Warning: getimagesize(images/stories/priore/omelie/ecce_homo_GM.jpg): failed to open stream: No such file or directory in /home/monast59/public_html/plugins/content/multithumb/multithumb.php on line 1563

Warning: getimagesize(images/stories/priore/omelie/ecce_homo_GM.jpg): failed to open stream: No such file or directory in /home/monast59/public_html/plugins/content/multithumb/multithumb.php on line 1563

Memória dos mortos - 2010

Multithumb found errors on this page:

There was a problem loading image 'images/stories/priore/omelie/ecce_homo_GM.jpg'
There was a problem loading image 'images/stories/priore/omelie/ecce_homo_GM.jpg'
GIACOMO MANZÙ, Ecce homo (particolare)
GIACOMO MANZÙ, Ecce homo (particolare)

Bose, 2 Novembro 2010
Homilia de ENZO BIANCHI
O homem sabe que o amor pode vencer a morte, que o amor que vivemos diariamente é a única possibilidade de combater a morte, para atravessar a morte, mas tendo-a vencido primeiro, amando os irmãos

Bose, 2 novembre 2010

ascolta l'omelia:

Questo è il giorno della memoria dei morti e, di conseguenza, il giorno della memoria della morte, della morte di ciascuno di noi.

Le tre letture che abbiamo ascoltato ci parlano della morte più che dei morti, e questa dovrebbe essere già un’indicazione per la nostra riflessione sui testi biblici che ci sono offerti oggi dalla chiesa. Giobbe proclama la sua fede nel liberatore, in Dio che egli vedrà al di là della morte, attraverso la sua carne straziata, quando questa carne si alzerà dalla polvere (cf. Gb 19,23-27a). Paolo profetizza sulla resurrezione come uno stare sempre con il Signore (cf. 1Ts 4,13-18). Nel vangelo Gesù afferma la volontà di Dio, volontà che si compirà: nessuno andrà perduto, e al di là della morte c’è la vita eterna (cf. Gv 6,37-40). Dunque, un messaggio sulla morte che sta davanti a ciascuno di noi e a tutti i credenti.

Tutti siamo consapevoli che la nostra vita cristiana non ha mai potuto rimuovere la morte, non ha mai potuto negarla; sappiamo che la morte come pensiero, come memoria, ritorna nella nostra vita più volte durante il giorno, ritma il tempo che passa. Ogni liturgia che viviamo – al mattino, a mezzogiorno, alla sera, nella notte – è sempre memoria di morte e resurrezione, memoria pasquale di Gesù. Ma anche ogni scelta, ogni decisione che prendiamo nel nostro quotidiano per la sequela di Gesù è sempre nello stesso tempo morte e resurrezione. La morte è talmente presente che purtroppo nella storia cristiana ha potuto anche diventare un fascino per molte spiritualità: quelle spiritualità che guardavano più alla croce che al crocifisso, quelle che negavano la vita presente, la fedeltà alla terra, fino a disprezzare questa vita e a desiderare una dissoluzione, una fine. Per grazia le scienze umane ci hanno aiutato oggi a capire la perversione di questo fascino della morte che si esprime in molti modi, anche in vite che si dicono cristiane.
Forse anche per questo, in reazione a questo, è avvenuta l’espulsione della morte dalla nostra vita in occidente, anche dalla nostra vita cristiana e monastica. E qui non è solo questione di tradimento, ma di stoltezza, una stoltezza che rifiuta di comprendere la nostra identità, la nostra realtà di creature mortali. Escludendo la morte dal nostro orizzonte, la società ha fabbricato un mondo illusorio e fragile, inquieto e in fuga, non consapevole e dunque non responsabile. E noi credenti purtroppo partecipiamo a questo clima che ci domina. Eppure umanamente in tutte le culture si è sempre percepito che la morte ha a che fare soprattutto con l’amore, in una relazione di reciprocità; che solo «l’amore è forte come la morte» (Ct 8,6); che solo l’amore è degno di ingaggiare un duello con la morte. Umanamente morte e amore si intersecano perché solo l’amore sa leggere la morte e solo la morte misura la qualità dell’amore. L’uomo sa che l’amore può vincere la morte, che l’amore che viviamo quotidianamente è l’unica possibilità di combattere la morte, per attraversare poi la morte, ma avendola già vinta prima, amando i fratelli e accettando di essere da loro amati.

