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A Sabedoria do Coração

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Enzo Bianchi, Priore di Bose
Enzo Bianchi, Priore di Bose

Torino, Teatro Regio Foyer del Toro, 2 maio 2013
Apresentação do Liber amicorum A SABEDORIA DO CORAÇÃO Einaudi editore
“A duração da nossa vida poderá ser de setenta anos e, para os mais fortes, de oitenta...”
... Assim está escrito no salmo 90, o único atribuído a Moisés (texto integral em italiano)

A SABEDORIA DO CORAÇÃO

Torino, Teatro Regio Foyer del Toro, 2 maggio 2013

Presentazione del Liber amicorum
LA SAPIENZA DEL CUORE
Einaudi editore

Enzo Bianchi
Priore di Bose
“La nostra vita arriva a 70 anni, a 80 se ci sono le forze...”

© Einaudi 2013
© Einaudi 2013
... Così sta scritto nel salmo 90, l’unico salmo attribuito a Mosè, uomo di Dio. Un salmo, preghiera del mattino, che le mie labbra hanno sussurrato poi cantato fin dalla mia adolescenza... “Memoria” degli anni assegnati all’uomo: 70... e per alcuni 80, se ci sono le forze.

Eccomi giunto a questa tappa del pellegrinaggio sulla terra che tanto ho amato e amo, consapevole di dover contare più che mai i miei giorni, sapendo che davanti a me sta l’esodo da compiersi con obbedienza, con un amen, un sì che spero convinto e capace di scaturire da un grazie. Come scriveva nel suo diario Dag Hammarskjöld: “Al passato grazie, al futuro sì!”. Così ci si esercita all’arte del lasciare la presa, continuando a ritenere cara la vita, ad amarla, mentre la si lascia nelle mani di altri.

Eccomi dunque qui con voi per dirci che siamo amici, e per nient’altro. In verità sono confuso e per questo mi sento in obbligo di dirvi da dove scaturisce questo incontro. È stata Antonella Parigi, amica carissima, a proporre di festeggiare i miei 70 anni al Circolo dei lettori, con l’idea che Guido Martinetti, che io non avevo ancora incontrato, avrebbe fatto festa con il dono del suo gelato... Accettai l’idea, sorridendo contento soprattutto di poter conoscere Guido e condividere con alcuni amici un’ora di gioia serena. In realtà, senza che ne fossi informato, con l’adesione di alcuni miei fratelli si è messo in moto il liber amicorum e di conseguenza questo incontro, grazie soprattutto all’iniziativa del mio editore Einaudi.

Chi mi conosce sa che ho una resistenza interiore ad accettare riconoscimenti e onori, non perché io sia umile, ma perché conservo molti atteggiamenti monferrini riassunti in quell’imperativo a me caro: “esageruma nenta!”. Ultimamente tuttavia, venuto a conoscenza di quanto preparatomi, ho voluto accettare con semplicità e gratitudine, sapendo che avrei incontrato gli amici, anche se in una forma che non solo non merito, ma nemmeno ho desiderato: una forma che significativamente non ho mai conosciuto in tutta la mia vita. Anche per questo: grazie e amen!

Mi conforta il fatto che non tremo di fronte alle parole di Gesù: “Guai a voi, quando tutti diranno bene di voi, perché così è accaduto per i falsi profeti!” (Lc 6,26). Non penso di essere un profeta “vero”, però so che molti dicono male di me, sovente mi calunniano e vorrebbero ferirmi negandomi la qualità di cattolico. E questo soprattutto nello spazio ecclesiale, come mi disse alcune settimane or sono un leale direttore di giornale: “Lei sa che nella chiesa molti non la amano?”. Ho sempre saputo che questa è una necessitas umana e cristiana e perciò ho sempre accolto le contraddizioni, senza mai sottrarmi ad esse, nonostante la sofferenza: esse richiedono solo una sottomissione, non una resa, e una resistenza se offendono la verità e gli altri. Ho sempre chiesto a me stesso non di dare testimonianza – perché solo il pensiero di questo mi dà le vertigini e mi copre di vergogna conoscendo la mia inadeguatezza – ma di non dare scandalo! Questo basta, nulla di più.

Ma ora vorrei da amico dire ad amici, cor ad cor loquitur, ciò che più mi brucia nel cuore.
Innanzitutto: sono un cristiano e quindi dico il mio canto di ringraziamento al Signore. Mi ha chiamato alla vita, anche se le condizioni in cui venivo al mondo erano veramente precarie e la mia nascita giudicata inopportuna. Posso dire che mia madre mi ha letteralmente “dato” la vita, che mi ha voluto con risolutezza, anche se la mia vita avrebbe tolto vita alla sua. Ma il grazie al Signore è motivato anche dal fatto che ho sempre sentito dentro di me una sua chiamata. Permettetemi: si vedrà nell’ultimo giorno, nel giorno del Giudizio, se è vero che è Lui che mi ha chiamato o se sono io che gli ho attribuito la mia vocazione, ma per quanto credo ora, dico che ho seguito una voce dentro di me, una voce forte, esigente, che mi ha fatto compiere il cammino che ho percorso. Ho pensato molto alle parole che vi sto dicendo, ma non posso esprimermi altrimenti: quello che ho sentito dentro di me come una vocazione nella mia vita si è realizzato in una linearità che mi sorprende. Nella mia vita non ci sono stati segmenti deviati né pentimenti per la strada percorsa: il telos che ho intravisto davanti a me l’ho perseguito con tenacia e fedeltà, ma posso dire che quello che vivo è quanto avevo pensato e desiderato all’inizio della mia scelta! Non nego che ci siano state mie contraddizioni alla volontà del Signore, così come cadute, fallimenti, peccati, inadeguatezze, ma il cammino è sempre stato quello – senza mutamenti e senza smentite – e non un altro. Questa semplicità lineare della  mia vita la sento come una grande grazia senza meriti da parte mia.

