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Vendredi saint


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Bose, 22 avril 2011   
Homélie de ENZO BIANCHI 
Voilà la soif de Jésus, voilà ce dont toute sa vie était assoiffée: la soif de Dieu, mais qui implique toujours aussi soif de sa justice et de son amour, soif de sa miséricorde

Bose, 22 aprile 2011
ora nona   

Giovanni 18,1-19,37

écouter: l'homélie de ENZO BIANCHI, prieur de Bose

 

 

Texte original italien:

Ieri sera, all’inizio del triduo pasquale, nel memoriale della cena del Signore, abbiamo cercato di cogliere il segno dell’eucaristia e il segno che ne è l’ermeneutica giovannea, la lavanda dei piedi: segni che volevano essere una risposta di Gesù al Padre e agli uomini attori di quella vicenda di passione e di morte. Abbiamo compreso maggiormente che quell’«eukaristésas» (Mc 14,23; Mt 26,27; Lc 22,17.19; 1Cor 11,24), quel ringraziamento, e quell’«euloghésas» (Mc 14,22; Mt 26,26), quel benedire, erano in Gesù l’«amen», l’amen del testimone fedele, come significativamente definirà Gesù l’Apocalisse, scrivendo con audacia: «Così parla l’Amen, il Testimone fedele» (Ap 3,14), termini ormai cristologici, che confessano l’identità di Gesù a partire proprio dalla sua passione e morte. Un amen, un sì pronunciato da Gesù con tutta la vita; un amen che dice sì anche alla morte; un amen pronunciato attraverso una martyría, una testimonianza perseverante che non è venuta meno, che non ha conosciuto contraddizione, nemmeno nella sofferenza e nella prova.

Ora, proprio ricordando la croce, noi torniamo a cercare la risposta data da Gesù, risposta che è stata la passione nel suo significato più profondo: passione come amore, la fiamma divina dell’amore (cf. Ct 8,6), e nello stesso tempo passione come sofferenza, dolore, sacrificio. La passione di Gesù è stata un duello, un duello combattuto tra l’amore umano di Gesù – amore che era il racconto dell’amore di Dio fatto dalla sua carne, fatto dalla sua mente, fatto da tutta la sua persona (cf. Gv 1,18) – e la morte, potenza che aliena l’uomo, ma che ha soprattutto come soggetto il diavolo (cf. Eb 2,14-15), «il principe di questo mondo» (Gv 12,31; 16,11). Non possiamo certamente commentare tutta la passione secondo Giovanni, che è la risposta di Gesù all’interno di questo duello, risposta a Dio e risposta agli uomini: cerco solo di evidenziare, in alcuni punti, le risposte di Gesù agli uomini coinvolti nella sua vicenda pasquale e la risposta al Padre.

All’inizio della passione, al di là del torrente Cedron, appare subito Giuda il traditore. Giovanni specifica che Giuda conosceva quel luogo, proprio per la sua assiduità con Gesù, proprio perché si era ritirato sovente con Gesù e gli altri discepoli in quel luogo per passarvi la notte, per pregare durante le soste a Gerusalemme. Nel quarto vangelo Giuda non è soltanto chi permettere di riconoscere Gesù nel buio della notte, affinché sia arrestato, ma è anche colui che guida soldati e guardie fornite dai sommi sacerdoti. Gesù, dandogli il boccone di pane, gli aveva anche detto: «Ciò che tu vuoi fare, fallo presto» (Gv 13,27). Ed ecco, ora Giuda fa ciò che vuole, e per Gesù l’evento dichiarato già nell’ultima cena come inarrestabile si mostra davvero tale. È significativo, Gesù dà a Giuda che viene a catturarlo una risposta, composta da una domanda e da una breve affermazione. Chiede a Giuda e agli altri: «Chi cercate?». E quando essi replicano: «Gesù, il Nazareno», Gesù stesso ha una sola parola da dire: «Egó eimi», «Io sono». Certamente questo «Io sono» indica il Nome santo del Signore, ma va colto anche nella sua valenza di riconoscimento: «Sono io». È con estrema semplicità che Gesù consegna se stesso, fa la dichiarazione della propria identità, non solo senza alcun atto di difesa, senza alcun atto di violenza, ma neppure cercando grandi ragioni al perché di quella cattura. Egli non chiede a Giuda e agli altri: «Perché?», bensì: «Chi cercate? … Sono io».


 

Giuda è venuto con soldati, fiaccole, lanterne e armi, mentre Gesù gli risponde con un disarmo totale. Giuda è armato, ma significativamente il quarto vangelo ha il coraggio di dire che c’è anche un altro discepolo che è armato e ha con sé una spada. I vangeli sinottici non osano dire che quel discepolo è Pietro, mentre il quarto vangelo lo esprime chiaramente e, per testimoniare che non si inventa quell’identità, scrive anche con più precisione il nome del servo colpito, Malco. Pietro amava Gesù, lo amava certamente più degli altri, anche più del discepolo amato; il discepolo amato era oggetto dell’amore di Gesù, ma è Pietro colui che aveva un amore più grande per Gesù. Ma l’amore di Pietro non era intelligente, era un amore troppo egoistico, un amore che non gli permetteva di comprendere la necessitas umana per cui l’innocente, il giusto, può solo essere vittima, e così collocarsi dalla parte delle vittime: è l’unica possibilità per non collocarsi dalla parte dei potenti, dei violenti e, in definitiva, dei carnefici. Pietro non aveva capito, aveva rifiutato l’annuncio della passione di Gesù all’inizio della salita verso Gerusalemme, aveva rifiutato il gesto della lavanda dei piedi, aveva rifiutato anche la logica eucaristica del boccone dato a Giuda. Infatti solo il discepolo amato sapeva che quel boccone eucaristico era stato dato al traditore, lo sapeva da Gesù perché glielo aveva chiesto (cf. Gv 13,23-26), ma non lo aveva trasmesso a Pietro, partecipando così all’intelligenza di Gesù su Pietro. Pietro, in questa sua non intelligenza, non poteva fare altro che tirare fuori la spada e colpire il servo del sommo sacerdote. E Gesù gli fa semplicemente deporre la spada. Il calice che Gesù aveva donato ai suoi, il calice del suo sangue, questo calice – dice Gesù – «non devo forse berlo? È questa la mia vocazione». Qui abbiamo dunque la risposta data a Giuda: «Io sono, sono io», la consegna della propria identità che è anche sempre missione di cui si è o si dovrebbe essere consapevoli.

Poi Gesù risponde anche a Pietro, che nel suo amore aveva seguito Gesù dopo il suo arresto. Giovanni dice che l’aveva seguito con un altro discepolo. In quella sequela – non una vera sequela cristiana, ma comunque uno stare dietro a Gesù – era giunto fino alla porta del cortile del sommo sacerdote. Una giovane portinaia lo fa entrare, ma gli chiede se lui è un discepolo di quell’uomo che è trascinato davanti al sommo sacerdote. Pietro risponde: «Ouk eimí», «Non lo sono». Come Gesù aveva risposto: «Egó eimi», «Io sono, sono io», così Pietro risponde: «Non lo sono», non sono un discepolo di Gesù. Ecco il mancato riconoscimento di Gesù, mancato riconoscimento di colui che era stato il rabbi, il profeta nella cui vita Pietro era stato coinvolto. La roccia su cui Gesù aveva voluto edificare la sua comunità – e l’aveva fondata su Pietro, non su altri! –, proprio quella roccia nega di conoscere Gesù. Conosce solo se stesso, anzi non conosce nemmeno se stesso nella verità, perché la verità è che egli era un discepolo, un seguace di Gesù.


 

E proprio mentre Pietro rinnega, Gesù è interrogato dal sommo sacerdote. Nel quarto vangelo c’è simultaneità tra l’interrogatorio di Gesù da parte dell’autorità suprema del giudaismo, il sommo sacerdote, e l’interrogatorio di Pietro da parte di una povera portinaia. Quando il sommo sacerdote interroga Gesù, egli risponde soltanto: «Io ho parlato apertamente, non ho detto nulla di nascosto. Interroga quelli che mi hanno ascoltato, essi sanno ciò che ho detto». Ora, questa è una risposta al sommo sacerdote, ma è anche l’unica risposta che Gesù dà a Pietro. È come se dicesse: «Interroga i miei discepoli, interroga Pietro che è qui. Pietro e i miei discepoli sanno ciò che ho detto». Gesù non condanna Pietro, non lo rimprovera neanche: lo richiama in questo modo alla vocazione di ascoltatore della sua parola, e dunque gli rinnova la vocazione. «Interroga quelli che hanno ascoltato, interroga i miei discepoli»: queste parole dette da Gesù al sommo sacerdote si avvereranno presto, come ci testimoniano gli Atti degli apostoli. Infatti lo stesso Caifa, nei mesi successivi, dopo la Pentecoste, interrogherà proprio Pietro e Giovanni (cf. At 4,1-22), colui che qui è forse l’altro discepolo presente nel cortile del sommo sacerdote. Il vangelo secondo Luca aggiunge che, alla fine del rinnegamento, Gesù si voltò e fissò lo sguardo su Pietro (cf. Lc 22,61), fece cioè la stessa cosa che aveva fatto al momento della vocazione, quando aveva fissato lo sguardo su di lui e lo aveva chiamato. Ecco, Gesù risponde a Pietro rinnovandogli la vocazione, perdonandogli, rimettendolo al suo posto, anche se la roccia aveva rinnegato. Allora un gallo canta, in ricordo delle parole profetiche dette da Gesù a Pietro.

