Que espiritualidade para o homem contemporâneo?


Warning: Invalid argument supplied for foreach() in /home/monast59/public_html/templates/yoo_moustache/styles/bose-home/layouts/article.php on line 44

Turim, 4 Outubro 2010
Correspondendo ao convite do Cardeal SEVERINO POLETTO
Conferência de ENZO BIANCHI
Deve-se afirmar com clareza que a vida interior não é uma vida em oposição à nossa vida material, à nossa existência quotidiana (texto integral em italiano)

Torino, 4 ottobre 2010
Centro congressi del Santo Volto

Conferenza di ENZO BIANCHI
Priore di Bose

1.   La vita interiore, esperienza umana

La vita interiore è un’esperienza che appartiene a ogni uomo. Non è monopolio dei credenti o dei cristiani: ogni uomo vive una dimensione interiore, vive – possiamo dire – «spiritualmente», cioè vive con una consapevolezza, una coscienza, un pensare, una ricerca che è propria dell’essere umano e trascende la natura animale. La vita interiore o spirituale è una dimensione dell’esperienza umana in quanto tale, nella quale si decide e si cerca il senso della vita.

Ognuno di noi sa che è venuto al mondo, è cresciuto, si è umanizzato interrogando, ponendo a chi era già nel mondo delle domande, dei «perché», e poi ponendo queste stesse domande a se stesso, nel corso della propria crescita. Ognuno di noi, come se possedesse una fiducia originale nella vita, è cresciuto cercando, si è costituito anche ponendo domande. È ponendo e ponendosi domande, fin dalla fanciullezza, che un essere un umano viene al mondo, si colloca nel mondo e trova dei riferimenti per sapere ciò che lui è e vuole essere. Ecco, così è nata in ciascuno di noi la vita interiore, che abbiamo potuto sviluppare consapevolmente oppure lasciare in una dimensione minima, senza custodia, schiacciata da «quell’omologazione dell’intimo cui tendono le società conformiste» (Umberto Galimberti), fenomeno sociale che ammorba l’atmosfera in cui viviamo.

C’è vita interiore quando non ci si lascia vivere, quando non si permette ad altri di decidere e pensare per noi, quando non ci si accontenta di certezze già confezionate ma si è capaci di aprirsi alle domande poste dalla vita, alla domanda di senso e si è disposti, anche a fatica, a tentare di dare una risposta personale. Una vera vita umana deve sì avvenire nella comunicazione con gli altri, ma non deve essere debitrice di soluzioni che gli altri trovano per noi: no, ognuno è chiamato a trovare in sé, in un cammino di vita interiore, la fonte del senso.

Infine, si deve affermare con chiarezza che la vita interiore non è una vita contrapposta alla nostra vita materiale, alla nostra esistenza quotidiana; anzi, è una vita vissuta nel corpo, nella storia, nell’umanità senza possibili evasioni o esenzioni: è un modo di pensare, di sentire e di agire concreto, con gli altri e tra gli altri. Insomma, senza la vita interiore non si dà alcun cammino di umanizzazione: solo proporzionalmente allo sviluppo della vita interiore c’è la possibilità di costruire la propria personalità, di trovare senso e significato nella vita, di giungere a una soggettività responsabile e autonoma.

