Cenobio ed eremo nella tradizione monastica occidentale

XVIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
COMUNIONE E SOLITUDINE NELLA TRADIZIONE ORTODOSSA
Bose, 8-11 settembre 2010
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

ARMAND VEILLEUX, Scourmont RELAZIONE DI ARMAND VEILLEUX
 
CENOBIO ED EREMO
NELLA TRADIZIONE MONASTICA OCCIDENTALE
Bose, 9 settembre 2010
 
 
 
 
Ascolta la relazione di ARMAND VEILLEUX (in francese):
 

Comunione e solitudine sono due dimensioni essenziali della vita cristiana. Dio è comunione, ci dice san Giovanni, e quello che noi chiamiamo “chiesa” altro non è che la comunione tra tutti coloro che hanno messo la loro fede in Cristo. Quanto al deserto, già nella spiritualità dell’Antico Testamento esso aveva un ruolo centrale, e non tanto come luogo, ma in riferimento a quel periodo eccezionale durante il quale Dio si era forgiato un popolo. Nel vangelo, è il luogo in cui Gesù si ritira per pregare, ma anche quello in cui incontra sul loro terreno le forze del male.

Queste due dimensioni sono strettamente legate tra loro: la solitudine è il luogo dell’incontro. Gesù invita chi vuole pregare a entrare nel proprio cuore e a chiudere la porta, per esservi udito dal Padre. Nel suo discorso di addio ai discepoli, egli dice loro che se qualcuno ascolta la sua Parola il Padre suo l’amerà ed essi verranno e prenderanno dimora presso di lui (cf. Gv 14,23). Il neologismo latino eremus, inventato dai primi autori latini cristiani per tradurre il greco éremos, non designa primariamente un luogo, ma un’esperienza spirituale, che ricorda quella del popolo di Israele nel deserto, come anche quella di Elia e di Gesù.
Dunque è evidente che queste due dimensioni fondamentali e complementari di ogni vita cristiana diventano elementi essenziali di quella forma di sequela che risale a Cristo stesso, e alla quale, a partire dalla fine del iii secolo, viene assegnato il nome di vita monastica.

Mi pareva importante sottolineare, fin dall’inizio, che non vi è vita cristiana, e dunque vita monastica cristiana autentica, che non comporti queste due dimensioni complementari di solitudine e di comunione, anche se equilibri diversi tra queste due componenti porteranno, a partire da una certa epoca, a parlare di due forme di vita monastica distinte, designate l’una come “vita cenobitica” e l’altra come “vita eremitica”.

Al tempo di Cristo tutto il Medio oriente era traversato da una grande corrente spirituale incentrata sulla ricerca di Dio nell’ascesi, nella solitudine e nella contemplazione. La vita, la predicazione e il battesimo di Giovanni Battista erano riconducibili a questo movimento, così come la tradizione degli Esseni, che vivevano nelle vicinanze e che risaliva all’epoca dei Maccabei: un movimento che aveva radici lontane in Persia e, ben oltre, in un archetipo umano fondamentale.
Quando Gesù di Nazaret scende nelle acque del Giordano per farsi battezzare da Giovanni, egli si ricollega a tutta questa grande corrente ascetica e mistica e assumendola le conferisce nuovo significato. Molti tra i primi cristiani, volendo adottare come modalità permanente di vita alcune delle esigenze radicali poste da Gesù a quelli che volevano seguirlo, troveranno in questa espressione religiosa della cultura del loro tempo la forma di concretizzazione opportuna. Ritengo quindi che sia proprio al Giordano, al momento del battesimo di Gesù, che ha avuto inizio quella forma di vita cristiana che qualche secolo dopo sarà chiamata “monachesimo”, ma che esisteva già nell’ascetismo cristiano primitivo sia all’interno delle comunità cristiane, sia in una relativa solitudine ai margini di queste.