Segue la risposta data da Gesù ai sommi sacerdoti e agli avversari, una risposta che anche in questo caso è una domanda. Che cosa ha da dire Gesù a chi lo ha fatto arrestare e lo vuole trascinare al supplizio della croce come maledetto da Dio e dagli uomini, come bestemmiatore? Soltanto una parola: «Se ho parlato male, testimonia circa il male; se invece ho parlato bene, perché mi percuoti?». È la risposta a una guardia che lo ha percosso, ma è la risposta a tutti gli avversari. Gesù non ha nient’altro da dire. Le parole di Gesù nella passione secondo Giovanni – che per altro vuole essere una dossologia, un racconto di gloria, a differenza dei sinottici – sono parole di una estrema semplicità: «Se ho parlato male, testimonia circa il male; se invece ho parlato bene, perché mi percuoti?».


 

L’apice si ha con la risposta a Pilato, risposta ultima all’arroganza degli avversari. Pilato gli dice: «Non sai che io ho il potere di liberarti e il potere di crocifiggerti?». Gesù, anche qui, non gli contesta il potere: egli riconosce l’autorità politica, non è né un anarchico né un rivoluzionario che non riconosce un ordine necessario alla polis. No, Gesù gli rivela semplicemente: «Non avresti alcun potere, se non ti fosse stato dato dall’alto». Ovvero, Gesù dice a Pilato: «La fonte del potere non è in te, l’unico potere che va riconosciuto è in alto, è quello che appartiene a Dio. Certo, tu puoi disporre di me, puoi esercitare il potere, puoi rimandarmi libero o puoi anche mandarmi alla morte, ma solo perché Dio non interviene per impedirti di esercitare un potere anche con ingiustizia e violenza. E solo perché io non mi ribello, non faccio violenza e non passo dalla tua parte, non sto con te». Ecco la risposta che Gesù dà a Pilato: netta, chiara, ma senza atteggiamento di ribellione o di negazione di un’autorità di cui gli uomini hanno bisogno per ordinare la loro vita comune.

Alla croce, nell’ora della morte, Gesù risponde poi anche alla sua comunità, ai suoi discepoli e alle sue discepole. Ai suoi discepoli che erano fuggiti, alle sue discepole che erano presso la croce, ma semplicemente perché non dovevano temere nulla: erano delle donne, e nessuno in quel contesto sociale si interessava di loro. Se anche erano seguaci di Gesù, nessuno le avrebbe arrestate, perché non contavano nulla. Inoltre, alle donne era permesso di seguire i condannati a morte, per piangerli e per portare loro un po’ di soccorso. Insomma, neppure loro rischiano qualcosa. Ma Gesù vede sotto la croce sua madre e il discepolo che lui aveva amato. Ripeto, non il discepolo che lo amava più degli altri, ma il discepolo che lui amava. Anzi, a ben vedere il quarto vangelo non dice neanche che Gesù amava quel discepolo più degli altri undici: no, semplicemente era il discepolo da lui amato, senza alcuna reciprocità. Vedendo dunque il discepolo amato e la propria madre, Gesù vede davvero tutta la sua comunità. Vede che rappresentano Pietro, vede che rappresentano gli altri che sono fuggiti per paura, e Gesù risponde alla sua comunità dispersa mostrando il lato della maternità della comunità, ossia una capacità di generare credenti, una capacità di filialità, in cui i figli di Dio, i fratelli di Gesù riconoscono nella chiesa la madre: «“Donna ecco tuo figlio”, e al discepolo amato: “Ecco tua madre”». «E da quell’ora il discepolo amato da Gesù», l’unico che aveva conosciuto il traditore, l’unico che conosceva il cuore di Gesù e che nulla aveva fatto di fronte alla cattura e al tradimento, «accolse la madre di Gesù eis tà ídia, tra le proprie cose, le cose che gli appartenevano come un tesoro». Il discepolo amato di Gesù sa che la chiesa è un dono e che sta tra le cose più proprie.


 

Infine, ecco la risposta al Padre, l’ultima risposta nella passione. Gesù è crocifisso, ma dalla croce prega, intonando il Salmo 42. Non vi illuda la traduzione: «Ho sete». In realtà in ebraico, in aramaico questo grido ricorda un versetto del Salmo 42: «Il mio essere ha sete del Dio vivente» (cf. Sal 42,3). Ecco la sete di Gesù, ecco ciò di cui era assetata tutta la sua vita: sete di Dio, ma che significa sempre sete della sua giustizia e del suo amore, sete della sua misericordia. Gesù ha sete del Dio vivente, quando vedrà il suo volto (cf. ibid.)? Pregare questo Salmo nell’ora della morte è confessare che si ha sete: se si ha sete, manca l’acqua; se si ha sete di Dio, manca Dio e non si vede il suo volto. Gesù guarda a tutta la sua vita, alla sua sete di compiere la volontà di Dio, guarda a tutto ciò che ha fatto e detto, guarda alle sue risposte date agli uomini, e in un atto ancora davvero eucaristico grida: «È compiuto», cioè tutto è giunto al compimento, «consummatum est». Sì, si è compiuta la volontà di Dio, Gesù ha compiuto pienamente la vocazione ricevuta, Gesù ha vissuto all’estremo il comando ricevuto dal Padre, il comando dell’amore (cf. Gv 13,1). Questo «è compiuto», è un grido di gioia, è un grido di eucaristia, è un grido di benedizione, è un grido di vittoria. È un grido che va capito alla luce di parole che il quarto vangelo mette in bocca a Gesù: «Io ho vinto il mondo, ho vinto la mondanità» (Gv 16,33). O meglio: «In me ha vinto l’amore di Dio», e la passione vuole solo esprimere questo. Ecco la risposta di Gesù al Padre, a Dio: l’eucaristia, il ringraziamento è stato vissuto da Gesù fino al «consummatum est», fino alla realizzazione di tutto ciò che il Padre gli aveva rivelato, di tutta la sua volontà.

Dopo questo grido, «Gesù consegnò lo Spirito». Sappiamo che nel quarto vangelo questo significa «spirò, morì», ma si riferisce anche a quell’alito che Gesù aveva, che era l’alito dello Spirito santo, l’alito con cui era stato generato dal Padre. Quell’alito Gesù lo effonde sulla chiesa ai piedi della croce, sull’umanità, su tutto l’universo.

Ora Gesù attende nella morte, nella tomba, la risposta del Padre. Gesù ha risposto, tutte le sue risposte sono state date: ora dovrà rispondere il Padre.

 ENZO BIANCHI

Jeudi sanit


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Bose, 21 avril 2011
Homélie de ENZO BIANCHI
Jésus doit répondre aux attentes de Dieu et aux actions de l'homme: c'est ce qui est extraordinaire et qui constituera pour cette raison le cœur de notre foi

 
Bose, 21 aprile 2011
in Coena Domini 
Giovanni 13,1-15   
1Corinti 11,23-32

écouter: l'homélie de ENZO BIANCHI, prieur de Bose


 

 

Texte original italien:

Carissimi,

questa sera siamo commensali alla tavola del Signore, la nostra comunità, le nostre sorelle di Cumiana, le sorelle della chiesa etiopica copta che sono con noi, e voi amici e ospiti. Siamo tutti invitati dal Signore per celebrare la Pasqua, la Pasqua in cui il Signore è passato da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1), la Pasqua in cui il Signore ha voluto riassumere tutta la sua vita, per quanto umanamente possibile, in due gesti accompagnati da pochissime parole.

  • Il gesto della lavanda dei piedi, che noi ricorderemo dopo questa omelia, come gesto che narra l’azione di Gesù, non l’azione di chi presiede, ma l’azione, l’atteggiamento di Gesù nei confronti dei suoi discepoli, dunque nei nostri confronti. Un gesto che è un invito a che noi ci laviamo i piedi gli uni gli altri, ma un gesto che trova il suo canone, la sua forma nel gesto di Gesù, di cui noi cerchiamo di narrare tutta la portata attraverso un segno.
  • Il gesto eucaristico, ringraziamento di Gesù al Padre, benedizione di Gesù verso tutta la creazione e tutta la storia, ma anche risposta agli eventi che incombevano su di lui nella sua vicenda, eventi che lo avrebbero portato alla fine, alla passione e alla morte.

Quest’anno la nostra meditazione sarà su questo secondo gesto di Gesù, dunque sull’eucaristia, la cui narrazione abbiamo ascoltato nelle parole dell’Apostolo Paolo, che riferisce alla comunità di Corinto una memoria viva, vissuta dalla chiesa di Antiochia (cf. 1Cor 11,23-32), una memoria che era ormai celebrata in tutte le comunità cristiane come memoria del gesto compiuto da Gesù alla vigilia della sua passione e anche come rivelazione della sua Pasqua. Cerchiamo dunque semplicemente di ascoltare le Scritture sante e di comprendere l’eucaristia attraverso di esse.