2.   Un viaggio, un cammino

Tutti quelli che hanno fatto un’esperienza spirituale seria, profonda e durevole, e perciò tutti i maestri di spiritualità, descrivono la vita interiore come un itinerario, un viaggio, un cammino, un pellegrinaggio. Questa simbolica ben si adatta alla vita interiore e spirituale, perché in essa ci sono degli inizi, ci sono degli esodi, c’è un lasciare certe situazioni vissute e conosciute per andare verso nuove mete, verso nuove esperienze. Si è parlato a volte di un tendere verso l’alto, di una scala da salire; altre volte, invero più raramente, di discesa oppure di traversata di deserti in cui si incontrano diverse difficoltà, che scoraggiano o invitano a tornare indietro. Ha detto Eraclito con lapidaria intelligenza: «La scala che scende e che sale è sempre la stessa» (frammento 60 [DK]).
L’uomo sente dentro di sé, nel proprio cuore un invito, una voce segreta che lo chiama a lasciare, ad abbandonare ciò che sta vivendo, per intraprendere un cammino: c’è una nuova strada da percorrere! «Lekh lekha! Va’ verso te stesso!» (Gen 12,1), è la voce sentita da Abramo quando ha intrapreso il suo viaggio di credente: il viaggio geografico che lo avrebbe portato da Ur dei Caldei fino alla terra promessa si è compiuto  innanzitutto nella sua vita interiore, tramite una discesa nelle profondità del suo cuore. In questo senso è significativo che i padri orientali, in particolare Gregorio di Nissa, leggano il cammino della vita interiore, simboleggiato nell’esperienza di Abramo, come un’ékstasis, un’uscita da sé.

Ma nessuna illusione: il viaggio, il cammino non è mai assicurato né si presenta come un avanzare diretto verso la meta, non è «un’inarrestabile ascesa» (Sal 49,19); anzi, è un cammino in cui si vivono molte contraddizioni, in cui sono possibili degli avanzamenti insperati ma anche delle regressioni impensabili, come appare anche nell’esperienza della vita psicologica e affettiva… È un cammino umano, segnato dai punti di forza e dalle debolezze che contraddistinguono ogni uomo, chiamato alla libertà ma tentato di restare schiavo degli idoli falsi che in radice sono sempre – non lo si dimentichi – «un errore antropologico» (Adolphe Gesché), una contraddizione al cammino di umanizzazione che è compito di ciascuno di noi. Viaggio dunque per rientrare in sé, per andare al cuore delle cose e comprenderle dal di dentro.

3. Nasce con la domanda

C’è qualcosa che è essenziale a un’autentica vita interiore, a un itinerario spirituale che sia veramente capace di umanizzazione e sia possibile per ogni uomo, religioso o no, cristiano o non cristiano, ateo o agnostico? Sì, noi rispondiamo: è innanzitutto necessario – come si è già accennato – farsi delle domande, sapersi interrogare. Tutti abbiamo delle domande che ci abitano, delle voci che affiorano dal nostro profondo, ma occorre ascoltarle, lasciarle emergere e quindi esaminarle e assumerle. Come non ricordare le parole con cui Rainer Maria Rilke invitava un giovane poeta ad «aver care le domande per se stesse»?
Ci sono domande senza risposta facile, ci sono domande che restano tali e devono accogliere l’enigma, ma occorre comunque farle e ascoltarle; a volte infatti sono per noi più decisive delle eventuali risposte, che a volte non sono possibili. In proposito si pensi solo alla domanda: «Perché il male, la sofferenza, la morte?». Chi non si fa domande vive costantemente alla superficie di se stesso: fatiche, emozioni, reazioni, gioie e sofferenze, tutto succede, ma tutto annega l’io profondo, tutto appare con poco senso…
Le domande essenziali della vita sono ben riassunte da Teodoto (metà del II sec. d.C.). Si tratta di domande purtroppo non sufficientemente trasmesse e ricordate, forse perché provenienti dal mondo gnostico: «Chi sono io? Da dove vengo? Dove vado? A chi appartengo? Da cosa posso essere salvato?». L’attitudine interrogativa dice che il senso non è presupposto né subito o immediatamente disponibile: ecco perché la domanda è il terreno della vita spirituale, apre alla ricerca, ha bisogno di libertà.

4. Conosci te stesso

Nel V secolo a.C. Socrate chiedeva ai suoi discepoli ciò che era scolpito sul frontone del tempio di Apollo a Delfi: «Uomo, conosci te stesso» (gnôthi sautón). La conoscenza di sé è indispensabile per percorrere l’itinerario della vita interiore. È vero, tale conoscenza non è mai piena: ciascuno resta un mistero anche a se stesso e a volte può apparire addirittura un enigma con ombre e lati oscuri che non vorrebbe vedere, e che magari stigmatizza negli altri… E tuttavia è assolutamente necessario conoscere se stessi, per sapere ciò di cui si è capaci, quali sono i propri limiti e le proprie forze, per essere responsabili. Conoscere se stessi come processo di lettura psicologica di sé; conoscere se stessi nell’appartenenza a una porzione precisa di umanità; conoscere se stessi per avere di sé un giusto giudizio.