Dunque il monachesimo cristiano non è nato in Egitto alla fine del iii secolo, per poi diffondersi prima in oriente e in seguito in occidente: questo è un mito oggi del tutto inaccettabile. È nato al tempo delle prime generazioni cristiane, all’incirca nello stesso periodo in tutte le chiese locali d’oriente e d’occidente, dalla vitalità stessa di ciascuna di queste chiese (e non, come vorrebbe un altro mito, in reazione alla mancanza di fervore delle comunità cristiane dopo la fine delle persecuzioni).
Detto questo, mi limiterò ora a parlare del monachesimo occidentale, dal momento che è questo l’argomento che mi è stato assegnato. E non vorrei cedere alla tentazione della via più facile, che consiste nel descrivere semplicemente le diverse forme istituzionali di cenobitismo e di eremitismo che la chiesa d’occidente ha conosciuto nel corso dei secoli: una storia che è stata già fatta, e non sarebbe molto utile farne un riassunto. Vorrei piuttosto mostrare come tale relazione tra solitudine e comunione – e una sana tensione tra le due – sono state vissute nel corso del tempo, in risposta a congiunture ecclesiali differenti, che a loro volta corrispondevano a situazioni di instabilità della società e della cultura.

In effetti, si può facilmente constatare che i grandi periodi di sviluppo, di rinnovamento o di riforma del monachesimo sono sempre stati epoche di profondo mutamento socio-culturale. È anche interessante rilevare come ciascuno di questi periodi di articolazione della storia sia caratterizzato da una crisi del cenobitismo che provoca una nuova ondata di eremitismo, la quale a sua volta porterà a un rinnovamento del cenobitismo stesso, prima che si ricominci da capo.

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Il vangelo si è diffuso in occidente – come del resto in oriente – utilizzando i mezzi di comunicazione dell’Impero romano. Ora, l’Impero romano era una federazione di “città”. Questo spiega perché il cristianesimo è stato, al tempo delle origini, soprattutto una religione urbana. Si può parlare della chiesa di Cartagine e di Roma come si parlava della chiesa di Corinto, di Antiochia o di Efeso. Bisognerà attendere la caduta dell’Impero romano e le invasioni dei barbari per assistere a una vera e propria evangelizzazione delle campagne. È evidente dunque che l’ascesi cristiana è stata vissuta, nel corso dei primi secoli, non soltanto al cuore delle città, ma all’interno delle famiglie. La vita delle vergini e delle vedove, ma anche degli asceti di sesso maschile – effettivamente meno numerosi –, si svolgeva in una relativa solitudine nella loro casa privata, non senza una comunione costante, soprattutto nella liturgia, con la chiesa locale. È l’epoca di Tertulliano e di Cipriano, che si possono considerare i padri dell’ascetismo occidentale. Un po’ più tardi nasce l’esperienza delle grandi dame romane che vivono all’interno della loro casa privata un’ascesi rigorosa e una vita di solitudine, ma ricevendo in essa anche il clero romano, di cui divengono le guide spirituali.
Questo ascetismo occidentale nelle prime generazioni era prevalentemente femminile, perché gli uomini, per assolvere i loro doveri militari in seno all’esercito romano dovevano praticare i riti della religione pagana ufficiale, e spesso ricevevano il battesimo solo in età avanzata o addirittura sul letto di morte, molto tempo dopo che le loro spose, sorelle e figlie si erano fatte cristiane.

Ma a partire dal iv secolo si sviluppa in occidente un monachesimo maschile caratterizzato da grandi personalità, uomini che saranno, nella loro vita personale, volta a volta eremiti, poi fondatori di cenobi, prima di diventare vescovi e fondatori di monasteri clericali. Le comunità che essi fondano, d’altro canto, coniugano armoniosamente solitudine, vita comunitaria e attività missionaria. Si pensi a un Martino di Tours e a un Ilario di Poitiers, così come alla fondazione di Ligugé nel 361 e a quella di Marmoutiers nel 371. Nel loro caso, parlare di eremitismo o di cenobitismo sarebbe un anacronismo: a seconda delle tappe della loro conversione personale, essi passano dalla solitudine alla vita comunitaria; e quest’ultima, a seconda delle necessità, viene vissuta in una grande solitudine o nell’attività missionaria.
Sant’Onorato sbarca intorno al 410 sull’isola di Lérins, descritta come horror solitudinis, ma in essa viene ben presto raggiunto da numerosi compagni. Qualche tempo dopo Cassiano tenta invece di riorganizzare la vita cenobitica già esistente a Marsiglia, su invito del vescovo Castore, ma la sua nostalgia del monachesimo egiziano conosciuto vent’anni prima lo porta a dare al suo insegnamento un orientamento nettamente eremitico in un contesto cenobitico.