Gesù è salito a Gerusalemme con la sua comunità, i Dodici, e l’evangelista Luca ci dice che nella consapevolezza di quella Pasqua che incombeva su di lui, Gesù ha assunto un viso duro, una faccia dura e decisa (cf. Lc 9,51), quasi a dire che ormai le parole non erano più assolutamente necessarie e che bisognava tutto riassumere nella semplicità, con gesti elementari, con poche parole. Gesù sa – certo, con la sua coscienza umana, soltanto umana, ma vigilante, una coscienza non sonnolenta, una coscienza esercitata a comprendere la necessitas umana e le esigenze della volontà di Dio – che ormai si avvia verso la morte. L’ostilità nei suoi confronti è cresciuta, l’autorità religiosa legittima e istituzionale lo vuole far tacere e lo vuole eliminare, e i suoi discepoli mostrano sempre di più di non essere capaci né di comprendere né di reggere un coinvolgimento con la sua vita. Gesù sa che i più dormiranno, sa che addirittura colui che egli aveva chiamato Pietro, la roccia, preso da paura sarà più debole di una canna incrinata, e sa che tra i suoi, nella sua comunità c’è anche chi lo consegna per facilitare la sua fine. Ma Gesù legge tutto questo con una coscienza umana e come una necessità umana: Gesù sa che non c’è un destino che pesa su di sé, non c’è un fato, ma sa che c’è una necessità umana nella storia, perché le cose in questo mondo vanno così, seguono una logica ferrea per cui l’innocente il giusto, può solo essere rigettato, perseguitato e abbandonato ai suoi nemici (cf. Sap 1,16-2,20). La banalità del male di questo mondo – che non è umiltà del male, parola troppo nobile per essere applicata al male –, la banalità del male sta proprio in questo quotidiano avvenire delle cose.

Gesù però non conosce solo la necessità umana, conosce anche le attese di Dio; si potrebbe anche parlare di una necessitas divina, ma per comprendere bene e non lasciare posti a equivoci preferisco dire che Gesù conosce le attese di Dio. Gesù ha una grande assiduità con Dio, lo prega intensamente, in particolare nella notte, legge le Scritture per trovarvi come fare la sua volontà, ha soprattutto la parola del Signore nel suo intimo, come tante volte ha ripetuto pregando il Salmo 40: «La tua legge, Signore, è nel mio intimo» (Sal 40,9). C’è dunque di fronte a Gesù, in quei giorni di Pasqua, l’attesa di Dio suo Padre, e ci sono delle precise azioni, responsabilmente fatte dagli uomini. Gesù deve rispondere alle attese di Dio e alle azioni dell’uomo: e ciò che è straordinario, e che per questo sarà proprio il cuore di tutta la nostra fede e della nostra vita cristiana, è che Gesù risponde con l’eucaristia. Eucaristia è veramente la parola migliore per identificare i gesti di Gesù, perché è la parola che dice un ringraziamento: «eukaristésas» (Mc 14,23; Mt 26,27; Lc 22,17.19; 1Cor 11,24), ossia «avendo ringraziato, innalzando a Dio una lode, dicendo a Dio un “amen” convinto e un grazie», un ringraziamento che scaturiva dalla sua fede incrollabile e dal suo fedele amore del Padre.


 

Ma questo ringraziamento era anche una risposta ai suoi avversari, a Giuda e ai suoi discepoli, risposta che viene data Gesù da con quel gesto sul pane e sul vino, accompagnato da pochissime parole. È significativo, Gesù non fa lunghi discorsi quella sera: sappiamo che nel quarto vangelo i discorsi di addio (cf. Gv 14,1-16,33) sono la memoria di sue parole, ma parole rivelate da un Kýrios glorioso e risorto alla sua chiesa, non parole dette da Gesù prima della sua passione. Gesù fa semplicemente un gesto, dice solo che quel gesto, quella Pasqua tanto desiderata (cf. Lc 22,15), sarebbe stata l’ultima con i suoi, e dice che quel calice del frutto della vite, quel vino della convivialità, quel vino che rappresentava tutto il possibile amore vissuto da un uomo sulla terra, sarebbe stato l’ultimo della sua vita. Chiarito il momento, resi consapevoli dell’ora i discepoli – l’abbiamo ascoltato, lo ascoltiamo sempre al cuore della nostra eucaristia, del nostro ringraziamento fatto con lui – «Gesù prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo per voi”» (Lc 22,19; 1Cor 11,24). Poi allo stesso modo disse: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue» (Lc 22,20; 1Cor 11,25), oppure: «Questo è il mio sangue dell’alleanza versato per le moltitudini» (Mc 14,24; Mt 26,28). Il gesto è chiarissimo, vuole essere una prefigurazione di quello che Gesù sta per vivere, la sua passione, la sua morte; ma vuole anche essere una sintesi di tutto ciò che fino ad allora Gesù ha vissuto. Ecco la risposta al Padre, all’attesa di Dio, che può essere espressa veramente dalle parole del Salmo: «Ecco, Padre, io vengo per fare la tua volontà (cf. Sal 40,8-9), il corpo che tu mi hai preparato ora accetto che sia spezzato, che sia dato, è un corpo per i discepoli, è un corpo per la comunità, è un corpo per la chiesa; e il sangue versato attraverso una morte violenta, è versato per le moltitudini di tutti gli uomini, di tutte le epoche e di tutta la terra».

Perché corpo spezzato e sangue versato? Il Padre cosa attendeva da Gesù? Il Padre attendeva da Gesù quello che aveva atteso da tutti i giorni della sua vita terrena. Attendeva che Gesù, quale Figlio, non assumesse nessun atteggiamento contrario alla giustizia, che Gesù non assumesse nessun atteggiamento contraddicente l’amore, non conforme alla sua infinita misericordia. Gesù risponde al Padre ringraziando, e in quel ringraziamento c’è un ringraziamento per la vita che il Padre gli aveva dato, perché Gesù sapeva, e sapeva più di noi, che la sua vita, come la vita di ciascuno di noi, l’aveva voluta Dio in un disegno preciso e in un amore preciso. Gesù ringrazia il Padre per il dono di essere un uomo, per il dono di essere un uomo, per la grazia di essere stato terreno, mortale come noi; ringrazia il Padre per aver potuto amare questa terra; ringrazia il Padre perché gli è dato di avere del pane e di avere del vino, di muoversi in quella logica del bisogno e della gratuità, nella quale ogni uomo cerca ogni giorno di vivere e di fare vivere gli altri accanto a sé; ringrazia benedicendo il Padre, ma soprattutto la vera benedizione al Padre il vero ringraziamento è offrire la propria vita, offrire se stesso. Ecco la risposta di Gesù a Dio. Dio si attendeva solo questo, non si attendeva né la morte di Gesù, né la violenza che egli ha subito, ma si attendeva che Gesù restasse fino all’ultimo fedele ai suoi sentimenti, che Gesù sapesse narrare fino all’ultimo l’amore di Dio agli uomini. Se Gesù moriva, era per una necessità umana, non perché Dio lo voleva.


 

Ma attraverso l’eucaristia Gesù dà anche una risposta ai sacerdoti e agli scribi, che lo accusavano di bestemmiare Dio. Lasciando che i sacerdoti e gli scribi, che l’autorità legittima del suo popolo disponga di lui, che lo catturi, che lo dichiari maledetto, che lo consegni a una morte infame, proprio facendo questo e permettendo questo, egli mostra di poter davvero ringraziare Dio, perché Dio gli ha concesso di narrarlo in questo mondo e di narrarlo senza venire meno. Ecco perché Gesù non fa nulla per contrastare il piano degli avversari, ecco perché non risponde con le armi da loro usate. A un certo punto addirittura tacerà (cf. Mc 14,61; Mt 26,63): ha parlato, ha anche attaccato quei sacerdoti e quegli scribi, ha anche lanciato loro dei «guai» (cf. Mt 23,1-36), ma, giunto il momento, resta un agnello afono, non risponde (cf. Is 53,7). Quel pane spezzato e dato: ecco ciò che vuole essere Gesù; quel sangue versato: ecco ciò che suggella chi era Gesù, cosa veramente voleva e come non tenesse alla propria vita ma tenesse soprattutto a che Dio potesse essere narrato agli uomini e gli uomini potessero conoscere che cos’è l’amore.

Ma Gesù dà anche una risposta a Giuda. Giuda è terribilmente presente in questi racconti: lo abbiamo sentito nel quarto vangelo, ma Giuda è presente anche nei sinottici, e sappiamo dell’annuncio che Gesù, parlando di Giuda, ha dato in stretto legame con l’eucaristia (cf. Mc 14,17-21 e par.). Giuda è uno dei Dodici, che lo consegna e lo tradisce, e Gesù dà il boccone eucaristico anche a lui, dà il suo corpo e il suo sangue anche a Giuda. Lo scandalo va assunto nella comunità cristiana: i vangeli non stanno ad analizzare le cause psicologiche per cui Giuda ha tradito, non lo scusano e lasciano lo scandalo intatto, scandalo, inciampo per tutti. Se ci sono ragioni in Giuda per essere giunto fino alla consegna, quelle ragioni le sa solo Dio, non dobbiamo essere noi a investigarle, perché, quando lo facciamo, in realtà cerchiamo solo delle attenuanti per noi stessi. Ciò che veramente va preso in considerazione è lo scandalo del tradimento, ma anche la risposta di Gesù con l’eucaristia: «Giuda» – dice Gesù – «ecco il mio corpo, te lo do». E significativamente al momento della consegna, al Getsemani, il saluto che Gesù gli rivolge è: «Amico» – amico, perché questo era il rapporto che Gesù aveva instaurato con Giuda – «per questo sei qui!» (Mt 26,50). Non solo, Gesù ha accettato anche il bacio da Giuda (cf. Mt 26,49), lo ha accettato senza rifiutarlo, senza vendicarsi, senza difendersi e senza condannare un bacio (tutti noi sappiamo che il bacio è l’atto più essenziale all’amore, e forse solo quelli che lo danno unicamente al vangelo o all’altare sanno che cos’è il bacio nella carne di un uomo…).