In questo lavoro di conoscenza di sé non è sempre possibile distinguere tra lo spirituale e il psicologico. Alcuni hanno la tendenza a confondere queste due dimensioni, riducendo l’una all’altra; ma in verità vita spirituale e vita psicologica si intersecano a tal punto che nelle manifestazioni esterne della prima resta impossibile operare una distinzione. Sappiamo per esperienza che errori di spiritualità possono diventare patologie psichiche (qualche volta anche con esiti somatici) e che, viceversa, patologie psichiche possono influenzare la spiritualità. L’essere umano è più unito di quanto crediamo: corpo, psiche e spirito hanno una profonda relazione reciproca, e i confini tra loro sono molto fluidi. E tuttavia non va dimenticato che la psicologia lavora nel registro dell’analisi e dell’interpretazione dei fenomeni psicologici, che stanno nello spazio delle scienze umane, mentre la spiritualità vive di un altro livello di senso: l’orientamento ultimo della vita umana e il suo significato.
Ognuno di noi esiste perché è stato generato, dunque ci sono i genitori che lo precedono; ognuno di noi esiste in un tempo e in un luogo particolari, dunque è venuto e viene ogni giorno al mondo ora e qui; ognuno di noi sta in mezzo ad altri, dunque con altri è in rapporto. Conoscere se stessi significa pertanto innanzitutto aderire alla realtà, conoscere la propria relazione con la storia, gli altri, il mondo, perché è così che ciascuno di noi esiste ed è coinvolto. Molti cammini spirituali appaiono a volte sterili, quando non negativi e disumanizzanti, perché mancano di adesione alla realtà. È estremamente pericoloso iniziare il cammino interiore o spirituale senza sentirsi come gli altri, in mezzo agli altri, bisognosi degli altri e mai senza gli altri! Quante derive nella vita interiore e spirituale da parte delle persone che si isolano, che non ascoltano più, che vivono solo delle proprie certezze e delle proprie scoperte…

Conoscere se stessi è quindi un compito, una fatica, un esercizio quotidiano e richiede di guardare, scrutare, esaminare il proprio sentire, parlare e agire. Oggi noi abbiamo la grazia delle scienze umane che rendono all’esperienza spirituale un grande aiuto e un grande servizio: possono infatti guidare la persona a una giusta conoscenza di sé e possono essere veicoli di sapienza e strumenti di liberazione. Senza una certa conoscenza di sé è quasi impossibile lo sviluppo della vita interiore, perché io sono ciò che sono, cioè anche tutto ciò che mi ha fatto, che ha contribuito alla formazione del mio io.
Sì, esercitandosi a conoscere se stessi già si percorre il viaggio interiore!

5. Una ricerca di senso… mai senza l’altro

Nella vita spirituale – come si è detto – c’è una ricerca di senso e questo dato resta innegabile, anche se oggi c’è chi asserisce che nella società della tecnica si possa fare a meno di tale ricerca. Certamente la ricerca di senso è minacciata in una società segnata da un comportamento sociale e da una cultura individualista, perché il senso non è dato in sé ma è dato nell’intersecarsi delle relazioni tra il soggetto e gli altri, tra il soggetto e la realtà, tra il soggetto e un fine intravisto. Affinché emerga il senso è necessario che ci siano legami, relazioni, affetti, scopi e fini, perché solo così ci possono essere orientamenti, solo così ci si può situare. Il senso nasce dalle relazioni, nasce – oserei dire – dalla comunione, dalla comunicazione, mentre l’individualismo significa non-legami, non-luoghi, disorientamenti, autoreferenzialità: l’individualismo compromette la ricerca di senso.

