Conférence d'ouverture

IVe Colloque liturgique international
L'ESPACE LITURGIQUE ET SON ORIENTATION
Bose, 1er - 3 juin 2006
Monastère de Bose
Office national pour les biens culturels ecclésiastiques – CEI

Bose, église monastique
Bose, église monastique

CONFÉRENCE D'OUVERTURE D'ENZO BIANCHI

Le  discours d'ouverture, prononcé le jeudi 1er juin 2006 par le prieur Enzo Bianchi, en langue italienne.

Amati vescovi, esimi professori e voi tutti cari ospiti e amici presenti,

è con cuore grato che apro i lavori di questo IV Convegno Liturgico Internazionale, dando a tutti e a ciascuno di voi il mio più cordiale e affettuoso benvenuto.

 Siamo giunti alla quarta edizione di questo nostro appuntamento annuale, pensato e voluto dal Monastero di Bose in collaborazione con l’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali Ecclesiastici della Conferenza Episcopale Italiana, come luogo per una seria e approfondita riflessione circa il rapporto tra liturgia e architettura. Spazio di conoscenza, di scambio e di reciproco ascolto su ciò che oggi rappresenta uno degli ambiti emergenti dell’interesse della chiesa e, più precisamente, dell’interesse della cultura della fede. La cultura della fede è l’esercizio dell’intelligenza della fede, è il frutto di una fede pensata. I secoli di cristianesimo che ci stanno alle spalle testimoniano con indubbia evidenza che quando la fede è pensata, ovvero quando tutti quegli ambiti in cui la fede si esprime non sono né ignorati, né trascurati o, peggio ancora, lasciati al caso, la fede giunge da se stessa a creare cultura. Sì, una fede vissuta con intelligenza crea cultura, che si esprime tanto nelle forme del pensiero quanto nell’espressione artistica, sia essa figurativa, musicale o architettonica. Domandiamoci: in quale misura oggi la fede cristiana è capace di generare cultura, creando arte e bellezza in immagini, in suoni, ma anche in spazi e luoghi?

Se la bellezza e l’arte hanno certamente un fine in se stesse, non si deve dimenticare che nel cristianesimo esse posseggono anche un significato e un valore testimoniale. Simone Weil ha scritto: “Il canto liturgico può testimoniare quanto la morte di un martire” (L’ombra e la grazia, p. 185); e noi possiamo aggiungere che anche un luogo di culto cristiano, una chiesa, è autentica martyria, testimonianza della fede. La storia, anche quella contemporanea, attesta che molto spesso là dove dei cristiani subiscono il martirio, simultaneamente sono rasi al suolo i loro luoghi di culto, affermando così che la vita dei cristiani e i loro luoghi di assemblea formano un tutt’uno.

Il rinnovato interesse per il rapporto tra liturgia e architettura al quale da alcuni anni si assiste è certamente legato alla presa di coscienza, dopo alcuni decenni di oblio, di come lo spazio liturgico sia un luogo simbolico maggiore per la formazione dell’identità cristiana. La crescente scristianizzazione della società occidentale rappresenta certamente una chance offerta ai cristiani per riscoprire e ripensare luoghi e tempi di iniziazione.