 

Infine, Gesù con l’eucaristia risponde ai suoi discepoli, a Pietro e agli altri, a chi è pieno di paura e si mostra una canna incrinata, e agli altri che dormono e non sanno vegliare. Anche qui Gesù «non spezza la canna incrinata, non spegne lo stoppino dalla fiamma smorta», come annunciava il primo canto del Servo di Isaia (cf. Is 42,3; Mt 12,20); dice addirittura ai discepoli: «Dormite pure!» (cf. Mc 14,41 e par.). Ma a tutti questi suoi discepoli – che siamo noi, perché i discepoli di Gesù non erano differenti dalla comunità cristiana di oggi, e da ciascuno di noi, paurosi come «la roccia» o sonnolenti come gli altri dieci –, Gesù ha dato il suo corpo e il suo sangue, così come li dà a noi.

L’eucaristia è la sola e definitiva risposta di Gesù a Dio e all’umanità intera, e ogni volta che la celebriamo dovremmo essere presi davvero da timore – il vero timor Domini, l’unico principio di una sapienza umana (cf. Sal 111,10; Pr 1,7) –, nell’accogliere nelle nostre mani e nell’accogliere in noi la vita di Gesù, la vita di Gesù raccolta in un gesto, il corpo del Signore per noi, il sangue per la moltitudine degli uomini. Ciò che celebriamo con il gesto del pane e del vino, ora lo celebriamo in memoria di Gesù anche con il gesto della lavanda. Sono due memorie di Gesù in cui non è possibile nessun protagonismo né di chi presiede, né del presbitero che presiede l’azione eucaristica: è il Signore che ci lava i piedi, è il Signore che ci dà il suo corpo e il suo sangue.

ENZO BIANCHI, priore di Bose

Pâques du Seigneur


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Bose, 4 avril 2010
Homélie d'ENZO BIANCHI
Il faut avoir le courage de chercher, d'aller, d'être mis en mouvement, de vaincre l'inertie, d'aller et de courrir comme l'ont fait les femmes en cette aube, comme l'a fait Pierre. Mais tout ceci ne suffit pas

Bose, 4 avril 2010
Nuit de Pâques
Homélie
d'ENZO BIANCHI, prieur de Bose
en langue originale italienne
 
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 Luca 24, 1-12

Carissimi,

siamo nel terzo giorno del mistero pasquale. Da giovedì sera ci ritroviamo insieme, più volte durante il giorno, e ora nella notte. Per fare che cosa? Perché questo nostro radunarci, questo nostro fare in un modo che resta sconosciuto ed estraneo agli uomini che non sono cristiani, ai quali siamo pur legati dal vincolo della fraternità? Perché questo pensare, questo meditare, questo dire e cantare tutti insieme, questo fare liturgia appunto? La risposta è quella che Paolo si dà nella Lettera ai Filippesi, quando confessa di aver rinunciato a molte cose, anche alle cose più sante riguardanti la fede e tutta l’economia dell’antica alleanza, di aver rinunciato alle cose sante, come la Legge, «per conoscere lui», il Cristo Gesù, «per conoscere la potenza, l’energia della sua resurrezione» (Fil 3,10); ossia per sperimentare, con un amore penetrante, lo stesso evento che ha reso Gesù di Nazaret il Figlio di Dio, colui che è stato generato quale Figlio in pienezza nella resurrezione dai morti (cf. Rm 1,4). Dunque, siamo qui per essere afferrati da Cristo, come lo è stato Paolo (cf. Fil 3,7-12).

Ma che cos’è la liturgia? Perché compiamo un’azione comune con gesti e parole? Perché questo nostro fare (che è poi – come dico spesso – soltanto un predisporre tutto, poiché in realtà è il Signore che fa, è lui che opera)? Noi, uomini e donne, ci siamo umanizzati e ci umanizziamo ancora, non solo parlando, non solo comunicando, ma soprattutto facendo delle azioni insieme, delle azioni parlate, delle azioni che hanno un preciso télos, un preciso scopo. La liturgia è proprio questo. Ecco perché abbiamo bisogno di celebrare la liturgia, perché tutto il nostro essere è non solo linguaggio ed esperienza, ma è anche un tracciare un cammino, un affermare cosa vogliamo e dove vogliamo andare, è un affermare un senso, il senso del nostro vivere e del nostro vivere in comunione. Lo sappiamo: Dio non ha bisogno delle nostre liturgie, siamo noi che ne abbiamo bisogno. E nella liturgia Dio agisce; Dio – secondo l’espressione di Gesù – lavora più che mai (cf. Gv 5,17), Dio compie anche ciò che noi non sappiamo compiere né portare pienamente a termine.

Per questo noi questa sera abbiamo innanzitutto celebrato la luce, la prima cosa che sperimentiamo venendo al mondo: noi passiamo dalla tenebra alla luce. Ma nella fede quella luce è Gesù Cristo, una luce che non ha soltanto preceduto ciascuno di noi, ma ha preceduto la creazione del mondo. «Dio disse: “Sia la luce!”, e avvenne» (Gen 1,3). Abbiamo celebrato quella luce che da prima della creazione del mondo ha vinto il caos tenebroso primordiale; quella luce che da allora non è mai stata sopraffatta nella sua lotta contro le tenebre, come dice il prologo del quarto vangelo (cf. Gv 1,5), fino al giorno in cui questa luce è diventata radiosa in tutto il suo splendore in Gesù di Nazaret, Gesù il Cristo. Luce vittoriosa anche sulla morte nella resurrezione di Gesù.


 

Abbiamo poi anche fatto memoriale della storia di salvezza: la creazione del mondo (cf. Gen 1,1-2,2); la fede nella resurrezione dei morti del nostro padre Abramo (cf. Gen 22,1-18), disposto a sacrificare il figlio perché sapeva che Dio glielo avrebbe dato risorto; l’uscita dall’Egitto nella libertà (cf. Ez 12,37-42); la profezia della resurrezione dai morti (cf. Ez 37,1-14). Tutto nella storia dei padri aveva un télos, aveva un senso che si è compiuto nella resurrezione di Gesù, l’uomo, l’Adamo mortale ma fatto Figlio di Dio, risuscitato dal Dio vivente e vero per sempre, risuscitato come primo di tutti noi, suoi fratelli, che risorgeremo dietro a lui (cf. Col 1,18).
E il vangelo, che quest’anno abbiamo ascoltato nella versione di Luca, ci ha narrato come nella storia questo evento della resurrezione è stato vissuto da uomini e donne, discepoli di Gesù diventati testimoni, e con una testimonianza che li rendeva pronti a tutti, anche alla morte, pur di poter affermare che quel Gesù che avevano seguito, Messia e profeta, era risorto ed era il Signore dei vivi e dei morti. Abbiamo ascoltato il racconto. La sera del sabato, vigilia di Pasqua, fine del secondo giorno, quando Gesù è deposto dalla croce e viene posto in una tomba, scavata nella roccia, adiacente al luogo del supplizio, Luca annota: «Le donne che erano venute con lui dalla Galilea a Gerusalemme, seguirono quel corpo morto avvolto in un lenzuolo e videro come era stato deposto nel sepolcro. Poi tornarono alla loro abitazione per preparare aromi e unguenti, e osservarono il riposo del sabato, come prevedeva la Legge» (cf. Lc 23,55-56).

Ma ecco, passato il sabato, nel primo giorno della settimana, di buon mattino, le donne vanno al sepolcro con quegli aromi preparati per imbalsamare Gesù, per imbalsamare il cadavere di Gesù. Quelle donne sono mosse dall’affetto, dal legame con Gesù. Hanno seguito per anni quell’uomo che avevano ritenuto rabbi e profeta, e ora che il loro rabbi e profeta è morto esse pensano di avere a che fare con un corpo morto, con un cadavere. Ma queste donne trovano il sepolcro vuoto ed entrate non trovano il corpo del Signore Gesù. Eppure avevano visto deporre quel corpo nella tomba, avevano osservato come era stato deposto: ma ora il cadavere non c’è più, è assente dalla tomba.


 

A questo punto Luca ci narra una storia che è delle donne, una storia che è di Pietro, una storia che è dei discepoli, una storia che è anche la nostra: una storia di profonda incredulità. Questa è la verità che Luca ha il coraggio di dirci. Quelle donne sono innanzitutto delle donne incredule, non hanno creduto, non hanno conosciuto davvero il Signore. Ed ecco che sono – dice il verbo greco – m in una situazione di aporia, che è molto di più della perplessità. Sono davanti a un fatto che per loro non ha senso, e da questo non senso si lasciano interrogare. Mentre sono in questa situazione chiusa, perché non vedono più il corpo del Signore Gesù, mentre alzano lo sguardo da terra, da dove Gesù era deposto, vedono due uomini, come i discepoli sull’alta montagna avevano visto apparire due uomini quando Gesù fu trasfigurato (cf. Lc 9,30-31). Due uomini come vedranno anche tutti gli apostoli quando Gesù si separerà da loro benedicendoli e sarà portato verso il cielo (cf. At 1,10-11). Questa precisazione è propria di Luca: due uomini, due uomini che si fanno didascali, interpreti di quella mancanza del corpo morto di Gesù.

