nel coraggio di donarsi appoggiandosi sul Signore; promettendo che va a preparare un posto per loro, egli vive la sua partenza in relazione con chi resta e mostra che non li sta abbandonando, ma sta inaugurando una fase nuova e diversa di relazione con loro. Il distacco è in vista di una nuova accoglienza (cf. Gv 14,2-3).

LUCIANO MANICARDI

Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno A
© 2010 Vita e Pensiero

Santíssima Trindade


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Domingo 19 Junho 2011
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
O Deus trinitário é o Deus que não existe sem o Homem. E o Homem, colocando-se em Cristo pela fé e deixando-se guiar pelo Espírito habita o agape, o amor, conhecendo assim a comunhão com Deus.

Es 34,4b-6.8-9; Cant. Dn 3,52-56;
2Cor 13,11-13; Gv 3,16-18

domenica 19 giugno 2011

Le tre letture bibliche orientano l’odierna celebrazione della Triunità divina verso la contemplazione del Dio estroverso, del Dio che si comunica all’uomo, del Dio il cui amore è per il mondo, insomma del Deus pro nobis. Del resto, il dogma trinitario non è altro che “lo sforzo ostinato di andare sino in fondo all’affermazione giovannea per cui ‘Dio è amore’ (1Gv 4,8)” (Rémi Brague).

Dopo il peccato del vitello d’oro, Dio si manifesta una seconda volta ai figli d’Israele scendendo sul Sinai per comunicare loro il suo Nome che lo rivela quale compassionevole e misericordioso, capace di grazia e di perdono. È il Dio condiscendente, che scende per raggiungere l’uomo nel suo peccato (I lettura). Il vangelo presenta il Dio che ama a tal punto il mondo, l’umanità, da donare il suo Figlio per la salvezza del mondo. Il figlio unico è tutta la vita di un padre, è ciò che egli più ama di tutto ciò che ama: il Dio che dona il Figlio è il Dio mosso da amore folle. Vi è un eccesso nell’amare di Dio e questo eccesso è il Figlio Gesù Cristo. La benedizione presente nella seconda lettura vuole stabilire la presenza di Dio nella comunità dei cristiani di Corinto. Questi sono pertanto esortati ad accogliere e a lasciar operare tra di loro la grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito santo.

Sempre la presenza di Dio necessita di una mediazione umana per essere colta come presenza di benedizione e di amore. Mosè, innocente del peccato commesso dai figli d’Israele, si mette liberamente nel novero dei peccatori (“perdona la nostra colpa e il nostro peccato”: Es 34,9) per intercedere presso Dio a favore del popolo. Gesù narra con la prassi della sua vita e con la sua auto-donazione l’amore folle di Dio per gli uomini. Paolo, con il suo ministero e la sua paternità apostolica, cerca di fare della comunità di Corinto una dimora del “Dio dell’amore e della pace” (2Cor 13,11).

L’azione del Dio trinitario è perdono (I lettura), amore (vangelo), comunione (II lettura) e può essere esperita grazie alla fede (vangelo).


 

“Così, infatti, Dio amò il mondo, che diede il suo unigenito Figlio” (Gv 3,16). Letteralmente, questo è l’inizio del nostro testo evangelico. Che sottolinea la modalità dell’amore di Dio, modalità che rinvia a quanto detto nei versetti precedenti che parlano della necessità dell’innalzamento del Figlio dell’uomo (cf. Gv 3,14-15) fondandola sulla continuità con il gesto di Mosè che innalzò il serpente nel deserto affinché chiunque lo guardasse, avesse vita. C’è dunque un così, una modalità, una forma dell’amore di Dio che è anzitutto fedeltà. Fedeltà di Dio al popolo con cui si è legato in alleanza, alla storia condotta con il popolo, al suo Nome in cui la misura della misericordia sovrasta di gran lunga la misura del giudizio (cf. Es 34,6-7). Si tratta di fedeltà a colui che è infedele e di amore per colui che non vi corrisponde: la fedeltà e l’amore di Dio diventano la sua responsabilità nei confronti degli uomini peccatori. Solo così l’amore di Dio è davvero per il mondo, per l’umanità tutta, per ogni uomo. E solo così il suo amore, unilaterale e incondizionato, non condanna, ma salva.

Così Dio amò. La forma verbale del verbo amare rinvia a un evento storico preciso: la morte in croce di Gesù (cf. Rm 5,8). L’amore di Dio manifestato sulla croce assume la forma dello scandalo, dell’eccesso che, nella sua unilateralità e smisuratezza, sconvolge i parametri umani di reciprocità, corrispondenza e contraccambio dell’amore. Il dono sovrabbondante insito nell’evento della croce è il perdono di Dio, l’amore che Dio già predispone per colui che pecca e che peccherà.

Così Dio amò. Il Dio che ama è anche il Dio che soffre. Donare il Figlio è mettere a rischio la propria paternità pur di non rinunciare a cercare comunione con gli uomini. Il Dio trinitario è il Dio che non sta senza l’uomo. E l’uomo, situandosi per fede in Cristo e lasciandosi guidare dallo Spirito abita l’agape, l’amore, e così conosce la comunione con Dio. Con il Dio che è amore. L’agape, infatti, è il cuore della vita trinitaria.