Per questo la vita spirituale è a servizio della persona, non di un individualismo centrato su se stesso. Ogni uomo, ogni donna è un soggetto singolare, unico, ma sempre un soggetto di relazione in mezzo agli altri e con gli altri. Ognuno di noi è persona, cioè un soggetto che risuona – secondo la suggestiva etimologia che fa derivare questo termine dal verbo per-sonare – per l’altro, e ognuno di noi può raggiungere il proprio sviluppo e realizzare la propria crescita nella relazione con gli altri: genitori, fratelli e sorelle, amici, educatori, compagni, figli… Non c’è pertanto spiritualità autentica fondata solo sulla preoccupazione di sé, sulla cura di sé, perché l’altro, gli altri devono trovare spazio, collocazione e relazione nella mia vita. Ognuno ha bisogno dell’altro e l’altro è sempre ciò che mi manca: mai senza l’altro, perché dell’altro ho bisogno per essere me stesso. «È la reciprocità instaurata», dice Paul Ricoeur, «che istituisce l’altro come mio simile e istituisce me stesso come simile dell’altro».

Dunque ricerca di senso, ricerca del bene, ricerca della felicità sempre presenti in ogni itinerario spirituale non possono consistere soltanto nella cura e nella realizzazione di se stessi: una vita spirituale vissuta individualmente, in modo intimistico non può aiutare l’umanizzazione! Solo chi si sente in relazione con gli altri, chi cerca la comunione con gli altri, chi non si vergogna di chiamare tutti fratelli è capace di percorrere con fecondità il cammino spirituale, che è sempre un cammino umano, cioè di un uomo appartenente all’umanità, di un uomo che è sempre fratello di un altro uomo. Se uno volesse fare un cammino spirituale fuggendo gli altri, o addirittura disprezzando gli altri, sarebbe condannato a un autismo psicologico in cui non c’è spazio né per la creatività né per una vera crescita umana…

«Nessun uomo è un’isola» questa lapidaria affermazione di John Donne ha potuto significativamente essere usata da un monaco solitario come Thomas Merton come titolo per le sue riflessioni autobiografiche.

6. Un itinerario che abbisogna di solitudine, silenzio, libertà

Per conoscere se stessi, per comprendersi e interpretarsi occorrono delle condizioni che favoriscano questo lavoro interiore, che permettano di concentrare gli sguardi e di resistere alla dissipazione: occorre raccogliere le forze per «andare a fondo», per scendere nelle proprie profondità e sperimentare la vita spirituale quale processo di gravidanza, in cui si prende forma, si è generati, si rinasce – Gesù parla in proposito di «rinascita dall’alto», grazie allo Spirito santo (cf. Gv 3,3-8) –, si fa emergere ciò che è in noi e che noi non siamo ancora.

La solitudine appare in questo senso come una prima necessità. Ma si faccia attenzione: non si tratta della solitudine-isolamento che è negativa per ogni uomo, bensì della solitudine come dimensione in cui essere soli con se stessi e prendere le distanze da tutto ciò che nel quotidiano è una presenza ingombrante. Sappiamo bene quale fatica comporti l’introdurre nella nostra vita spazi e momenti di solitudine: apprensione, ansia, anche disgusto ci possono invadere quando incominciamo a stare in solitudine, in disparte; passare dall’agitazione delle preoccupazioni quotidiane alla solitudine non è spontaneo ma richiede una decisione, uno sforzo di volontà. In verità le distrazioni ci piacciono, il rumore interiore ci tiene compagnia, la presenza di altre voci e di diverse immagini ci avvolge e ci protegge da noi stessi, da ciò che siamo in verità. «Diventa ciò che sei!» esortava Pindaro, ma noi resistiamo a questa chiamata profonda che ci abita.