Come tutte le iniziazioni, anche l’iniziazione cristiana è efficace nella misura in cui è un processo globale che si rivolge non solo all’intelletto ma anche al cuore, alla memoria e al corpo. Essere iniziati non significa semplicemente imparare della verità da credere, ma ricevere, attraverso tutti i sensi, una nuova identità. Ora, lo spazio liturgico, soprattutto nell’atto della celebrazione, è il luogo simbolico maggiore di formazione dell’identità cristiana, perché esso da a vedere il lessico e la grammatica della vita cristiana così come sono stati trasmesse dalla grande tradizione. È la stessa liturgia ad attestare il rapporto tra lo spazio liturgico e l’identità cristiana quanto, nel responsorio graduale della dedicazione di una chiesa tratto dal IV libro di Esdra, canta: “Locus iste a Deo factus est, inaestimabile sacramentum” (4 Esd 8,21.24). Questo luogo è stato fatto da Dio, ed è sacramento inestimabile. Lo spazio liturgico è dunque “sacramentum” nel senso agostiniano del termine, ovvero è quasi visibile verbum, è visibilità della Parola. Di quella Parola che esce dalla bocca di Dio, e della quale il Signore stesso attesta l’efficacia nella profezia di Isaia: “Non torna a me senza risultato, senza aver realizzato ciò per cui l’ho inviata”. Se, come canta il graduale, lo spazio liturgico è sacramentum, esso è allora parola “viva ed efficace” che opera e agisce su chi lo abita, su chi giorno dopo giorno lo frequenta, su chi dimora in esso, cooperando alla formazione dell’identità del cristiano, e dunque dell’identità della chiesa. L’edificio chiesa di fatto edifica la chiesa.

Lo spazio liturgico è spazio iniziatico nel quale ciascuno è invitato a entrare, a prendere posto, il suo posto, e a lasciarsi afferrare facendo, in qualche modo, fede alla materialità del luogo, alla “benedetta materia” come amava dire di Teilhard de Chardin, alla pietra, al legno, alla luce che per la loro composizione e trasformazione parlano la lingua cristiana e dunque parlano la Parola di Dio. Come l’Ecclesia mater, anche lo spazio di una chiesa è una vera e propria matrice spirituale nella quale i cristiani sono generati alla fede. È, infatti, all’interno di uno spazio liturgico che si nasce alla vita cristiana e, liturgia dopo liturgia, si cresce, si matura come uomini e donne di fede. Tale è il ruolo dello spazio liturgico nella formazione dell’identità del cristiano che, inevitabilmente, anche le storture e le brutture di uno spazio liturgico diventeranno prima o poi deformazioni e patologie della vita spirituale di chi lo frequenta. Per esperienza sappiamo bene come certe chiese siano veri e propri ostacoli alla preghiera e all’esperienza di Dio. Questo dice l’estrema fragilità alla quale lo spazio liturgico cristiano è esposto. Per questo esso, come ogni altra realtà cristiana, ha costantemente bisogno di essere evangelizzato, ovvero verificato, rinnovato e corretto alla luce dello specifico cristiano. Questa fragilità dello spazio liturgico l’hanno colta bene coloro che nella storia della chiesa hanno sono stati dei riformatori, creando nuove forme di vita spirituale. Ci basti pensare a S. Bernardo e all’architettura liturgica da lui creata, espressione visiva del rinnovamento spirituale da lui intrapreso. Ma anche l’architettura francescana e quella domenicana, non semplici stili, ma espressioni di una precisa esperienza spirituale.

Probabilmente, l’interesse attuale per l’architettura liturgica testimonia la necessità di un ripensamento dello spazio liturgico alla luce dei modelli di vita cristiana, di chiesa e di liturgia indicati dal concilio Vaticano II. La ricerca che ci attende in questi giorni sul significato antropologico, biblico, teologico e architettonico dello spazio liturgico è anch’essa espressione della comune volontà di riscoprire il valore e il significato originari dello spazio liturgico cristiano.

La nostra riflessione sullo spazio liturgico entrerà anche nel merito di uno dei temi certamente più complessi e oggi più dibattuti: l’orientamento della preghiera cristiana. L’importanza e anche l’attualità di questo tema non potevano essere da noi ignorate, e per questo abbiamo invitato a prendere la parola i principali protagonisti dell’attuale dibattito sull’orientamento: Albert Gerhards, Uwe Michael Lang, Martin Walraff e Robert Taft che ringrazio di cuore per aver accetto il nostro invito.