All’inizio del v secolo, tra il 405 e il 419, le invasioni dei barbari cominciano a creare delle fratture geografiche e sociologiche nell’Impero occidentale. I romani abbandonano ben presto la Bretagna, i barbari passano il Reno e conquistano Roma e, nel 429, poco prima di morire, Agostino vede i Vandali davanti alle mura di Ippona. Valentiniano III (425-429) alla fine consegna l’occidente ai barbari, e, nel 476, si conclude la serie di imperatori romani d’occidente. La caduta dell’impero romano e l’arrivo dei barbari segnano l’inizio del processo di conversione delle campagne.

Quando Teodorico, re degli Ostrogoti, prende il potere a Roma, nel 493, si apre di nuovo un piccolo spiraglio di civiltà. Egli si circonda di collaboratori di grande qualità, come Boezio e Cassiodoro, e la sua apertura alla tradizione romana permette la comparsa nella chiesa della rinascita gelasiana. All’epoca, Roma è ancora, e lo sarà per un certo tempo, un centro frequentato da gente che proviene da tutta Italia, dall’Africa e dalla Gallia per studiare.

È nella congiuntura di questo brevissimo periodo di rinnovamento ecclesiale e sociale che un autore sconosciuto scrive la Regula Magisteri, e tra gli studenti che venivano ancora mandati dai genitori a Roma per la formazione c’è un giovane di Norcia, un Benedictus vir, come lo chiamerà Gregorio Magno due secoli dopo.
In questo contesto romano, la differenza tra le forme di vita è chiara. Benedetto conosce gli eremiti, ma scrive una regola per cenobiti. La vita eremitica per la quale nutre stima è quella di chi fa l’eremita dopo essersi formato a lungo in seno alla vita comunitaria. Questo tipo di monachesimo, chiaramente cenobitico, comincia a diffondersi in Italia.

Ma i barbari dilagano nell’Impero con un’ondata di nuove invasioni. Il monastero di Montecassino viene distrutto nel 573, e nulla rimane dei monasteri fondati personalmente da Benedetto, a parte la sua Regola, che viene utilizzata da alcune piccole comunità disperse. Di essa viene a conoscenza molto più tardi papa Gregorio I (590-604), che non soltanto consegna ai posteri l’eredità del Benedictus vir di Subiaco e di Montecassino, raccontandone la Vita nel secondo libro dei Dialoghi, ma invia monaci romani a evangelizzare l’Inghilterra. Forse bisognerebbe dire piuttosto “romanizzare” l’Inghilterra, perché questa era stata già evangelizzata dai monaci irlandesi, i quali d’altro canto avevano creato un loro equilibrio tra solitudine radicale e comunione in seno alla chiesa monastica locale. Sempre nella stessa epoca Colombano e i suoi monaci fanno il percorso inverso e vengono sul continente a evangelizzare la chiesa merovingia.
Questa rifondazione del monachesimo benedettino da parte di Gregorio Magno conferisce da quel momento al monachesimo occidentale un orientamento chiaramente cenobitico, con l’aggiunta di un accento missionario. Il cenobitismo diventa sempre più organizzato, mentre l’eremitismo, che comunque continua a sussistere, non lo è molto.

Tale prevalenza del cenobitismo come forma organizzata di monachesimo viene fortemente accentuata due secoli dopo dalla riforma carolingia, che impone una regola monastica unica per tutti i monasteri dell’Impero, mentre, fino a quell’epoca, la maggior parte delle comunità monastiche trovava il proprio nutrimento spirituale nel ricorso a diverse regole, ivi compresa quella di san Colombano, anche se quella di san Benedetto si era di fatto progressivamente imposta nella prassi, per il suo valore intrinseco.