Mi sento proprio di dire che il Signore è fedele e che la sua misericordia è inesauribile. Un giorno del 1985, nell’età di mezzo, mentre attraversavo una valle di ombra di morte, ho potuto scrivere: “Misericordias tuas, Domine, in aeternum cantabo... etiam in inferis!”. Ed è in questo cammino così lineare che sento il dovere di rendere grazie per chi questo cammino ha reso più chiaro, sostenuto, determinato. Innanzitutto mia madre – una donna cristiana credente – e mio padre, un uomo non credente ma giusto. Poi le due donne che mi hanno cresciuto ed educato con rara sapienza... E poi alcuni maestri: il professor Giovanni Boano, padre Michele Pellegrino, don Giuseppe Dossetti, il professor Giuseppe Alberigo, il caro rabbi Paolo De Benedetti. Presenze importanti per la mia formazione, sia spirituale cristiana che intellettuale. Assieme ad altri, certo, ma l’assiduità e gli incontri frequenti con questi ha influenzato i miei interessi e il mio cammino.

Riguardo alla mia vicenda monastica, devo confessare che fin dall’infanzia – cioè a 9-10 anni – avevo compreso, non so se da me stesso o per l’insegnamento ricevuto, che ciò che più mi interessava era il Vangelo che allora cominciai a leggere e meditare ogni giorno.

E fin da allora avevo compreso che il Vangelo era Gesù Cristo e che Gesù Cristo era il Vangelo! Nessun altro Vangelo e nessun altro Gesù Cristo che non fosse quello del Vangelo! Per questo a 11 anni – tre anni dopo la morte di mia madre e contro il volere di mio padre – volli andare in seminario. Così nell’ottobre del 1954 entrai nel seminario minore di Acqui Terme, ma resistetti solo cinque giorni, più altri cinque per un secondo tentativo: piangevo in continuazione e così la prima volta fuggii per tornare a casa, la seconda mi vennero a prendere su invito dei miei superiori perché sembravo loro disperato! Più volte mi è stato chiesto il perché di quel pianto. Non ho mai saputo spiegarlo: non l’amore per i miei genitori che, dopo la morte di mia madre e le seconde nozze di mio padre, era mutato e contraddetto, non certo la disciplina del seminario... Chi sa? Forse semplicemente la nostalgia per il mio paese e la sua vita reale, umana... Tuttavia non ho mai dimenticato quel mio legame a Gesù Cristo e al Vangelo al di sopra di tutto.

La giovinezza l’ho vissuta in mezzo agli altri, gioiosamente, scorrazzando per tutta Europa... Poi, ecco l’esigenza di plasmare quel mio amore in una forma vitae: dapprima la straordinaria avventura di un gruppo universitario ecumenico qui a Torino, nel mio alloggio di via Piave 8 e, mentre cresceva il mio impegno politico anche a livello provinciale, ecco nel 1965 l’incontro con l’Abbé Pierre a Grand Quevilly, alla periferia di Rouen: ho vissuto alcune settimane con una quindicina di uomini ex-legionari, alcolizzati, ex-carcerati, raccogliendo con loro stracci e ferraglia nelle case di Rouen. Vivevamo in baracche sulle rive della Senna. Conobbi là una nuova maniera di stare nella compagnia degli uomini: non quella dell’Azione cattolica in cui avevo militato, non quella nobilissima dell’impegno politico, ma quella di stare semplicemente in mezzo agli altri. Fu uno shock che mi tolse molte certezze e l’Abbé Pierre mi fece capire molte realtà cristiane a me sconosciute.