Mi sembra di poter osservare che il dibattito sull’orientamento sia oggi giunto ad dato ampiamente condiviso che segna un punto di non ritorno. Rispetto a quanti in passato invocavano il ritorno dell’orientamento ad est di tutte le chiese come condizione necessaria per una liturgia fedele alla tradizione, oggi, pur riconoscendo il profondo significato del rivolgersi verso est nella celebrazione eucaristica, si osserva che “il significato intrinseco di questo gesto liturgico trascende il fatto di volgersi semplicemente verso uno dei punti cardinali. In effetti ‘l’orientamento liturgico’ in senso ideale può persino prescindere da uno stretto contesto geografico. Qui si tratta dell’orientamento comune del sacerdote e dell’assemblea nella preghiera liturgica” (Lang. p. 73). Riconoscendo che la posizione verso oriente del presbitero all’altare e con lui dei fedeli non è una tradizione fondamentale della liturgia cristiana, si raggiunge quanto già affermato da Louis Bouyer, per il quale “non bisogna tanto vedere la materialità dell’antica tradizione, quanto il suo senso. Se realmente il simbolo materiale non può essere mantenuto, bisogna trovare qualche altra maniera di esprimerne il senso. Il fatto che la celebrazione eucaristica abbia un orientamento escatologico … deve certamente essere messo in risalto, in una maniera o nell’altra, ovunque i cristiani si radunino per l’eucaristia” (Architettura e liturgia, p. 61).

Questo è, a nostro parere, un primo dato che l’attuale dibattito sull’orientamento pone alla nostra attenzione e che non può essere ignorato. È innegabile osservare che l’orientamento, inteso come espressione della dimensione escatologica della celebrazione eucaristica e come narrazione del popolo di Dio in cammino verso il Regno, sia oggi sovente mancante nelle nostre liturgie. Si ha spesso l’impressione che l’assemblea dei fedeli sia disorientata, ovvero che non abbia nella preghiera quella direzione unica e chiara in grado di esprimere e significare la sua tensione escatologica. L’orientamento liturgico, che è il volgersi dell’assemblea per pregare verso un’unica direzione rimane dunque un elemento che attende di essere recuperato in tutto il suo valore.

Ciò che oggi una parte dei protagonisti del dibattito sull’orientamento richiede, è la comune direzione del presbitero e dell’assemblea nella preghiera, domandando di fatto che il presbitero all’altare torni a volgere le spalle ai fedeli durante la preghiera eucaristica. Questo è il punto certamente più delicato e dunque più dibattuto, che tuttavia rappresenta un tema di grande importanza. Ci sembra di poter affermare, anzitutto, che la continua e ostinata posizione frontale, vis-à-vis, del presbitero rispetto all’assemblea rappresenta un serio problema nell’attuale prassi liturgica. Dall’inizio al termine della liturgia, sia egli alla sede, all’ambone e poi all’altare, il presbitero si pone sempre e solo frontalmente rispetto all’assemblea, qualunque sia la sua parola o il suo gesto liturgico. Il persistente faccia a faccia oscura una verità teologica fondamentale: la liturgia è opus Dei, è opera di Dio e l’assemblea è anzitutto alla presenza di Dio che l’ha convocata a sé. Di fronte a questo eccessivo protagonismo del presbitero Hans Urs von Balthasar vi ha visto una nuova forma di clericalismo: “Si ha la sensazione che la liturgia post-conciliare sia divenuta più clericale di quanto non fosse nei giorni in cui il sacerdote era un semplice servitore del mistero che veniva celebrato”.