LUCIANO MANICARDI

Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno A
© 2010 Vita e Pensiero

 

Ascensão do Senhor


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Ler mais: Ascensão do Senhor
Domingo, 5 Junho de 2011
Reflexões sobre as leituras 
de
LUCIANO MANICARDI
A figura de Mestre que o Evangelho constrói, na esteira de Jesús de Nazaré, que é, ao mesmo tempo, Mestre e matéria de ensino, é também de uma testemunha: não se pode ensinar o Evangelho sem o viver.

domenica 5 giugno 2011

At 1,1-11; Sal 46; Ef 1,17-23; Mt 28,16-20

Gesù, che “è stato assunto fino al cielo” (At 1,11), che il Padre “fece sedere alla sua destra nei cieli” (Ef 1,20) e che da Dio ha ricevuto “ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18), fa della sua assenza fisica una presenza invisibile, una compagnia nei confronti dei suoi discepoli: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). L’esito del dono della vita per i suoi amici, gli uomini, è l’essere con loro per sempre, in modo misterioso, ma reale.

“Là dove ci ha preceduto la gloria del capo, è chiamata altresì la speranza del corpo”, afferma Leone Magno a proposito dell’ascensione (Sermo 73,4). E la seconda lettura parla espressamente della speranza dischiusa dalla vocazione cristiana, dal Cristo risorto e asceso al cielo (cf. Ef 1,18); speranza escatologica, ma che inserisce pienamente nella storia i cristiani chiamandoli alla testimonianza in forza dello Spirito santo (I lettura); speranza retta dalla vicinanza e dalla compagnia del Risorto nei confronti dei discepoli che si vedono così sostenuti nel loro impegno quotidiano di servizio al vangelo (vangelo).

Il vuoto lasciato dall’ascensione di Gesù deve essere colmato dalla testimonianza (cf. At 1,8) e dall’insegnamento (cf. Mt 28,20) dei discepoli. Le due cose sono distinte, ma anche strettamente connesse. Insegnare significa fare segno (in-signare), dare simboli e chiavi ermeneutiche della realtà. Insegnante credibile è colui che vive in prima persona ciò che insegna e che vive di ciò che insegna. O almeno, cerca di farlo. La figura di maestro che il Vangelo costruisce, sulla scia di Gesù di Nazaret che è al tempo stesso maestro e insegnamento, è anche quella di un testimone: non si può insegnare il Vangelo senza viverne. Il Vangelo, infatti, è il comando lasciato dal Signore ai suoi: “Insegnate … tutto ciò che ho comandato a voi” (Mt 28,20).


 

Il mandato di insegnare e fare discepole le genti è un compito generante e significa educare alla fede, trasmettere la fede, esercitare un compito di paternità che introduca l’uomo alla relazione con Dio. Questo il compito della chiesa nella storia “fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Compito che la chiesa può assolvere se si affida alla promessa del Risorto: “Io sono con voi fino alla fine del mondo”. Queste parole non sono una garanzia, ma una promessa: e a una promessa si fa credito, ci si affida, senza altre garanzie che l’affidabilità di colui che ha parlato. Il quale, promettendo, ha promesso se stesso, la sua presenza. Inoltre, quelle parole “Io sono con voi” devono essere lasciate in bocca al Signore: sono completamente stravolte se poste sulla bocca di uomini che dicono: “Dio è con noi”. Questa non è più la promessa di un Altro a cui ci si affida ogni giorno con umiltà, timore e tremore, ma affermazione umana che fonda una pratica violenta e impositiva, arrogante e aggressiva.

Le parole “Io sono con voi” stanno nello spazio della fede e della speranza, le parole “Dio è con noi” stanno nello spazio della certezza e del sapere (e nascondono illusione e menzogna): se le prime aprono il futuro (e lo aprono indefinitivamente: “fino alla fine del mondo”), le seconde lo chiudono irrimediabilmente. Trasmettere la fede è dunque anche donare speranza.

La promessa solenne del Risorto evoca la formula di alleanza per cui Dio si lega al popolo (“Io sarò il vostro Dio”), e soprattutto evoca la presenza di Dio in mezzo al popolo, nel tempio. Quelle parole fondano dunque la comunità cristiana come luogo della presenza santa di Dio, come tempio, ma tempio di corpi e di relazioni. La promessa “Io sono con voi” impegna il “voi” a perseverare, a rimanere nella carità fraterna, nei legami reciproci, e a far regnare su di essi il Nome di Dio (“Io sono”) rivelato dal volto di Gesù di Nazaret. La presenza del Signore viene sperimentata come dono grazie alla fedeltà dei credenti. A sua volta, la faticosa fedeltà quotidiana (“tutti i giorni”) dei credenti è sostenuta dalla speranza suscitata dalla promessa: “Con la tua promessa mi hai fatto sperare” (Quoniam promisisti, me sperare fecisti: Agostino, Enarr. in Ps. 118,15,1).

