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Vendredi saint


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Il soffrire molte cose – il pollà patheîn dei sinottici (Mc 8,31 e par.) – diventa nel quarto vangelo semplicemente un modo di amare l’altro, gli altri, anche il nemico, il persecutore. Giovanni nel suo racconto, dall’inizio alla fine, mostra questa qualità di Gesù, che è una piena auto-conoscenza della sua vocazione. Gesù certamente l’ha vissuta nei limiti di una persona umana ma con quella auto-coscienza straordinaria che non sa né il quando né il come ma sa però il fine; questo lo sa, come lo può sapere ogni cristiano. Non possiamo sapere né il quando né il come, ma dobbiamo sapere che cosa costituisce il fine e la fine: l’amore, l’agápe. Ecco perché Gesù lascia fare, lascia che gli altri dispongano di lui, perché – dovremmo dire – non ha neanche più una missione da realizzare, deve soltanto realizzare soltanto la sua vocazione. Ha lasciato che Giuda uscisse dal cenacolo per tradirlo (cf. Gv 13,30), non l’ha fermato pur sapendo tutto. Ha lasciato che lo arrestassero, anche se poteva fermare quell’arresto. Avete sentito quell’inciso in Giovanni: «Chi cercate?». Alla risposta: «Gesù il Nazareno», replicò pronunciando il Nome di Dio, «Egó eimi, Io sono» (Es 3,14), e tutti caddero a terra. Tutto questo storicamente non è avvenuto, ma Giovanni ci vuole dire che Gesù aveva la possibilità non solo di sfuggire all’arresto ma anche di avere di una vittoria facile, invocando la sua identità. Invece no, ha voluto bere il calice che il Padre gli ha dato da bere, sapendo che il Padre non voleva quella fine ma voleva certamente che lui raccontasse il suo amore, che lui fosse fedele all’amore. Gli uomini con il loro odio hanno costretto Gesù a raccontare Dio nella passione e nella morte, una morte subìta, violenta, ingiusta.

Ed eccoci ora davvero alla fine, al termine della vocazione di Gesù. Sono le tre del pomeriggio, l’ora nona, Gesù è in croce ormai da ore, ha subìto gli interrogatori, ha subìto la persecuzione, la tortura, e grida: «Ho sete». Parole anche queste ambigue, con un doppio significato perché dicono la sete di un moribondo appeso al palo da tre ore, ma sono anche le parole con cui inizia il salmo 42: «Ho sete di Dio, il Vivente» (cf. Sal 42,3). Dire queste parole – e Giovanni annota «per adempiere le Scritture», le quali dicevano che nella sete del Servo di Dio sarebbe stato dato a lui l’aceto, secondo il Salmo 69,22 –, dire queste parole è dire non solo la sete fisica, ma anche la sete di Dio, la sete di portare a termine tutto quello che il Padre gli aveva chiesto. E Giovanni scrive che colui che aveva promesso di dare acqua da bere a chi aveva sete – vi ricordate nel colloquio con la samaritana, quando Gesù aveva detto: «Se uno viene a me e ha sete, io gli do l’acqua da bere» –; colui che aveva detto: «A chi ha sete darò acqua da bere e non avrà più sete» (cf. Gv 4,13-14); colui che aveva addirittura gridato a Gerusalemme, nel tempio: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me» (Gv 7,37-38), ora è lui che ha sete. Sete di Dio dunque, sete di compiere più la vocazione che sete fisica. E a questo suo grido, gli danno da bere dell’aceto.