Conclusions du colloque

 

La medesima necessità, ci è stata ricordata da Efrem, l’esegeta-poeta, che vede nella Scrittura un’altra forma dell’abbassamento (di synkatavasis) di Dio. Qui, infatti, Dio si fa parola umana. Se nell’incarnazione il Logos si è vestito di carne umana, nella Scrittura egli si è rivestito di parole umane: si è vestito del nostro linguaggio e ci ha parlato facendo uso delle nostre metafore. Ora, ambedue possono essere causa di scandalo: l’umiliazione nella carne come l’umiliazione nella parola. Ambedue chiedono di essere interpretate, con fede, con amore, ma anche facendo uso dell’intelligenza. Con fede, con amore e con intelligenza siamo dunque invitati leggere quella Scrittura che Efrem paragona ad una fonte zampillante, alla quale non ci sia accosta per “esaurirla” (rinchiuderla nelle nostre definizioni) ma per “dissetarsi”. Di qui dunque lo statuto dell’esegeta che non chiude il testo, ma lo apre facendo intuire i molteplici sensi che esso nasconde e disvela.

Abbiamo anche ascoltato l’attaccamento alle Scritture in un mondo così particolare com’è quello del deserto egiziano. Negli apoftegmi, anche a motivo della loro particolare forma letteraria, è difficile rinvenire un preciso metodo di lectio divina. Anzi vi si percepisce una sottile critica contro l’intellettualismo, e una certa esaltazione della santità incolta (un tratto tipicamente egiziano, che ad esempio non troviamo nel monachesimo siriaco). Eppure la Scrittura è meditata nella sinassi settimanale, nella cella e nelle parole dell’abba. E un’attenta lettura di qualsivoglia apoftegma rivelerà la grande finezza esegetica di questi autori, nelle varie reminiscenze bibliche che si intrecciano nelle loro parole. Dunque si polemizza contro un certo uso del libro. Eppure il libro è più che mai presente. Oserei azzardare che è possibile polemizzare, proprio perché esso è ben presente... Ma il libro dev’essere “praticato” e “interiorizzato”. Vale a dire che dev’essere superato mediante una praxis che diventa essa stessa libro; e interiorizzato tramite un apprendimento mnemonico che consenta alla parola di penetrare nell’intimo e qui di scavarsi una dimora. Il libro rischia, infatti, di restare esterno a chi lo legge. Viene in mente il famoso passo del Fedro di Platone in cui, all’inventore della scrittura, si obietta che

essa avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno perché, fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da sé medesimi. Dunque tu non hai trovato il farmaco della memoria, ma del promemoria(3).