Se c’è vera solitudine c’è anche il silenzio, da intendersi non come mutismo ma come distanza dalle voci, come possibilità di un ascolto «altro», ascolto di ciò che non è rumore, chiasso, tono alto di voce, di ciò che non si impone e tuttavia parla: sì, perché anche il silenzio è eloquente, parla e può essere ascoltato (cf. 1Re 19,12). La vita interiore ha bisogno di un tempo di silenzio, che consenta ai nostri sensi di funzionare in modo semplice e naturale, senza essere sollecitati artificialmente; ha bisogno di uno spazio «in disparte», di una volontà non di fuga ma piuttosto di raccoglimento: nel linguaggio corrente si dice appunto che occorre ritrovare se stessi – espressione curiosa! –, a indicare che si può essere perduti, smarriti…

Silenzio e solitudine permettono anche il fiorire della libertà personale, attraverso un lavoro di umanizzazione progressiva, di crescita della capacità critica in grado di giudicare e discernere tutte le offerte, di assunzione della soggettività. Bisogna saper dire «io» nella vita interiore, anzi imparare a dirlo, per poter dire anche «noi» in modo autentico. Va detto in modo forte: per poter vivere un cammino spirituale occorre assolutamente la libertà, una libertà sottomessa alla prova ma sempre da afferrare e da confermare per poter avanzare. Essere liberi desta paura, soprattutto nello spazio interiore dove forza d’inerzia, tentazioni di benessere, incombenti sonnolenze sono sempre efficaci e attive. Ogni uomo è chiamato a scrivere lui stesso la propria storia; non c’è fato né necessità e nulla è predeterminato. La creazione, il fare della propria vita un’opera d’arte hanno assoluto bisogno della libertà: e non c’è libertà né liberazione possibile senza la libertà interiore.

7. Un itinerario per tutti

Fin qui ho voluto tratteggiare la vita interiore e spirituale come esperienza e itinerario possibile a ciascuno: sono infatti convinto che la vita interiore è un modo di essere uomini, non è monopolio dei credenti, degli uomini religiosi! Per questo ho evitato ogni riferimento a Dio e alla fede cristiana che pure mi abita, mi muove, mi fa vivere. Il riferimento allo spirito non va dunque inteso come invocazione dello Spirito divino o dello Spirito santo, ma semplicemente come una componente dell’uomo: spirito con la «s» minuscola che è in ogni essere umano e che, insieme al corpo, lo definisce; qualcuno potrebbe parlare di anima umana…
Ricapitolando, possiamo dire che intraprendere il viaggio della propria vita interiore significa cercare di rispondere alle domande riguardo al senso della vita. Sì, perché in ogni vita c’è un inizio e una fine, la morte, e l’orizzonte della morte va tenuto davanti per non vivere di illusione, di irrealtà o di eternità; di più, l’orizzonte della morte ci induce a un’interpretazione che possa non annientare la fiducia nella vita, l’amore che abita ogni uomo. Eppure noi oggi rimuoviamo la morte, siamo incapaci di riflettere sulla morte: al massimo pensiamo alla morte solo come ciò che riguarda gli altri…

Non solo la morte, ma anche l’altro, gli altri sono una presenza che per noi è limite ma anche possibilità, dono ma anche responsabilità. L’alterità sta di fronte a noi, ci sfugge, frustra il nostro desiderio eppure si impone e noi non possiamo ignorarla. Ecco perché è importante nella vita spirituale essere onesti con la realtà, leggerla bene e non rimuoverla, essere fedeli alla realtà, soprattutto a questa terra, a questo mondo in cui siamo venuti, in cui viviamo e da cui ce ne andremo, comprendere sempre di più la realtà. La vita spirituale è cammino di umanizzazione per vivere in questo mondo, in una comunità sempre più umanizzata!

Occorre dunque aderire alla realtà, fuggendo l’immaginazione che è humus di idolatria, sostituzione dell’immagine alla realtà; occorre accettare se stessi con le precise oscurità, i limiti particolari, le specifiche deficienze che ci abitano; occorre una forte volontà di apprestare tutto affinché sia possibile l’interiorizzazione che si oppone alla vita esteriore, dissipata, superficiale, disordinata e confusa fino al non-senso. Ognuno troverà ostacoli a questo cammino, oggi come ieri, e nessuna epoca è più propizia della altre alla vita spirituale, perché la rimozione dell’interiorità è sempre possibile per credenti e non credenti. Il narcisismo come espressione parossistica dell’«io», effervescenza dell’emozionale tendente a non tenere conto della razionalità; l’individualismo come comportamento sociale che non permette la ricerca di senso e offusca l’evidenza dei legami: questi e altri rischi sono sempre all’opera nella società e nella vita di ogni essere umano.