La riforma carolingia ha avuto comunque il merito di distinguere, accanto all’ordo canonicus e all’ordo monasticus, l’ordo solitariorum: gli eremiti da quel momento vengono riconosciuti come categoria in seno alla chiesa e sono soggetti a una certa legislazione.

L’effetto di questa riforma carolingia è di breve durata. L’occidente viene coinvolto in una seconda ondata di invasioni, che ha come risultato l’instaurazione di una prima era feudale nella quale, sulle rovine dell’Impero carolingio, si sviluppa il prestigio del papato. Le comunità cenobitiche vengono assoggettate ai signori feudali – che talora le fondano in espiazione dei loro peccati –, e aspirano a liberarsi da questo rapporto di dipendenza. È quello che fa Cluny, mettendosi sotto l’autorità diretta del Pontefice romano e acquisendo così la propria libertas nei confronti di ogni signore feudale, laico o ecclesiastico.
La riforma di Cluny è un’imponente riforma spirituale, sotto la guida di grandi abati. Ma Cluny, avendo dovuto rinunciare all’autonomia delle comunità locali per far sì che tutte quelle che gli erano affiliate fruissero della libertas della casa madre, diventa un enorme ingranaggio del mondo feudale. A livello istituzionale, questa riforma ha talmente successo che provoca una profonda crisi del cenobitismo.

Infatti, proprio nel momento in cui prosperavano le grandi abbazie dove si cantavano le lodi di Dio con una liturgia elaborata e complessa, e queste stesse abbazie, fondate alle porte delle città, erano divenute centri di formazione intellettuale e di servizio ai poveri, un’altra aspirazione stava nascendo nel popolo di Dio: è l’epoca della riforma gregoriana, che prende nome da papa Gregorio VII (1073-1085), anche se comincia prima del suo pontificato e continua dopo la sua morte. In quell’epoca si assiste a un’ondata dirompente di movimenti di vita cristiana che imprimono un dinamismo a tutto il popolo di Dio. I cristiani – sia laici che chierici – vengono allora contagiati da una grande sete spirituale. Questo movimento tocca anche tutte le forme di vita religiosa: monaci, canonici ed eremiti. Vi si trovano coinvolti uomini e donne, celibi e sposati, chierici e laici. L’aspirazione era un ritorno alla semplicità evangelica della prima generazione cristiana. Andavano in pellegrinaggio per le strade, partivano anche in gruppi molto numerosi verso nuovi “deserti”. La crisi del cenobitismo provoca una rinascita dell’eremitismo.
Nella prima metà dell’xi secolo, alcuni riformatori, come Romualdo a Camaldoli, o come Giovanni Gualberto a Vallombrosa, fanno della penitenza e della povertà vissute in solitudine la motivazione del loro agire e il cuore della loro riforma. Nascono numerose fondazioni di carattere eremitico. Si constata allora lo stesso fenomeno presente in tutte le altre ondate di eremitismo: se, tra coloro che andavano nel deserto invece di entrare nelle comunità cenobitiche, o anche che lasciavano le comunità cenobitiche per andare nel deserto, vi era un certo numero di autentici eremiti, vi era però anche un numero ancor più grande di persone che vi si recavano semplicemente per non aver trovato nelle comunità cenobitiche esistenti la dimensione di solitudine che cercavano. Non era raro allora che, dopo un periodo di solitudine, alcuni di questi eremiti divenissero i fondatori di nuove comunità cenobitiche che incarnavano meglio – quanto meno a loro avviso – l’equilibrio tra solitudine e comunione.

Tra i frutti di questa crisi del cenobitismo e di questa nuova ondata di eremitismo, si possono annoverare, sul versante eremitico, la fondazione di Camaldoli e della Chartreuse, che rimarranno in vita fino ai nostri giorni, e, sul versante cenobitico, Cîteaux. Numerose altre esperienze fatte nella stessa epoca hanno avuto vita breve; ciò non significa che non abbiano svolto un ruolo efficace nel processo di rinnovamento tanto cenobitico quanto eremitico.