Ma mi sia permesso di dire alcune parole che riguardano soprattutto la nostra vita monastica. Lo faccio raramente ma oggi credo sia mio dovere farlo. La morte è inscritta nella nostra vita monastica in un modo particolare e proprio. Quando abbiamo accolto la parola di Gesù che ci invitava a fare spazio al dono del celibato (cf. Mt 19,12) e abbiamo acconsentito a questa parola, noi abbiamo offerto la nostra vita, abbiamo dato il nostro corpo al Signore e per sempre. Noi lo dimentichiamo nel passare dei giorni, ma la nostra vita è vita data, è vita offerta per sempre, già nel battesimo ma soprattutto nella nostra professione, che è sviluppo e conferma della grazia battesimale. La nostra vita è talmente data a Dio che noi non diamo vita ad altri, non diamo vita a dei figli. Questo inscrive la morte nella nostra carne, nel nostro corpo, e solo chi è stolto non si accorge di questo presenza del segno di morte, della non fecondità nella sua vita. Non solo, la nostra vita è segnata dalla solitudine, una solitudine che la vita comune non può negare e neppure attutire, perché il celibato significa una distanza, una rottura che portiamo nel nostro quotidiano come una ferita mai rimarginata. Inoltre, la nostra vita termina con noi stessi: non ci sono per noi degli eredi, non ci sono dei figli, e così ci sono vietate le immagini di una nostra sopravvivenza dopo la morte. Sappiamo infine anche intravedere la solitudine della vecchiaia e dell’ora della morte, quando ogni uomo muore solo, ma noi monaci moriamo soli in modo particolare.

Tutto questo ci deve spingere a fare dono di noi stessi oggi, a non pensare di poter donare qualcosa nel futuro. Noi non potremo farlo domani: ciò che doniamo di noi stessi, della nostra vita, lo dobbiamo donare oggi, spendendo oggi la vita per i fratelli, con una densità, una forza e un coraggio particolari, perché non potremo farlo domani, lavorando e lasciando qualcosa a qualcuno. Non è in questo modo più comprensibile la parola di Gesù: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; chi invece perderà la propria vita, la salverà» (cf. Mc 8,35 e par.)? E questo nella luce della fede, che non ci permette di pensare al dopo la morte se non nella speranza di «essere sempre con Cristo» (cf. 1Ts 4,17).

Nessuno scoraggiamento dunque, nessuna negazione del presente, anzi un amore accresciuto per questa terra, per la nostra vita, per quelli che amiamo, per quelli con cui viviamo e in mezzo ai quali siamo, tenendo l’orizzonte della croce che nel crocifisso è dono, vita, fecondità. Forse così riusciremo anche a innestare la morte nella vita degli uomini e delle donne della società contemporanea. Forse così riusciremo a reagire contro una cultura della morte che sembra sempre più dominante. Forse così noi monaci, che cerchiamo di ascoltare molto gli altri – e gli altri ci parlano soprattutto quando soffrono e piangono a causa della morte –, saremo più capaci di dire e di consegnare loro una parola che contiene una luce.

Nessun fascino della morte, nessuna rimozione della morte contraddistingue la via cristiana. Questa memoria dei morti ci aiuti a vedere i morti certamente in comunione di vita con noi, ma anche a vedere la morte come un esodo verso Dio, il nostro Dio che «non è un Dio dei morti ma dei viventi» (Mc 12,27 e par.).

Enzo Bianchi