8. La vita spirituale cristiana

Una forma della vita interiore umana è la vita spirituale cristiana, cioè la vita interiore vissuta dai cristiani in comunione con Gesù Cristo, colui che è confessato Maestro, Profeta, Signore e Rivelatore di Dio agli uomini. I cristiani credono che la loro vita spirituale sia originale, abbia una specificità, ma con questo non vogliono affermare che la vita interiore umana sia esclusa dall’esperienza della fede: solo una persona capace di vita interiore umana è anche capace di accogliere la vita spirituale cristiana, ma non viceversa. Ha scritto in proposito con grande intelligenza Agostino: «Non ognuno che pensa crede … ma ognuno che crede pensa: pensa con il credere e crede con il pensare» (La predestinazione dei santi 2,5).

Ogni essere umano è animato da una dimensione che trascende il corpo e la psiche, da quell’anima o spirito che gli permettono di trascendersi. Questa apertura è desiderio, ricerca, slancio che si manifesta in tutte le spiritualità, religiose o umaniste, come tensione verso la bellezza, il bene, la felicità, la verità. Nel cristianesimo tale apertura è spazio per predisporre tutto all’accoglienza dello Spirito santo, della vita di Dio: apertura, sviluppo e crescita della persona diventano un consentire a Dio, un riconoscere l’amore di Dio sempre preveniente. Ecco la vita spirituale cristiana che trascende la vita interiore umana, perché in essa si innesta la forza dello Spirito santo.

La vita spirituale cristiana implica un lavoro di discernimento che si configura come attenzione, vigilanza, ascolto di ogni presenza e manifestazione dello Spirito, della Parola di Dio, della vita nel suo multiforme manifestarsi. È un lavoro di accoglienza dello Spirito da parte del nostro spirito, un lavoro nel quale sono associate memoria, intelligenza e volontà. Noi siamo infatti abitati dalla memoria, ma questa va risvegliata, risuscitata come memoria viva attraverso l’esercizio dell’intelligenza: solo in questo modo diventiamo capaci di leggere in profondità il nostro passato e di rischiarare il nostro presente. E così sull’oggi possiamo esercitare le nostre capacità di mobilitare energie e forze per il sentire e l’agire: questo è il lavoro dell’intelligenza, dello spirito illuminato dallo Spirito santo.

Anche la vita spirituale cristiana è un viaggio ma come risposta a un invito, a una chiamata di Dio, è un itinerario alla sequela di qualcuno che apre il cammino e ci precede, è un camminare lasciandoci guidare dallo Spirito. Sì, vita spirituale cristiana è «respirare lo Spirito santo» – espressione comune nella patristica orientale e utilizzata in occidente da Guglielmo di Saint-Thierry –, è vivere la vita di Gesù Cristo, è risposta adorante alla Parola di Dio, che dice a ciascuno di noi ciò che ha detto a Gesù all’inizio del suo cammino: «Tu sei mio figlio, il mio figlio amato» (cf. Mc 1,11 e par.).

9. Un cammino di conversione

Si dice sovente che all’inizio della vita spirituale cristiana sta un evento, un’esperienza fondatrice, ma in realtà questo non è sempre vero. Molte donne e molti uomini che sono cresciuti come cristiani sincronicamente alla loro crescita umana non conoscono infatti questo brusco cambiamento interiore ma piuttosto un processo di trasformazione. In ogni caso deve esserci la consapevolezza di un decentramento da se stessi e di un’apertura verso un altrove, un oltre… Quindi non per tutti i cristiani c’è un prima e un dopo rispetto alla conversione: sempre però l’istanza di conversione dev’essere non solo presente ma sentita in modo forte. E ciò che è veramente decisivo è la coscienza che all’origine della vita spirituale c’è la presenza dello Spirito santo, condizione necessaria per tutte le conversioni e tutti gli itinerari spirituali.