Così, alla fine del 1965, eccomi a Bose – da solo, perché quelli che dovevano venire a vivere con me avevano deciso altrimenti – ecco la vita monastica! Le regole di Basilio, che avevo letto già nell’adolescenza, mi parevano una traccia da seguire e a poco a poco: l’aiuto dei monaci di Tamié, l’amicizia del priore di Taizé fr. Roger, mi incoraggiarono a intraprendere quella strada in cui mi trovo, convinto ancora oggi di aver fatto bene ad abbracciarla. Cos’era e cos’è per me la vita monastica? Essere semplici cristiani che insieme, in una comunità, tentano – ripeto, tentano – di vivere l’impossibile Vangelo ogni giorno, ricominciando ogni giorno. Semplici cristiani. Per questo non ho mai voluto essere ordinato prete, nonostante l’invito del cardinal Pellegrino e, successivamente, del vescovo di Biella: mi sembrava di acquisire una garanzia ecclesiastica che mi è estranea. Ho sempre detto no a derive settarie, no ad appartenenze elitarie. Piuttosto ho amato la marginalità che Thomas Merton indicava come qualificante il monachesimo nella chiesa e nella società, lo stare sulla soglia, alle frontiere, l’essere forestiero per gli altri... Diceva Pacomio al patriarca Atanasio che lo voleva ordinare prete quando ormai i suoi monaci erano centinaia: “Noi siamo solo dei poveri laici!”. Non mi sono mai sentito di dire diversamente. Anche per questo non ho mai voluto garantirmi e garantire la comunità rifugiandomi in un ordine monastico, godendo del privilegio della “esenzione” rispetto alla chiesa locale, come mi consigliava il cardinal Ballestrero, succeduto a padre Pellegrino come garante della nostra comunità. Non mi sono mai sentito tentato dalla ricerca di garanzie di nessun tipo, né di lettera di raccomandazione che non ho mai chiesto a nessuno: l’unica garanzia può venirmi solo dal Vangelo e dalla Chiesa nel riconoscere la qualità della mia, nostra comunione. Nient’altro! Certo, anche nell’avventura monastica ho avuto parecchi sostegni: padre Eugenio Costa sr., gli abati André Louf, Denis Huerre, Michel Van Parys, i patriarchi di Costantinopoli Athenagoras e poi Bartholomeos, il vescovo Massimo Giustetti che ci accolse nella diocesi di Biella dopo venticinque anni...

Ma ora vorrei concludere con un ringraziamento alla terra che tanto amo e a voi amici che con me l’abitate... Sì, io amo questa terra e sento il comandamento che chiede anche “Ama la terra come te stesso”; amo il mio Monferrato con le sue colline e le sue viti. Amo soprattutto la vite in cui mi sono sempre specchiato e da cui ho tratto e traggo sempre lezione; amo questa terra sempre più calpestata, sfruttata, che mi appare stanca e costretta a gridare le parole di Alano di Lilla: “Uomo, ascolta cosa dicono contro di te gli elementi della natura e soprattutto la terra, tua madre. Perché ingiuri tua madre? Perché fai violenza a me che ti ho partorito dalle mie viscere? Perché mi tormenti con l’aratro per farmi rendere il centuplo? Non ti bastano le cose che ti do, senza che tu me le estorca con la violenza?” (Summa de arte predicatoria 6).

Sì, verso questa terra abbiamo un compito, una responsabilità che ho sempre sentito riguardare il mio essere uomo e cristiano... A Bose, a Ostuni, ad Assisi, a Cellole ho cercato di rendere più bello, più “vivente” e più ospitale quel fazzoletto di terra di cui siamo diventati custodi: edifici antichi come la fede di chi li ha costruiti, case, boschi, campi e orti devono narrare il rispetto della terra e la destinazione a tutti della bellezza e delle cose. Nessuna logica proprietaria e nessuna logica consumistica. È il desiderio di avere luoghi in cui incontrare gli altri e, tra gli altri, quelli che diventano amici, voi! Sappiatelo: per chi conosce la vita nella solitudine del celibato, l’amicizia appare come il luogo dell’esercizio dell’amore reciproco, l’epifania del gusto del vivere!

È quanto affermiamo insieme questa sera. E per questo vi ringrazio. Quando c’è stata notte, oscurità nella mia vita, gli amici non sono mai mancati e il balsamo dell’amicizia ha curato ferite profonde... Grazie, dunque, a tutti voi!

Infine grazie agli autori di questo libro. Innanzitutto le autorità delle chiese che con i loro messaggi attestano la mia passione per l’unità dei discepoli di Cristo. Poi quanti hanno contribuito con la loro sapienza a rispecchiare la pluralità delle mie amicizie e dei temi che mi sono cari: cristiani di diverse confessioni, ebrei, non credenti, artisti... Un grazie particolare all’amico Arvo Paert per la sua composizione e alla Cappella musicale della cattedrale di Lodi che la eseguirà oggi per la prima volta.
Grazie a quelli che hanno voluto questo incontro: l’editore Einaudi nelle persone di Ernesto Franco  e Roberto Cerati – che non ha potuto essere in mezzo a noi, ma a cui va il nostro affettuoso ricordo; il Circolo dei lettori nelle persone di Luca Beatrice e Antonella Parigi; Alberto Melloni, amico che si è preso cura di questo libro; Massimo Cacciari e p. Federico Lombardi, amici antichi, da almeno quarant’anni, che hanno voluto essere qui e presentare il liber amicorum.

Ci sono tra di voi anche quelli che mi sono stati amici intimi: Lucia, Carla, Maritè, Marco. In modo diverso è presente anche Alessio, che se n’è andato... E poi i miei fratelli e le mie sorelle di Bose e, tra loro, quelli che mi sono più vicini e che si sono assunti la fatica di raccogliere le vostre parole e di confezionarle in libro... Grazie!