Non è per nulla necessario che la sede presidenziale stia in posizione frontale rispetto ai fedeli, come del resto non lo era ancora nel presbiterio tridentino dove si trovava in posizione laterale, così come nessuna norma liturgica impedirebbe al presbitero di porsi nella stessa direzione dell’assemblea per l’invocazione penitenziale, il canto del gloria, l’orazione colletta, la professione di fede, l’oratio fidelium e l’orazione dopo la comunione. Il recupero dell’orientamento liturgico richiede dunque anzitutto un profondo ripensamento del situarsi del presbitero rispetto ai fedeli. Dall’ostinato faccia a faccia a una attenta modulazione regolata dalla diversa natura degli atti di linguaggio. La croce posta al di sopra dell’altare rimane il segno maggiore verso il quale presbitero e assemblea possono rivolgere la loro preghiera, come suggerito dall’allora cardinale Ratzinger: “Dove non è possibile rivolgersi insieme verso oriente in maniera esplicita, la croce può servire come l’oriente interiore della fede. Essa dovrebbe trovarsi in alto al di sopra dell’altare (in posizione kyriale), ed essere il punto cui possono rivolgere lo sguardo tanto il sacerdote che la comunità orante” (Introduzione allo Spirito della liturgia, p. 79).

Circa la posizione del presbitero all’altare per la liturgia eucaristica e in particolare per l’anafora, appare a tutti evidente come essa sia strettamente legata alla natura dell’eucaristia. I protagonisti del dibattito sull’orientamento evidenziano come la figura del presbitero che all’altare volge le spalle all’assemblea, sia espressione del carattere sacrificale dell’eucaristia, mentre, al contrario, la scelta della celebrazione versus populum computa dalla riforma liturgica sia nata dalla volontà di riaffermare la natura conviviale dell’eucaristia. Se, come si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica, “la Messa è ad un tempo e inseparabilmente il memoriale del sacrificio nel quale si perpetua il sacrificio della croce, e il sacro banchetto della Comunione al Corpo e al Sangue del Signore” (n. 1382), l’una o l’altra posizione del presbitero all’altare accentuano inevitabilmente l’una o l’altra dimensione dell’eucaristia. Pertanto, entrambe le posizioni sono legittime e altamente significative, così che né l’una né l’altra può vantare una superiorità. Questo significa riconoscere che l’attuale celebrazione versus populum della liturgia romana non è migliore o più corretta rispetto alla comune direzione del presbitero e dei fedeli nella celebrazione eucaristia che le chiese d’oriente hanno conservano fino ad oggi, ma solo più adatta e coerente all’oggi della fede vissuto dai credenti. Occorre invece riconoscere con lucidità e coraggio che ciascuna delle due posizioni che l’attuale dibattito sull’orientamento ingenuamente oppone è da se stessa insufficiente per rendere conto della totalità del mistero celebrato. Nessuna forma rituale, nessun testo o gesto liturgico potrà esaurire in sé tutta la ricchezza del mistero di Dio. Come l'unica fede della chiesa è testimoniata da quattro evangeli e nessuno di essi, preso singolarmente, esaurisce tutta la ricchezza del mistero di Cristo. Come l’unica fede eucaristica della chiesa è testimoniata nel Messale Romano da quattro diverse preghiere eucaristiche e nessuna di esse esaurisce in sé tutta la ricchezza del mistero eucaristico, così i due modi possibili di celebrare l’eucaristia non possono, presi singolarmente, esaurire la totalità del mistero celebrato.

La grande tradizione della chiesa ha sempre riconosciuto che il vescovo o il presbitero presiedono l’eucaristia in nomine Christi, segno visibile che Cristo è il “capo del corpo che è la chiesa”. La comune direzione di colui che presiede e dei fedeli durante la preghiera eucaristica può essere dunque l’immagine chiara di Cristo, capo unito al suo corpo che intercede e innalza la lode e l’azione di grazie al Padre. Sull’altare è celebrato il memoriale del sacrificio di Cristo, nel quale il capo unito al corpo, offre se stesso a Dio, secondo la suggestiva definizione che S. Agostino offre del sacrificio della chiesa: “In ciò che la chiesa offre, è essa stessa offerta” (De civitate Dei 10,6).