Caduta, peccato, conversione, rialzarsi sono coesistenti nella vita cristiana e nulla è mai acquisito definitivamente: Gesù dice che il credente ha sempre bisogno di conversione (cf. Lc 15,7), sempre può ascoltare la voce di Dio che lo richiama e sempre fidarsi di un Padre misericordioso che è pronto ad abbracciare chi ritorna a lui (cf. Lc 15,20). Vita di conversione significa dunque scegliere «la sola cosa necessaria», senza preoccuparsi di molte cose (cf. Lc 10,42); cercare innanzitutto che su di noi regni Dio e nessun altro (cf. Mt 6,33); rinunciare al male e scegliere il bene (cf. Sal 37,27). Vita di conversione significa ripudiare gli idoli alienanti e accogliere la libertà offerta da un Dio che si mostra come liberatore; significa consapevolezza di una dissomiglianza dall’immagine di Dio deposta in ogni uomo, coscienza della possibilità di aver sfigurato tale immagine e desiderio di ristabilirla, perché essa è in noi un’immagine vivente: proprio perché ogni essere umano è creato a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26-27), allora egli è capace di riconoscere il bene e il male e può confrontarsi con Gesù Cristo, «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15).

Vita di conversione è la vita cristiana dall’inizio alla fine, e l’esortazione di Gesù: «Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15), è una parola che dobbiamo sentire ogni giorno come rivolta a noi. La nostra conversione prende poco a poco forma nel seno di una comunità di credenti, la chiesa, nell’ascolto della Parola di Dio che risuona con efficacia, nella celebrazione dei santi segni del mistero pasquale di Gesù Cristo. Convertirsi, rinnovare la conversione è la condizione senza la quale non c’è vita spirituale, vita sotto la guida dello Spirito di Dio.

10. Un cammino di sequela

Più che una tappa la sequela è un impegno da rinnovare quotidianamente. Un cristiano lucido sa che la sua vita spirituale è quella di chi comincia a essere discepolo anche alla fine della sua vita, anche di fronte al dono supremo della vita per Cristo nel martirio, come ben esprimeva Ignazio di Antiochia: «Ora comincio a essere discepolo» (Lettera ai Romani V,3).

Oggi siamo molto sensibili al tema della sequela, parola fino a pochi anni fa assente dal nostro vocabolario: si parlava di imitazione di Gesù Cristo, di conformità a lui, oppure di ascesi come disciplina necessaria per diventare simili a Cristo. Seguire Gesù è linguaggio simbolico per dire che si vuole essere sempre suoi discepoli, che si vuole aderire a lui e andare ovunque lui vada (cf. Ap 14,4), che si seguono le sue tracce (cf. Pt 2,21), che si corre per afferrare Cristo, essendo stati da lui afferrati (cf. Fil 3,12). È un cammino complesso che appare semplice, anche se faticoso, quando si tenga lo sguardo fisso su Gesù (cf. Eb 12,2) e con attenzione e vigilanza lo si segua pienamente coinvolti nella sua vicenda. È inoltre un cammino che richiede di avere fede nelle realtà invisibili, quelle che sono eterne e non passano, senza accontentarsi di quelle visibili (cf. 2Cor 4,18): il cristiano, come Mosè, riesce a stare saldo se discerne le realtà invisibili che gli stanno davanti come promessa (cf. Eb 11,27).
Ma in questo abbozzo della vita spirituale mi sembra cosa buona almeno elencare quattro concretizzazioni della sequela di Gesù, o meglio quattro atteggiamenti di Gesù Cristo che devono assolutamente essere vissuti dal cristiano nella propria vita:
-  Gesù viveva di fede, in ascolto della Parola di Dio;
-  Gesù è vissuto impegnandosi nella lotta contro le tentazioni, dunque contro
   Satana, il demonio;
-  Gesù è passato in mezzo a noi «facendo il bene» (At 10,38) quale servo del
   Signore e servo dei suoi fratelli;
-  Gesù è entrato nella passione e nella morte a causa del suo amore per Dio e
   per gli uomini.