Mezzo secolo dopo ha inizio un lungo periodo della storia della chiesa, al quale è stato dato il nome di “Cristianità”, a grandi linee dal 1140 al 1648. È un periodo difficile da valutare, durante il quale la chiesa ha svolto un ruolo importante nell’edificazione della civiltà occidentale. Vi è chi si rallegra che sia passato, mentre alcune frange della chiesa di oggi vorrebbero farlo rinascere. Si potrebbe dire che nulla di molto speciale si è verificato nel corso di questo lungo periodo, sia per la vita eremitica che per la vita cenobitica, se non l’emergere di un bisogno crescente di rinnovamento e timidi tentativi di riforma qua e là. Vi è chi ha parlato di una nuova ondata di eremitismo nel secolo che ha preceduto la Riforma protestante e la Controriforma, ma si trattava di tentativi per un rinnovamento spirituale che interessasse tutte le forme di vita religiosa, più che di una riscoperta o di un approfondimento della vita propriamente eremitica. Così, ad esempio, il xiii secolo conosce la fondazione dell’Ordine degli eremiti di sant’Agostino; ma si tratta di cenobiti che vivono in solitudine, più che di eremiti in senso stretto.

Da Trento in poi e fino al Vaticano II, i diversi Istituti di vita eremitica e di vita cenobitica continuano ognuno nel solco della propria storia, cercando di rinnovarsi periodicamente, spesso dividendosi in osservanze diverse. Va detto che l’eremitismo nella chiesa latina è quasi sempre stato – soprattutto dopo il Codice di diritto canonico del 1917 – una vita solitaria vissuta in comunità, o per lo meno in collegamento con una comunità. Bisognerà attendere il Codice del 1983 perché un eremita che non appartiene ad alcuna comunità (a parte quella della sua chiesa diocesana) possa essere considerato come “religioso” o “consacrato” (a seconda del vocabolario che si preferisce).

Negli anni immediatamente precedenti e successivi al concilio Vaticano II si assiste a una nuova ondata di eremitismo, che contribuisce, come in passato, a un rinnovamento del cenobitismo. Questa “ondata di eremitismo” del xx secolo di certo non è stata un evento sconvolgente, non ha portato delle folle al deserto, ma non è stata neanche priva di importanza. Si è manifestata sia nella chiesa di Inghilterra che nella chiesa di Roma.
Evidentemente, come in passato, molti di coloro che si sono sentiti chiamati alla vita eremitica erano persone insoddisfatte – spesso a ragione – della vita cenobitica che si offriva loro. In seguito, o hanno abbandonato tutto dopo alcuni anni, oppure sono tornati alla loro comunità per lavorare efficacemente al suo rinnovamento. Ma c’è stato anche un buon numero di eremiti autentici, che hanno concorso con la loro vita di nascondimento, come anche, in certi casi, con i loro scritti, al rinnovamento di tutta la chiesa. Si potrebbero citare, tra gli altri, Jacques Winandy e Thomas Merton.

Nel momento in cui questo fascino dell’eremitismo era al culmine, nel 1975, è stato organizzato un incontro dal canonico Arthur McDonald Allchin a Saint David, nel Galles, per riflettere sul significato di tale fenomeno. Uno dei partecipanti a questo incontro, monsignor Kallistos Ware, è qui presente tra noi; ma un altro ci ha lasciati di recente. Si tratta di padre André Louf, un grande amico di Bose, che negli ultimi anni della sua vita ha realizzato il suo sogno di vita eremitica, dopo esser stato per trent’anni abate di una comunità cenobitica.

Il mondo e la chiesa di oggi hanno bisogno di autentici eremiti e di autentiche comunità. Eremiti e cenobiti, tutti abbiamo la stessa vocazione e la stessa missione: quella di vivere, sebbene in forme differenti, le due dimensioni essenziali di ogni vita cristiana che sono la comunione e la solitudine. Gli autentici solitari vivono in profonda comunione con il mondo e la chiesa, e i veri cenobiti sanno fondare la loro comunione su una relazione personale con Dio nella solitudine.

 ARMAND VEILLEUX