Teologia della fatica ascetica

XVII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
LA LOTTA SPIRITUALE NELLA TRADIZIONE ORTODOSSA
Bose, 9-12 settembre 2009
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

Metropolita FILARETE, Esarca patriarcale di BielorussiaTEOLOGIA DELLA FATICA ASCETICA

Bose, 9 settembre 2009

 

Metropolita FILARETE
Esarca patriarcale di Bielorussia
 
 
 
 
 
Ascolta la conferenza in lingua originale, russo:

Fratelli vescovi scelti da Dio, onorevoli padri, fratelli e sorelle, esimi organizzatori e partecipanti!

Ringrazio di cuore il Padre priore per avermi invitato a partecipare al XVII convegno di spiritualità ortodossa e russa. Sono molto riconoscente a tutti coloro che da diciassette anni rendono possibile lo svolgimento di questo convegno, un segno dei nostri tempi, molto importante per la Santa Chiesa di Cristo. Il mio animo è lieto di essere qui tra voi e condividere alcune riflessioni su come la lotta spirituale è considerata nella tradizione ortodossa.

“Sia benedetto il Regno del Padre del Figlio e dello Spirito Santo”

Con questa parole comincia, in ogni chiesa ortodossa, la Divina liturgia. Ma ogni volta che ci si rivolge a Dio bisogna iniziare con questa glorificazione, poiché essa, secondo san Nicola Cabasila, “mette da parte noi stessi e tutto ciò che è nostro, e glorifica il Signore per Lui stesso, per la Sua forza e la Sua gloria”. Inizio la mia riflessione sulla teologia della fatica ascetica - il podvig -, con questo pensiero di un santo padre, e ciò per due ragioni. La prima ragione è che lo scopo del podvig ascetico è il distacco dalle passioni. E’ noto che raggiungere questo distacco è considerato la virtù più alta in molte culture, anche in quelle che non hanno relazione con la fede in Gesù Cristo.

Soltanto nel cristianesimo, però, le fonti del distacco dalle passioni si accentrano nella Divino-Umanità del Figlio di Dio – Figlio dell’Uomo. Lo scopo del podvig ascetico del cristiano non consiste nello sviluppo delle proprie capacità umane, ma ha tutt’altra finalità. Lo scopo infatti è la ricerca dei modi di contatto con Dio: con il proprio Creatore, il Salvatore, il Consolatore. Ecco perché la glorificazione del Signore per il Signore stesso, per la Sua potenza e gloria, è la risposta originale dell’individuo al richiamo evangelico: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24).

La seconda ragione della nostra attenzione al pensiero di san Nicola Cabasila è che la materia della nostra riflessione, la lotta spirituale, impegna i cristiani a una specialissima attenzione ai rapporti vicendevoli e verso se stessi. Questa attenzione spirituale, direi anche evangelica, trova la sua incarnazione ideale nella Divina liturgia. Infatti in questo servizio divino il Signore altissimo stesso ci riunisce in una unità inscindibile. Proprio in ragione di questo riunirci, per questa unione eucaristica dei suoi fedeli Egli “ha dato il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). L’unità di tutti e di ciascuno non solo riproduce la sinfonia delle membra di un solo corpo, ma diventa un fatto pienamente reale, poiché la Santa Chiesa è il Corpo di Cristo, il corpo del Figlio di Dio dato agli uomini, “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16).

Questo è il punto di vista ortodosso sulle finalità del podvig ascetico e sui mezzi dati da Dio per conseguirlo. Orientandoci su questo ideale evangelico, ci sforziamo di avvicinarci, con sobrietà spirituale e mitezza, a una comprensione ecumenicamente cristiana del concetto di lotta spirituale.

I fondamenti cristologici dell’ascetica

Una delle più antiche testimonianze della Divino-umanità di Cristo è la lettera di Paolo ai Filippesi: dal sesto all’undicesimo versetto del secondo capitolo. Gli studiosi del Nuovo Testamento concordano nel ritenere che questo inno al Salvatore fu incluso da Paolo nella sua lettera come una glorificazione del Signore Gesù già preesistente. Quindi prima di leggere questo brano vorrei sottolineare il contesto in cui Paolo lo inserì.