Essi pongono una domanda, che è un chiaro rimprovero alle donne: «Perché cercate tra i morti il Vivente?» Al tempo di Gesù sappiamo che c’era un detto nell’ambiente giudaico: «Non si cercano i vivi tra i morti e non si cercano i morti tra i vivi». Dunque vi è un rimprovero da parte di questi uomini alle donne discepole. Porre infatti la domanda: «Perché cercare tra i morti il Vivente?», significa chiedere alle donne: «Perché siete venute qui? Solo per l’affetto che avevate, solo per il legame affettivo e psicologico che avete vissuto? Questo non è sufficiente per conoscere il Signore. Nei tre anni che siete state dietro a Gesù avete ascoltato ciò che lui ha detto? Com’è possibile che non riusciate a ricordarvi delle parole che lui ha detto e ripetuto mentre era con voi?». Gesù aveva parlato più volte della necessità della sua passione, morte e resurrezione: questa era stata addirittura la sua istruzione martellante durante la salita a Gerusalemme (cf. Lc 9,22.33-45; 18,31-34). Ma le donne non ricordano. E i due uomini, gli interpreti – che sono poi, lo sappiamo, la Legge e i Profeti, Mosè ed Elia, l’Antico Testamento – dicono alle donne: «Ricordatevi, ricordatevi!». Chiedono alle donne il risveglio della memoria. Che cosa hanno fatto delle parole di Gesù? Perché quelle parole sembrano non aver lasciato traccia?
In questo modo i due uomini finiscono per rivelare non solo la situazione di Gesù, ma anche per dare un nome, un attributo a Gesù: «Perché voi cercate tra i morti il Vivente (tòn zônta)?» Questo avrebbero dovuto capire le donne: Gesù è il Vivente, il Vivente! E qui inizia un lento e faticoso cammino verso la fede. Con difficoltà, e noi non sappiamo quanto è durato questo processo, le donne si ricordano delle parole di Gesù e vanno dagli Undici, la comunità di Gesù ricompattata ma senza il traditore che ne è escluso per sempre, vanno ad annunciare loro la resurrezione. Luca dice che queste donne erano molte, anche se ricorda solo il nome di alcune di loro; di più, egli ha anche il coraggio di dirci che agli orecchi degli Undici quelle parole risultarono vaneggiamenti, sciocchezze, e per questo non credettero. Ecco la situazione della comunità del Signore, nel giorno di Pasqua. Ci sono due gruppi: le donne diventate, pur a fatica, credenti, e gli Undici ancora increduli.


 

Tuttavia Pietro vuole verificare, si separa dal gruppo che non credeva e va al sepolcro. Anzi, Luca dice che Pietro in quell’alba fa una corsa – come scriverà anche il quarto vangelo (cf. Gv 20,3) – e constata che il corpo morto di Gesù non è più là. Pietro resta nello stupore, nella meraviglia, ma non giunge a credere. L’itinerario di Pietro non è diverso da quello delle donne e non è diverso da quello dell’insieme degli Undici: c’è una grande fatica da fare per credere alla resurrezione. E anche per Pietro occorrerà la rivelazione, occorrerà che il Signore con una sua iniziativa alzi il velo, e proprio a lui Gesù stesso si mostrerà personalmente quale Vivente. Il Credo della chiesa primitiva lo dirà: «Gesù risorto è apparso innanzitutto a Simone, a Pietro». E anche in Luca, quando i discepoli di Emmaus saranno giunti alla fede e torneranno dagli altri Undici a Gerusalemme, sentiranno ormai il grido della comunità: «Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone!» (Lc 24,34).

Sì, c’è una grande fatica da fare per credere alla resurrezione: per i discepoli, per le discepole, per Pietro e anche per noi. Luca con questo racconto non vuole convincerci della resurrezione di Gesù, vuole soltanto indicarci una strada per credere. Qual è questo cammino che egli traccia? Ci dice che occorre avere il coraggio di cercare, di andare, di essere smossi, di vincere l’inerzia e l’ignavia, di andare e di correre come hanno fatto le donne in quell’alba, o come ha fatto Pietro. Ma tutto questo non basta, non basta neanche il legame di amore con Gesù. Occorre leggere le Scritture, occorre lasciare che i due uomini didascali e interpreti, Mosè ed Elia, ci rivelino il grande mistero, e quindi occorre davvero che le Scritture siano ascoltate, lette, ricordate, ripensate (cf. Lc 24,25-27.44-46). E occorre soprattutto arrivare a leggere la passione e morte di Gesù come un cammino che Gesù ha subìto perché gli uomini sono ingiusti, e dunque non attendersi dopo la morte in croce una rivincita, una smentita della morte e della passione. Questo non è cristiano: la resurrezione non è né la smentita né la vendetta, ma è sempre nella stessa logica di amore vissuto e contraddetto, un amore che, come la luce, non può essere sopraffatto.

Noi siamo tutti increduli, come le donne, come i discepoli, come Pietro. Confessiamolo: a volte non riusciamo a credere alla resurrezione, alla vittoria dell’amore sulla morte, non riusciamo soprattutto credere all’amore più forte della morte. La vita che noi viviamo contraddice in mille modi questa speranza; e il mondo e la società così come sono, non ci danno motivi di speranza. Neanche la comunità, neanche la chiesa sono capaci di sostenerci in questa fatica a credere. Ma a noi, a ciascuno di noi è fatto un invito: non basta il sepolcro vuoto, non bastano assolutamente i nostri sentimenti, occorre credere all’amore, o almeno in un suo tentativo; occorre almeno fare della speranza, come dice la Lettera agli Ebrei, un appiglio, un’ancora alla quale stringerci (cf. Eb 6,18). Eppure l’essere qui ancora e il vivere come abbiamo vissuto queste ore, questi giorni, può essere solo dovuto al fatto che il Risorto ci attira a sé, che il Risorto innalzato attira tutti noi a sé. In questo sentirci attirati non sentiamoci molto lontani dai nostri fratelli non cristiani e increduli; ma anzi, chiediamo al Signore che, come attira noi e attirando noi, attiri anche loro.

ENZO BIANCHI, priore di Bose

Transfiguration du Seigneur


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Bose, 6 août 2010
Homélie d'ENZO BIANCHI
Nous ne devrions pas oublier la lumière dont nous avons fait l'expérience dans le baptême, au moment de notre appel et le jour où nous avons promis une parole de fidélité en présence de l'Église

Bose, 6 agosto 2010

Luca 9,28-36                        

 

Professione monastica definitiva di Nimal, Francesca, Elisa

 

TEXTE ORIGINAL ITALIEN
DE L'HOMÉLIE DE FRÈRE ENZO

 

Écouter l'homélie:

 

 

 

Carissimi fratelli e sorelle, monaci e monache amici, e voi tutti amici e ospiti,

eccoci insieme, in una grande pace e in una salda gioia che il Signore concede alla nostra comunità; eccoci immersi, partecipi del mistero che celebriamo: la Trasfigurazione di Gesù. Come ci invita a fare la preghiera della chiesa, noi invochiamo la luce, quel lume celeste che ci permette di contemplare con sguardo puro e di accogliere e gustare con ardente amore questo mistero (cf. Epifania del Signore, Orazione dopo la comunione) che è la rivelazione dell’umanità e della divinità di Gesù Cristo, del suo essere l’Adam, l’uomo per eccellenza, e del suo essere anche il Figlio, il Signore.

Ogni anno nella seconda domenica di Quaresima, e poi oggi, al cuore dell’estate, noi celebriamo questo evento della trasfigurazione. Lo facciamo, significativamente, durante il cammino verso la Pasqua e poi il 6 agosto, quaranta giorni prima della festa della Santa Croce. La liturgia lega sempre la passione di Gesù alla sua gloria, e proprio questo legame sarà questa sera il fulcro della nostra omelia. Abbiamo meditato in altre occasioni su altri aspetti del mistero, ma quest’anno vogliamo sostare in modo particolare su questo rapporto tra gloria e abbassamento, tra beatitudine e sofferenza, il rapporto – potremmo dire – tra le due montagne: il Tabor e il monte degli Ulivi-Golgota. Faremo questo guidati dalla comprensione della trasfigurazione propria dell’evangelista Luca. Questo legame tra gloria e passione è sempre stato colto ed evidenziato dai padri della chiesa e soprattutto dalla liturgia delle chiese ortodosse. Nicodemo Aghiorita e numerosi padri prima di di lui affermano che la trasfigurazione è avvenuta quaranta giorni prima della passione, e nei testi liturgici della festa è sempre presente questa «sindrome», questa connessione tra Tabor e Golgota, perché la trasfigurazione è possibile solo attraverso il cammino della croce. Nella vita di Gesù è stato così, lo è anche nella nostra vita. E proprio quando verifichiamo che questo accade, noi possiamo essere sicuri che stiamo camminando sulle orme di Gesù, non su cammini che sono i nostri. Davvero Tabor e Golgota non devono essere mai disgiunti, ma devono essere compresi l’uno accanto all’altro, come un solo e unico mistero.