Conclusione: vita spirituale, arte del vivere, arte dell’amare

A conclusione di questo invito alla vita spirituale resta la domanda: è un cammino di ascesa o di discesa? Ascesa verso l’alto o discesa nelle profondità dell’uomo? Io credo che sia insieme un salire e un discendere: salire verso ciò che è oltre noi stessi, avvicinarsi sempre di più a Dio il quale è talmente Altro, Santo che noi lo diciamo «nei cieli», anzi «nell’alto dei cieli»; discendere scalini sempre più profondi, che si immergono nelle nostre profondità umane. Non a caso quando Benedetto nella sua Regola propone i vari «gradini» della vita spirituale, mette all’ultimo posto, quale ultima tappa, l’identificazione con publicanus ille, «quel peccatore» manifesto del vangelo che in fondo al tempio dice: «O Dio, abbi misericordia di me» (Lc 18,13; cf. RB VII,62-66).

In ogni caso, questo cammino è autentico e dunque fecondo se fa crescere nel cuore l’amore: solo se ordina, fa crescere, purifica l’amore, è un cammino di vita interiore e spirituale. Perché l’amore è nel cuore di ogni uomo come una forza che va sprigionata: l’essere umano è creato a immagine di Dio e ristabilire l’immagine in noi significa praticare l’arte dell’amore. L’amore basta all’amore, l’amore che è il télos di ogni pensiero e di ogni azione umana, l’amore che non finisce mai perché per sua natura è teso all’eternità, al «per sempre»… Io resto convinto e attingo dalla mia esperienza che ogni uomo, credente o no, cristiano o no, se risponde al desiderio profondo che lo abita sente di dover praticare l’arte dell’amore: poi magari non ci riesce, trova contraddizioni in se stesso, negli altri e nelle vicende della vita, ma sa che la felicità, la riuscita, il «salvare la vita» dipende dall’amore dato e ricevuto.

Faticosa per tutti l’arte dell’amore: il cristiano, che conosce che «Dio è amore» (1Gv 4,8.16), secondo la definizione ultima e non oltrepassabile del Nuovo Testamento, sa che la ricerca di Dio è una ricerca dell’amore e che un amore sempre preveniente lo cerca e lo definisce «amato», sì amato, sempre amato, prima addirittura di venire al mondo. E quando uno nella fede fa questa esperienza di amore passivo su di sé, quando si sente amato da Dio – e magari non è stato amato bene dai propri genitori –, allora si sente abilitato a diventare una persona che ama e quindi ama l’altro, gli altri. Chi ama ha conosciuto l’amore di Dio su di sé, ha conosciuto che Dio è amore e quindi, secondo le parole dell’apostolo Giovanni, «crede all’amore» (cf. 1Gv 4,16). Coltivare la vita interiore significa radicarsi sempre di più nell’amore, imparare ad amare, conoscere l’amore.

I credenti poi conoscono Dio come un Dio «misericordioso e compassionevole» (Es 34,6), un Dio che ha com-passione, che con-soffre con gli uomini, che nella sua grande misericordia perdona. Ci sono uomini che hanno percorso il cammino della vita spirituale fino a poter dire che anche all’inferno avrebbero cantato la misericordia del Signore: «Misericordias Domini in aeternum cantabo» (Sal 88 [89],2), etiam in inferis… Amore, respiro di Dio, soffio di Dio e dunque respiro e soffio dell’uomo…

Per tutti va ribadita la dichiarazione di Giovanni: «Dio nessuno l’ha mai visto» (Gv 1,18; cf. 1Gv 4,12): per i cristiani c’è Gesù, il Figlio, che ne ha fatto il racconto (exeghésato: Gv 1,18); per i non cristiani, se si amano reciprocamente, se vivono l’amore autentico, allora Dio abita in loro e l’amore di Dio si compie anche in loro (cf. 1Gv 4,12).

ENZO BIANCHI
Priore di Bose