LUCIANO MANICARDI

Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno A
© 2010 Vita e Pensiero

IV Domingo de Páscoa


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15 Maio 2011
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
A Revelação de Jesús, enquanto Pastor, é, também, juízo de quem é ladrão, bandido, estranho. Se o Pastor Jesús veio para dar a vida

domenica 15 maggio 2011

At 2,14.36-41; Sal 23; 1Pt 2,20b-25; Gv 10,1-10

La quarta domenica di Pasqua contempla il Risorto quale pastore della chiesa. Il pastore indica al gregge la via da percorrere e il Cristo-Pastore indica alla chiesa la via che essa deve seguire. Via che, secondo la prima lettura, si chiama conversione. “Convertitevi” (Metanoésate: At 2,38), risponde Pietro alle folle di Gerusalemme che gli chiedevano: “Che cosa dobbiamo fare?” (At 2,37). L’attività pastorale degli apostoli suscita un itinerario che, a partire dall’ascolto della parola predicata e dalla fede, si dipana in alcune tappe: conversione; battesimo; remissione dei peccati; effusione dello Spirito. Tutto questo conduce all’aggregazione alla comunità cristiana (cf. At 2,41). La seconda lettura mostra il modello di questo cammino di salvezza: Cristo. Il Cristo che ha sofferto la passione e la morte lascia ai suoi seguaci un tracciato affinché seguano le sue orme (cf. 1Pt 2,21). Così essi, come pecore prima smarrite, possono tornare al loro pastore e custode (cf. 1Pt 2,25). Il vangelo ribadisce che Cristo è la porta attraverso cui deve passare il cammino del discepolo: si tratta di un cammino spirituale di ascolto, sequela e conoscenza del Signore.

La rivelazione di Gesù quale pastore diviene anche giudizio di chi è ladro, brigante, estraneo. Se il pastore Gesù è venuto per dare la vita e perché gli uomini abbiano la vita in abbondanza, ladri e briganti invece vengono per “rubare, sacrificare (la Bibbia CEI traduce “uccidere”) e far perire” (Gv 10,10). Di costoro Gesù dice che “sono venuti prima di me”, ma questo non va inteso in senso cronologico, quasi che si riferisse ai personaggi della prima alleanza. Ignazio di Antiochia ha compreso bene: “Cristo è la porta del Padre, attraverso la quale entrano Abramo, Isacco e Giacobbe, i profeti, gli apostoli e la chiesa” (Ai Filadelfesi IX,1). Si tratta invece dei falsi messia che si presentano agli uomini avanzando la pretesa di essere dei salvatori: quand’anche venissero dopo (cronologicamente) rispetto a Gesù, essi rientrerebbero nel novero degli usurpatori qui intravisti. Il criterio discriminante che dice l’autenticità della missione è nel sottrarre per sé o nel donare, nel portare morte o nel portare vita. In particolare viene condannato il sacrificare: ovvero, il togliere vita in nome di Dio, il servirsi delle persone per fini religiosi fino ad annientarle, l’usare il nome di Dio e la religione per fare violenza, il togliere la libertà alle persone dando forma nuova agli antichi sacrifici umani.


 

Ladro e brigante è chi si erge a padrone del gregge considerando “sue” le persone che appartengono a Cristo. Il Sal 100 recita: “Riconoscete che il Signore è Dio, è lui che ci ha fatto e non noi, noi siamo suo popolo e gregge del suo pascolo” (Sal 100,3). Non noi, ma tu, Signore; non io, ma tu, Signore. Questa confessione della nostra radicale povertà – non io, ma tu –, è anche la condizione della preghiera, il movimento della fede e dell’amore che nasce dalla rivelazione che Gesù, il Cristo crocifisso e risorto, è il pastore delle pecore.

Gesù si autodefinisce porta delle pecore, cioè per le pecore, non porta del recinto. Il termine “recinto” è espresso in greco dal vocabolo aulé che si riferisce normalmente non a un ovile, ma al vestibolo davanti al tabernacolo o al tempio (cf. Es 27,9; 2Cr 6,13; 11,16; Ap 11,12). Ovvero, la porta che immette nella comunione con Dio non è il tempio di Gerusalemme, ma il Cristo morto e risorto. Se Cristo è la “porta” che conduce alla salvezza (Gv 10,9) e se la porta fa parte dell’edificio a cui permette l’accesso, Gesù è al tempo stesso il mediatore della salvezza e la salvezza stessa. Gesù è la Via verso il Padre, ma è anche la Vita (Gv 14,6): in Gesù troviamo la vita del Padre.

Il pastore “fa uscire” le sue pecore (Gv 10,3: Vulgata: educit). Il pastore immette in un cammino di esodo, dunque di liberazione. Compito del pastore è educare alla libertà. Egli chiama per nome ciascuna delle sue pecore e le educa conducendole a vivere in nome proprio. L’educazione è il luogo dell’assunzione della responsabilità nei confronti di chi viene dopo di noi; è uno degli aspetti del ministero pastorale.

LUCIANO MANICARDI

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