Ma chi preside l’eucaristia in nomine Christi è segno, al tempo stesso, che è Cristo a spezzare ancora oggi il pane della Parola e del suo Corpo. È Cristo di fronte alla sua chiesa che si dona dicendo: “Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo che sarà dato per voi …”, ricordando così che il nome neotestamentario dell’eucaristia è “Cena del Signore” e che l’altare è sempre la “tavola del Signore”. Per questo nel 1993 la Congregazione del culto divino ha potuto ricordare che “la forma simbolica dell’Eucaristia è quella di un convinto, ripetizione della cena del Signore. Non si dubita che questo convito sia sacrificale, memoriale della morte e resurrezione di Cristo, però dal punto di vista figurativo il suo punto di riferimento è la cena” (Notitiae 322/1993). La scelta della celebrazione versus populum compiuta dalla riforma conciliare è dunque pienamente coerente alla grande tradizione della chiesa e alla sua ininterrotta fede eucaristica, sebbene sia da se stessa insufficiente per rendere conto della totalità del mistero celebrato.

La celebrazione eucaristia, dunque, è inseparabilmente memoriale del sacrificio e cena del Signore, dove il Cristo è al tempo stesso rivolto verso il Padre e rivolto verso la chiesa: questo ci sia sufficiente per spiegare le difficoltà a trovare una direzione unica e definitiva in tutte le chiese.

Questo nostro convegno segnerà, dunque, un’ulteriore fase del dibattito in corso sull’orientamento. Ed nostro desidero che esso sia un’occasione di confronto e di dibattito, nello stile auspicato nell’introduzione al saggio di Michael Lang dall’allora cardinale Joseph Ratzinger il quale invitava ad “un nuovo dibattito più disteso, nel corso del quale sia possibile cercare il modo migliore per mettere in pratica il mistero della salvezza. Tale ricerca va compiuta non condannandosi reciprocamente, ma ascoltando attentamente gli uni gli altri e, fattore ancora più importante, ascoltando la guida intima della liturgia. Non si giunge ad alcun risultato etichettando le posizioni come ‘preconciliari’, ‘reazionarie’, ‘conservatrici’ oppure come ‘progressiste’ ed ‘estranee alla fede’; serve una nuova apertura reciproca” (p. 8). Questo è anche il mio augurio.

Presiedo questa seduta di apertura insieme a don Stefano Russo direttore d’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali Ecclesiastici della Conferenza Episcopale italiana. A lui va il mio più vivo ringraziamento per la collaborazione sua e dell’ufficio da lui diretto nella promozione di questo convegno che si pone anche a servizio della chiesa che è in Italia.

Rivolgo il mio più caro e fraterno saluto all’arcivescovo Piero Marini, maestro delle celebrazioni liturgiche del santo Padre. La sua presenza fedele attesta l’amicizia che ci lega da anni. La sapienza e la passione con la quale svolge il suo ministero a servizio delle liturgie papali ci è di grande incoraggiamento nel proseguire questo nostri convegni liturgici.

Il mio fraterno saluto va anche al vescovo di Salisbury David Stancliffe, Presidente della Commissione Liturgica della Chiesa d’Inghilterra. È una gioia grande accoglierlo di nuovo in mezzo a noi. La chiesa di Inghilterra e la Comunione anglicana sono nel nostro cuore e nella nostra costante intercessione, anche per l’affetto che ci lega all’Arcivescovo di Canterbury il Reverendo Rowan Williams, che più volte ci ha onorato della sua visita fraterna.

Accogliamo con gioia fraterna il professore André Lossky, delegato del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli e il protopresbitero Konstantinos Karaisaridis, delegato del Santo Sinodo della Chiesa di Grecia. Un caro saluto a mons. Massimo Giustetti vescovo emerito della nostra diocesi di Biella, mente l’attuale vescovo di Biella mons. Gabriele Mana ci porterà il suo saluto nella giornata di domani. La presenza di pastori e fedeli della chiesa cattolica, del Patriarcato ecumenico, delle chiese ortodosse di Greca e di Romania, della Comunione anglicana, della Chiesa episcopaliana d’America e della Chiesa Luterana di Germania, danno un respiro ecumenico a queste nostre giornate di studio, che diventano così anche un incontro fraterno di persone e di tradizioni spirituali e liturgiche che sempre hanno bisogno l’una dell’altra per poter celebrare l’unica fede.