 

Poniamoci dunque in ascolto del vangelo. È proprio l’evangelista Luca, lui solo, che al cuore dell’evento ci rivela che «Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, conversavano con Gesù e parlavano del suo esodo che doveva compiersi in Gerusalemme», parlavano dell’esodo da questo mondo al Padre che Gesù in obbedienza alle Scritture avrebbe vissuto nella piena fedeltà a colui che lo aveva mandato nel mondo. Questo è il collegamento tra Tabor e Golgota, è la vera rivelazione, l’alzare il velo sul destino di Gesù, su ciò che lo attende alla fine di quel viaggio intrapreso verso la città santa di Gerusalemme. Luca racconta che Gesù, subito dopo aver ricevuto la confessione di Pietro che lo ha proclamato con fede Messia di Dio, ha fatto il primo annuncio della necessità della sua passione, della sua condanna, della sua morte e resurrezione (cf. Lc 9,18-22). E proprio dopo questa rivelazione, dopo questi discorsi, «circa otto giorni dopo», ecco l’evento della trasfigurazione, evento che ha una funzione concreta e precisa: attestare che Gesù è veramente il Messia, come lo aveva proclamato Pietro, ma attestare anche che la sua messianicità, la sua gloria contiene come necessitas la sua passione e morte.

Gesù aveva annunciato la venuta del regno di Dio, aveva annunciato anche che alcuni tra suoi discepoli avrebbero visto il regno di Dio prima di morire (cf. Lc 9,27). E così avviene. Gesù prende con sé tre dei suoi discepoli, Pietro, Giovanni e Giacomo, e sale sul monte per pregare: pregare con loro, non pregare da solo, pregare con loro davanti al sopravvenire degli eventi ormai annunciati, pregare con loro per trovare luce sul cammino che lo attende. Ed ecco, durante la preghiera, la manifestazione della gloria di Dio nella sua carne, nella sua persona: accade una trasformazione del suo volto che diventa splendente, una trasformazione delle sue vesti che diventano sfolgoranti. Gesù è altro? No, è l’uomo Gesù di Nazaret, ma è visto, contemplato nella sua gloria, nel suo legame mai spezzato con il Padre, con Dio. A questo proposito mi permetto di ricordare che secondo i padri della chiesa greca la trasformazione, la metamorfosi è soprattutto un evento che ha riguardato gli occhi, e non solo gli occhi, ma anche il cuore dei tre discepoli. Ciò che è stato trasfigurato è lo sguardo dei tre, i quali hanno visto per grazia ciò che non sapevano vedere nella quotidianità della vita con Gesù. A loro è stata data la facoltà di vedere il Cristo nella sua realtà più profonda: quella di Figlio di Dio, realtà che restava nascosta in tutta la vicenda terrena di Gesù.


 

Questa esperienza di gloria appare come una rivelazione non solo per i discepoli, ma anche per Gesù. Così il racconto di questo evento ci vuol dire che per affrontare la prova, la tribolazione, non è vero che occorra essere esperti in sofferenza. Occorre semplicemente avere visto la luce: certo, averla vista nella fede, non con gli occhi carnali. Gesù dunque all’inizio del viaggio verso Gerusalemme riceve dal Padre quella luce necessaria per percorrere il cammino, anche nella tenebra della sofferenza e della morte. Pure i discepoli sono muniti di una luce che deve sostenerli e far loro comprendere la necessità della passione in ogni strada di vero, autentico, sincero amore, che deve sostenerli nella fede pur nello scandalo della passione.

Per questo, in quella luce che Dio dona a Gesù e ai discepoli appaiono Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti, le Sante Scritture contenenti la Parola di Dio, quale conferma per il cammino di Gesù e luce per i discepoli. Mosè ed Elia dicono la necessità dell’esodo di Gesù. In mondo ingiusto – perché il mondo è ingiusto –, se il giusto vuole rimanere nella logica della giustizia e dell’amore, e questo significa restare fedele a Dio, non può altro che accettare di essere rigettato (cf. Sap 1,16-2,20) e, secondo l’espressione del vangelo, «soffrire pollà, molte cose» (Lc 9,22). Non c’è amore senza sacrificio, non c’è amore senza l’accettazione del soffrire. Questa verità è difficile da comprendere; noi non solo esitiamo ad accettarla ma per istinto, con tutte le fibre del nostro essere diciamo: «Non sia mai!». Non è un caso che l’annuncio pasquale, secondo Luca, abbia un solo insegnamento per i discepoli sempre increduli, ribadito per ben tre volte. I due uomini accanto al sepolcro dicono alle donne: «Ricordatevi di come vi parlò quando era ancora in Galilea, dicendo che era necessario che il Figlio dell’uomo patisse» (cf. Lc 24,6-7); Gesù risorto dice ai discepoli in cammino verso Emmaus: «Non era forse necessario che il Cristo soffrisse per entrare nella sua gloria?» (cf. Lc 24,26); e infine Gesù dice agli undici riuniti insieme: «Queste le parole che vi dicevo: sta scritto che il Cristo dovrà patire» (cf. Lc 24,44.46). La sofferenza è un passaggio necessario per ogni via di amore fedele, non può essere soppressa nel cammino di umanizzazione e neanche nel cammino di sequela di Gesù.


 

Ma se il discepolo ha visto, se ha visto la luce di Cristo, allora è equipaggiato alla resistenza, alla lotta spirituale. E poi – come diceva abba Antonio – «che cosa abbiamo noi monaci? Abbiamo le Sante Scritture che ci accompagnano sempre, fino all’ultimo respiro» (cf. Atanasio, Vita di Antonio 26,4; Detti dei padri, Serie alfabetica, Antonio 4). Non è forse avvenuto così per i tre discepoli? Nell’annuncio della passione Mosè ed Elia, le Sante Scritture, testimoniano per Gesù; ma secondo Luca anche nel mattino di Pasqua due uomini, sempre Mosè ed Elia, saranno gli interpreti della tomba vuota per le donne là accorse (cf. Lc 24,4-7); e ancora al momento dell’ascensione saranno due uomini, Mosè ed Elia, che diranno agli apostoli: «Questo Gesù … verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).

Voglio ricordare a tutti noi, ma soprattutto a Nimal, Francesca ed Elisa, che fanno la loro professione definitiva, che si impegnano a viverla fino alla morte: per il vostro futuro deve bastarvi questa luce, luce della chiamata di cui avete fatto esperienza, luce della trasfigurazione, luce dono di Dio, grazie al quale questa notte potete dire un «Amen» definitivo. E con questa luce devono bastarvi le Scritture Sante, viatico che la comunità vi assicurerà ogni giorno, Parola di Dio che vi accompagnerà sempre, nei buoni e nei cattivi giorni. Non dovete dunque dimenticare che Gesù e i discepoli sono saliti sul Tabor e sono saliti sul monte degli Ulivi insieme e per pregare insieme. I discepoli hanno visto la gloria di Gesù sul Tabor perché sono restati in preghiera; non hanno invece saputo contemplare Gesù sul monte degli Ulivi e seguirlo al Golgota perché quella notte non sapevano pregare. Luca scrive che in entrambe le situazioni i discepoli erano oppressi dal sonno (cf. Lc 9,32; 22,45), ma sul Tabor si tennero ben svegli per pregare e videro la luce, la gloria di Gesù; sul monte degli Ulivi, al contrario, non riuscirono a vegliare, nonostante Gesù li avesse chiamati a pregare con lui, e così decisero l’interruzione della loro sequela, la fuga, il tradimento e il rinnegamento del cammino percorso e della loro esperienza di luce. Non ricordavano l’esperienza del Tabor: non la ricordavano e non potevano ricordarla perché non riuscivano a restare in preghiera.


 

Ripetiamo sempre l’importanza della preghiera, ma dobbiamo esserne convinti, dobbiamo rinnovare questa fede nella preghiera. Anche qui l’esperienza che abbiamo nella nostra vita comunitaria ci ammonisce: solo quando si tralascia di pregare, quando la preghiera come opus Dei, come lavoro di Dio in noi, non ha più il primato, allora è possibile la caduta, la smentita della vocazione. Se non si prega, se non si ascolta la voce delle Scritture, la Parola di Dio, si ascolta la propria voce, si ascolta se stessi, si pensa di dover determinare se stessi senza tenere conto né del Signore né degli altri, si decidono i criteri delle proprie scelte, si pensa soltanto alla propria realizzazione. Allora ci si mette su una strada che promette di non far incontrare la sofferenza, una strada in cui, secondo le parole di Gesù, si vuole riconoscere solo se stessi, e così si finisce per perdere la vita (cf. Lc 9,23-24).

Carissimi Nimal, Francesca ed Elisa, voi siete consapevoli della parola che date a noi fratelli e sorelle davanti alla chiesa; voi siete consapevoli dell’impegno che assumete con la nostra comunità e con Dio, dell’alleanza che stringete con noi e con il Signore. Per molti anni, più di sette, avete potuto discernere il cammino monastico che qui noi tutti cerchiamo di fare, nonostante le nostre infedeltà e le nostre debolezze. E in questi anni avete anche sofferto lo scandalo di chi ha smentito la parola data e ne avete portato con noi la ferita. Anche per voi verranno ore difficili, verrà forse il buio del Golgota, l’ora in cui non sarete capaci di ascoltare la voce di Dio e quindi neanche la voce della comunità, ma sentirete in voi soltanto una voce vostra. Sarà l’ora di ricordarvi di questa notte, sarà l’ora di dire con Gesù: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34; Mt 27,46; Sal 22,2). Ma dirlo con Gesù significa condividere con lui certo il sentimento di silenzio, di abbandono e magari di assenza di Dio, ma continuare fedelmente a dire: «Mio Dio, mio Dio», dunque un Dio che resta in alleanza, dove il «mio» esprime il legame, quello sancito questa notte come conferma battesimale: «Mio Signore, mio Gesù e mio Dio».


 

Ora noi celebreremo l’alleanza con Dio e tra di noi e nel nostro cuore canterà l’inno della liturgia cristiana orientale: «Prima di salire sulla croce, Signore, sei salito sulla montagna e ti sei trasfigurato davanti ai discepoli perché essi, vedendo la tua luce, non fossero scandalizzati, giunta l’ora di attraversare la passione e la morte» (Liturgia bizantina, Kontakion della festa della Trasfigurazione).

Fratelli, sorelle e amici, le nostre vite sono diverse, ma la vita cristiana chiede a tutti di vivere in alleanza: nell’alleanza del matrimonio, nell’alleanza della comunità, nell’alleanza di Dio. Non dovremmo dimenticare la luce di cui abbiamo fatto esperienza nel battesimo, nella chiamata e nel giorno in cui davanti alla chiesa abbiamo chiamato Dio a testimone e abbiamo dato una parola nella fedeltà matrimoniale o nella fedeltà di una comunità religiosa. Non dimentichiamolo, perché questo nostro celebrare l’alleanza è celebrare una comunione con Dio che non viene meno, se noi restiamo fedeli e continuiamo a dire: «Mio Dio, mio Signore, mio Gesù».

Enzo Bianchi

Vendredi saint


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Bose, 2 avril 2010
Homélie d'ENZO BIANCHI
Nous devrions nous souvenir de la spécificité de la souffrance, de la passion de Jésus: l'injustice due aux hommes. Mais nous devrions aussi assumer une grande conscience de notre responsabilité

Homélie
d'ENZO BIANCHI, prieur de Bose
en langue originale italienne

Bose, 2 avril 2010
Office de none

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 Giovanni 18,1-19,37

Carissimi,
abbiamo ascoltato il racconto della passione di Gesù secondo il quarto vangelo, secondo Giovanni. Tutti sappiamo che questo è l’altro vangelo rispetto ai primi tre, detti sinottici perché si possono leggere insieme, con una sola ottica; il quarto vangelo narra gli stessi eventi della passione di Gesù, ma in un altro modo. Nei vangeli sinottici, che riproducono con poche varianti il racconto iniziale dovuto a Marco, c’è la narrazione del dolore, delle sofferenze, della condanna a morte di Gesù, fino alla morte in croce. C’è in sostanza la croce con il suo scandalo e la sua follia: un Messia che termina la sua vicenda in quel modo è uno scandalo per il giudeo, è una follia per il greco (cf. 1Cor 1,22-25). E secondo i sinottici soltanto la resurrezione dirà la gloria di Gesù, potremmo dire che soltanto la resurrezione darà ragione a Gesù, dirà con chiarezza l’identità di Gesù, Figlio di Dio, Messia crocifisso ma resuscitato dal Padre.

Nel quarto vangelo c’è invece una nuova comprensione della passione. La gloria, e dunque la rivelazione che Gesù è il Signore, è il Figlio di Dio, la presenza del Padre che autentica la vocazione e la missione di Gesù, stanno già nella passione. Anzi, nella morte di Gesù sulla croce, noi siamo posti non davanti all’abbassamento più profondo di Gesù, ma davanti al suo innalzamento glorioso. Sì, noi siamo abituati a rappresentarci la glorificazione, come d’altronde fa il Nuovo Testamento, nella resurrezione di Gesù, nella vittoria della vita sulla morte, quando la vita vince la morte per sempre, quando Gesù è riconosciuto nella sua vera identità dai discepoli. Invece il quarto vangelo ci sconcerta, perché ci porta, lui solo, a leggere la gloria di Gesù nella sua morte.


 

Se i vangeli sinottici sono attraversati dai tre annunci riguardanti la passione, morte e resurrezione di Gesù – voi tutti ricordate quelle parole molto simili: «È necessario che il Figlio dell’uomo soffra molte cose, sia condannato, sia ucciso e risorga il terzo giorno» (cf. Mc 8,31-33 e par.; 9,30-32 e par.; 10,32-34 e par.) –, il quarto vangelo è attraversato esso pure da tre annunci, ma con dei verbi diversi che non dicono né condanna, né patimenti, né morte, ma parlano di innalzamento e di glorificazione, dicono altro. Il primo annuncio lo dà Gesù in un colloquio con Nicodemo, il rappresentante di Israele, dei giudei: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo» (Gv 3,14). Gesù poi a metà del suo ministero afferma: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono” (Gv 8,28). E nei giorni precedenti la passione, a Gerusalemme, per la terza volta annuncia: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). In tutti e tre i casi si usa il verbo ‘ypsóo, che indica elevazione, innalzamento.

Questo momento dell’innalzamento coincide anche, secondo Giovanni, con «l’ora» di Gesù, un’ora annunciata sempre come incombente, fin dal primo segno in cui Gesù mostrò la sua gloria a Cana. Allora Gesù aveva precisato: «Non è ancora giunta la mia ora» (Gv 2,4), quindi la gloria di Cana, la gloria di un miracolo, non è la vera gloria che attende Gesù. Ma adesso è venuta quest’ora, come ora della gloria del Figlio dell’uomo, e Gesù lo dice: «È venuta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo» (Gv 12,23), l’ora del chicco di grano che caduto a terra muore, ma proprio nella morte, acconsentendo a morire, produce la vita, la vita da cui viene molto frutto, dunque vita abbondante (cf. Gv 12,24). Proprio di fronte a questo annuncio: «È venuta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo», gli ascoltatori capiscono bene e chiedono a Gesù: «Come puoi dire che il Figlio dell’uomo deve essere innalzato?» (Gv 12,34). Gesù ha parlato loro solo di glorificazione, ma essi hanno compreso bene: c’è coincidenza tra l’innalzamento, la glorificazione (verbo doxázo) e l’ora di Gesù. E attenzione: questo innalzamento, quest’ora, questa glorificazione sono azioni che sono dovute agli uomini e a Dio. Sono gli uomini che agiscono durante la passione, quindi quelle azioni sono fatte con una precisa intenzione dagli uomini, eppure Giovanni le legge come realizzate dal Padre con un’altra intenzione.


 

Giovanni è molto attento nel descrivere l’innalzamento di Gesù. Gesù dal giardino oltre il Cedron è stato fatto salire in città, nella casa del sommo sacerdote. Poi è stato ancora portato più in alto da Pilato, nella fortezza Antonia. Pilato lo fa poi sedere addirittura in quello che era il luogo alto per eccellenza, chiamato appunto in ebraico gabbatà, «luogo alto», luogo del giudizi. Infine Gesù è condotto alla collina del Golgota, più alta del tempio e di Gerusalemme, dove viene crocifisso ma attraverso un innalzamento su un palo, in mezzo a due altri condannati. Materialmente dunque c’è un innalzamento, ma un innalzamento che è passione, degradazione umana, che è uno scendere nell’abisso della sofferenza e dell’infamia. Di fatto, però, Giovanni legge in questo essere posto sempre più in alto fino ad avere la posizione centrale tra due malfattori, la posizione del Signore, legge il Kýrios innalzato da terra. E per questo lui annota che quel cartello posto da Pilato lo proclama, non è la causa della morte di Gesù; è il titolo che dice che è lui il Re di Israele, il Messia.

Ecco, agli occhi del quarto vangelo – ma Giovanni vuole indicarci ciò che noi dovremmo comprendere sempre nella passione – c’è l’innalzamento e la glorificazione di Gesù, anche se questa coincide con un’agonia, con un’atroce sofferenza. Attenzione: Giovanni non elimina lo scandalo della sofferenza, non ci vuole consegnare, come faranno gli gnostici, un Gesù la cui l’umanità è totalmente assorbita dalla sua qualità divina. No, Giovanni racconta la passione di Gesù come quella di un uomo, in tutto uguale a noi, un uomo sofferente; mette in luce i patimenti di Gesù, tradito nella menzogna da uno dei dodici, misconosciuto da Pietro, abbandonato dagli altri. Dice con molta precisione, più dei sinottici, che Gesù è stato schiaffeggiato, flagellato, incoronato addirittura di una corona fatta di rami spinosi. Giovanni ci mette davanti un Gesù flagellato, deriso, incoronato di spine, un uomo senza volto. E significativamente solo Giovanni fa dire a Pilato: «Ecco l’uomo!», nient’altro che un uomo, l’Adamo. Nulla è occultato della sofferenza di Gesù, non c’è davvero nessun docetismo, nessun tentativo di rimuovere la sofferenza umana.