Rivolgo il mio saluto grato ai membri del Comitato scientifico. Vi fanno parte i qui presenti mons. Giancarlo Santi: andrà sempre ricordato che è grazie alla sua pronta disponibilità e alla collaborazione immediata nella sua allora qualità di direttore dell’Ufficio Nazionale peri Beni Culturali Ecclesiastici che è stato possibile avviare questa nostra iniziativa, che ora prosegue grazie anche al contributo di don Stefano Russo suo successore in questo incarico. Il caro padre Frédéric Debuyst, i professori Paul De Clerck, Albert Gerhards e Keith Pecklers. Il Comitato scientifico prepara questi convegni con riunioni periodiche per la riflessione e la programmazione.

Saluto cordialmente tutti i relatori che interverranno in questi giorni, in particolare coloro che per la prima volta sono qui tra di noi.

Il mio saluto va a voi tutti qui presenti che anche quest’anno avete risposto numerosi, andando molto al di là delle nostre possibilità di accoglienza. Saluto i direttori e membri degli uffici liturgici diocesani, delle commissioni di arte sacra, a voi docenti e studenti di liturgia di diversi istituti e facoltà universitarie, architetti, artisti e a tutti coloro che con passione hanno a cuore l’architettura e l’arte per la liturgia. Il mio pensiero va in particolare a voi architetti, che con sensibilità e attenzione partecipate numerosi a questi nostri convegni la cui proposta teologica è certamente impegnativa ed esigente. È per questo che a voi architetti, cui nella progettazione e realizzazione di una chiesa spetta spesso il ruolo più gravoso, ripeto ciò che il celebre architetto Christian De Portzamparc ha detto nel febbraio scorso nella sua lezione inaugurale al Collège de France: “Non c’è una sola verità nell’architettura … L’incertezza è la verità. Essa circonda ogni progetto architettonico. I bravi architetti si sentono responsabili di ciò che hanno fatto di un programma o di un sito. L’artista non deve render conto a nessuno, l’architetto sì” (Le monde, 4 febbraio 2006, p. 18).

Un saluto fraterno ai monaci e alle monache presenti, provenienti da numerosi monasteri europei e americani. In particolare saluto l’abate di Disentis, padre Daniel Schömbachler e il Priore di S. Anselmo Michael Naughton. La vostra presenza attesta la speciale attenzione che da sempre il monachesimo riserva alla vita liturgica.

L’internazionalità dei partecipanti a questi nostri convegni cresce di anno in anno. Oltre che dall’Italia provenite da paesi europei come Belgio, Francia, Grecia, Germania, Malta, Polonia, Portogallo, Romania, Slovenia, Spagna, Svizzera e Ungheria. Quest’anno è con soddisfazione che accogliamo un folto numero di partecipanti proveniente dagli Stati Uniti tra i quali padre Kevin Irwin, Decano dell’Università Cattolica di Washington a cui va il mio più cordiale saluto. Per la primo volta vi è anche tra noi una rappresentanza della chiesa latinoamericana, alcuni membri della Commissione Arte Sacra della Conferenza Episcopale Brasiliana, ai quali diamo il nostro più sincero benvenuto.

Va da sé ricordare che questo convegno si pone in perfetta continuità con quelli che lo hanno preceduto sull’altare e sull’ambone. Per segnare questa continuità non vi è miglior modo che presentare gli Atti del Convegno sull’ambone dello scorso anno. Ora si ha tra le mani uno strumento certamente di alto profilo scientifico per la qualità dei contributi che esso offre.

In conclusione, il mio augurio è che questi giorni siamo per noi tutti un grande esercizio di intelligenza e di conoscenza per giungere a cogliere tutto il senso e tutto il valore dello spazio liturgico e del suo orientamento.

Enzo Bianchi, priore di Bose

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