 

Ma Giovanni dice, e lo dice chiaramente, che questa sofferenza è un’epifania di violenza umana. Stiamo attenti, perché nel nostro immaginario in cui prevale più l’emozione che la comprensione dovuta all’intelligenza spirituale, noi assimiliamo alle sofferenze, alla passione di Gesù ogni sofferenza umana. Ma Gesù non soffre a causa della natura; la sua passione non è a causa della malattia, neanche a causa di catastrofi che producono delle vittime e in cui il dolore umano – lo conosciamo bene – è un dolore terribile. Gesù nella sua passione soffre della violenza di cui gli uomini sono capaci: questo non dovremmo dimenticarlo. È certamente terribile soffrire per la malattia, soffrire l’agonia in vista della morte, soffrire perché si è vittime di calamità naturali. Ma Gesù qui soffre perché c’è stata falsità di un fratello fino al tradimento, perché c’è la malvagità degli uomini che si scarica su di lui, c’è un’oppressione ingiusta, una sentenza ingiusta. Questa è la passione di Gesù. La sofferenza di Gesù non è dovuta alla sua condizione umana per la quale tutti soffriamo, per la malattia, per la debolezza o per la morte. La sua sofferenza è dovuta a una precisa responsabilità dei capi religiosi di Israele e a una precisa responsabilità del potere politico di Pilato, sempre pronto a farsi complice del potere religioso ogni volta che teme qualcosa. Questa sofferenza è dovuta alla gente, alla sua gente, alla gente di Gesù che ha gridato: «Crocifiggilo!». La passione di Gesù è una sofferenza per la cattiveria, la falsità di noi uomini. Noi siamo uomini come lui, ma la sua sofferenza non è semplicemente la sofferenza creaturale, è la sofferenza di chi vede scaricarsi l’odio, la cattiveria, la falsità, l’inimicizia degli altri su di lui.

Giovanni mette anche in evidenza – ed è un ulteriore aspetto – come in questa strettoia della passione Gesù ha saputo vivere senza rispondere, senza opporre violenza alla violenza. Lo avete sentito, si è difeso, ma si è difeso con grande razionalità e senza aggressione, senza violenza. «Se ho detto male, dimmi dov’è il male, dimostramelo. Ma se ho detto bene, perché mi percuoti?». Gesù aveva il diritto, come ogni vittima, di dire: «Perché? Cosa ho fatto di male?», ma Gesù si è fermato qui. L’unica preoccupazione di Gesù che si comprende tra le righe della passione era quella di non fare nulla contro la volontà del Padre, contro l’amore di Dio. Per questo risponde nella verità quando lo interrogano, ma si afono, si fa muto quando invece non può rispondere con amore. E accetta di ricevere la violenza su di sé, di assorbirla. Gesù sa di essere la vittima, il capo espiatorio, ma vuole interrompere la violenza, l’ingiustizia, e l’unica possibilità è patirla.


 

Il soffrire molte cose – il pollà patheîn dei sinottici (Mc 8,31 e par.) – diventa nel quarto vangelo semplicemente un modo di amare l’altro, gli altri, anche il nemico, il persecutore. Giovanni nel suo racconto, dall’inizio alla fine, mostra questa qualità di Gesù, che è una piena auto-conoscenza della sua vocazione. Gesù certamente l’ha vissuta nei limiti di una persona umana ma con quella auto-coscienza straordinaria che non sa né il quando né il come ma sa però il fine; questo lo sa, come lo può sapere ogni cristiano. Non possiamo sapere né il quando né il come, ma dobbiamo sapere che cosa costituisce il fine e la fine: l’amore, l’agápe. Ecco perché Gesù lascia fare, lascia che gli altri dispongano di lui, perché – dovremmo dire – non ha neanche più una missione da realizzare, deve soltanto realizzare soltanto la sua vocazione. Ha lasciato che Giuda uscisse dal cenacolo per tradirlo (cf. Gv 13,30), non l’ha fermato pur sapendo tutto. Ha lasciato che lo arrestassero, anche se poteva fermare quell’arresto. Avete sentito quell’inciso in Giovanni: «Chi cercate?». Alla risposta: «Gesù il Nazareno», replicò pronunciando il Nome di Dio, «Egó eimi, Io sono» (Es 3,14), e tutti caddero a terra. Tutto questo storicamente non è avvenuto, ma Giovanni ci vuole dire che Gesù aveva la possibilità non solo di sfuggire all’arresto ma anche di avere di una vittoria facile, invocando la sua identità. Invece no, ha voluto bere il calice che il Padre gli ha dato da bere, sapendo che il Padre non voleva quella fine ma voleva certamente che lui raccontasse il suo amore, che lui fosse fedele all’amore. Gli uomini con il loro odio hanno costretto Gesù a raccontare Dio nella passione e nella morte, una morte subìta, violenta, ingiusta.

Ed eccoci ora davvero alla fine, al termine della vocazione di Gesù. Sono le tre del pomeriggio, l’ora nona, Gesù è in croce ormai da ore, ha subìto gli interrogatori, ha subìto la persecuzione, la tortura, e grida: «Ho sete». Parole anche queste ambigue, con un doppio significato perché dicono la sete di un moribondo appeso al palo da tre ore, ma sono anche le parole con cui inizia il salmo 42: «Ho sete di Dio, il Vivente» (cf. Sal 42,3). Dire queste parole – e Giovanni annota «per adempiere le Scritture», le quali dicevano che nella sete del Servo di Dio sarebbe stato dato a lui l’aceto, secondo il Salmo 69,22 –, dire queste parole è dire non solo la sete fisica, ma anche la sete di Dio, la sete di portare a termine tutto quello che il Padre gli aveva chiesto. E Giovanni scrive che colui che aveva promesso di dare acqua da bere a chi aveva sete – vi ricordate nel colloquio con la samaritana, quando Gesù aveva detto: «Se uno viene a me e ha sete, io gli do l’acqua da bere» –; colui che aveva detto: «A chi ha sete darò acqua da bere e non avrà più sete» (cf. Gv 4,13-14); colui che aveva addirittura gridato a Gerusalemme, nel tempio: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me» (Gv 7,37-38), ora è lui che ha sete. Sete di Dio dunque, sete di compiere più la vocazione che sete fisica. E a questo suo grido, gli danno da bere dell’aceto.


 

Ma Gesù allora dice l’ultima sua parola: «Tetélestai, è compiuto», è davvero finalmente tutto realizzato, «e reclinato il capo trasmise lo Spirito» (parédoken tò pneûma). Ha compiuto tutta la sua vocazione, tutta la sua missione e quindi nella sua ora, l’ora dell’innalzamento e l’ora della gloria, Gesù può trasmettere, trasmettere lo Spirito. Notate che qui si usa il verbo paradídomi, il verbo che indica anche la tradizione, la parádosis; dove gli altri vangeli dicono che Gesù spirò, Giovanni non può dire se non che Gesù trasmise lo Spirito. Ed ecco allora che dal suo fianco escono sangue e acqua. Sangue perché Gesù è morto, e un uomo morto per la violenza, se viene trafitto lascia uscire il sangue dalla ferita. Gesù, ormai morto, ricevendo il colpo della lancia, da parte del soldato che vuole verificare la sua morte, lascia uscire il sangue. Ma Giovanni annota che ne uscì anche acqua. Questa è una novità, è lo straordinario, e Giovanni vede davvero qui il compimento. Gesù aveva gridato: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me, perché sta scritto: “Fiumi di acqua viva sgorgheranno dal mio fianco”» (Gv 7,37-38); ebbene, ora dal fianco di Gesù esce anche l’acqua, esce lo Spirito santo. Là Giovanni aveva annotato: «Così parlava del dono dello Spirito perché i credenti non lo avevano ancora ricevuto» (cf. Gv 7,39). Ma ecco che qui Gesù trasmette lo Spirito santo, e quell’acqua che esce dal suo fianco è come l’acqua che esce dal fianco del tempio, dal lato del tempio, un fiume di acqua viva (cf. Ez 47,1-12).

Carissimi, noi oggi siamo posti di fronte a questa morte umana vissuta nell’amore, in modo che una morte, pur violenta, ingiusta, ignominiosa, perché morte di un peccatore – Paolo dirà, addirittura, di un maledetto da Dio e dagli uomini (cf. Gal 3,13) – non è più solo ignominia, sofferenza e patimenti, ma è anche innalzamento e gloria. Noi dovremmo ricordare questo, dovremmo ricordare lo specifico della sofferenza, della passione di Gesù: l’ingiustizia dovuta agli uomini. Ma dovremmo anche assumere una grande consapevolezza e responsabilità: noi, ciascuno di noi, io, nella mia vita ho provocato e provoco sofferenza ingiusta, oppressione agli altri? E come vivo la sofferenza subìta, provocata dalla falsità e dall’ingiustizia degli altri? La domanda riguarda la violenza che noi facciamo agli altri e la violenza che noi subiamo. Per entrambe il riferimento è solo Gesù che, come dice Pietro, «nella sua passione non rispondeva con violenza alla violenza» (cf. 1Pt 2,23). Il riferimento è Gesù, colui che ha fatto di uno strumento ignominioso, la croce, una via di gloria, la via dell’amore.

ENZO BIANCHI, priore di Bose