All’inizio del capitolo san Paolo scrive della unità che i cristiani raggiungono in Cristo, amandosi vicendevolmente e agendo con umiltà l’uno verso l’altro: “Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso” (Fil 2,3). Fondamento di questo, dice l’autore ispirato da Dio, è che in noi “devono esservi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5). Così il giudizio cristologico diventa esatta indicazione della sua finalità: noi stessi dobbiamo diventare simili a Cristo. Nelle parole dell’Apostolo sentiamo l’esortazione a seguire non solo l‘esempio morale di Cristo, ma a vivere di Cristo, come lo stesso Paolo vive di Lui: “Per me infatti il vivere è Cristo, e il morire un guadagno” (Fil 1,21). Qui è necessario sottolineare anche lo sviluppo di questo pensiero sul piano escatologico personale: “Da una parte ho il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio”. Ma più avanti ecco la sua ritrattazione: “…è più necessario per voi che io rimanga nella carne” (fil 1,23-24).

Ora andiamo a quello che san Paolo dice ai Filippesi su Cristo, di cui i cristiani, trasfigurati dal podvig ascetico, devono condividere i medesimi sentimenti. “Egli, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”. (Fil 2,6-11)

Questo brano è stato più volte oggetto di accurata analisi teologica. Qui il mio compito non è di discutere sui diversi aspetti interpretativi di questo inno. Vorrei invece attingere da questa antica composizione cristologica un argomento necessario per meglio capire la problematica della teologia del podvig ascetico.

Questo argomento si trova nella risposta alla domanda: perché Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome? Perché tutti i popoli cristiani professano che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre? In sostanza ci si chiede qui perché l’umanità di Cristo è stata resa degna della gloria Divina. In una tale formulazione si può sospettare il sapore di una separazione nestoriana tra l’“umanità di Cristo” e la “divinità di Cristo”.

Io vorrei però lasciare la questione proprio in questa forma, per poter definire con estrema chiarezza l’essenza della “natura umana” nell’unica “ipostasi divino-umana” di Cristo. Ma proprio questo è l’insegnamento divino sull’essenza dell’ascesi. Nella lettera ai Filippesi la gloria divina di Cristo è descritta come una conseguenza della Sua umiltà e ubbidienza fino alla morte, una morte straziante e ignominiosa. Su questo san Paolo mette un accento particolare. Tuttavia la gloria divina non è solo una conseguenza dell’umiltà. Non a caso all’inizio del brano si parla della uguaglianza di Gesù Cristo con Dio.

La morte in croce, impossibile per la natura divina, è possibile per la natura umana. Ed è per questo che “Dio ha mandato il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato nella carne”, come spiega questo mistero l’apostolo Paolo ai Romani (Rm 8,3) In tal modo la morte in croce del Figlio dell’Uomo diventa la morte personale del Logos immortale. Al mistero della morte dell’immortale, al mistero della lotta ascetica del Dio-Uomo distaccato dalle passioni noi ci possiamo in qualche modo avvicinare ascoltando le parole della preghiera del Getsemani: “Padre mio! Se è possibile, passi da me questo calice; però non come voglio io, ma come vuoi Tu!” (Mt 26,39)

Qui si sente il “voglio” della natura umana, qui respira il “se è possibile” della libertà umana, ma proprio qui risuona anche il “Tu” della umiltà divino-umana. In questa umiltà di Dio viene guarita la natura e viene rinnovata la libertà di tutto il genere umano che è malato per i peccati e soffre per le passioni. In questa umiltà ascetica del Figlio di Dio il libero arbitrio dell’uomo e la sua essenza naturale acquistano la prospettiva dell’eterna immortalità dinanzi al Volto del Creatore.

L’ubbidienza e l’umiltà di Cristo rappresentano nel Getsemani non solo una diminuzione del Figlio dell’Uomo dinanzi a Dio Padre. Questa estrema umiltà e piena ubbidienza sono modi di esistenza propri del Logos eterno. Anche qui, nel Getsemani, nella notte dell’arresto arriva quel preciso momento in cui la parola di Dio realizza quei modi di essere, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini. Così Dio ha esaltato Cristo e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome, poiché l’umanità di Gesù di Nazareth si è realizzata pienamente, si è spalancata davanti all’Occhio Onnivedente del Padre.

Il podvig ascetico come vita in Cristo

A questo punto è necessario comprendere che cosa significhi per i cristiani la deificazione della natura umana di Cristo.

Il primo passo che non astrattamente ma oggettivamente unisce noi a Cristo è quello che compiamo nel sacramento del battesimo. Nella lettera di Paolo ai Romani, che viene letta durante il rito battesimale, si dice: “Se infatti siamo stati completamente uniti a Lui con una morte simile alla Sua, lo saremo anche con la Sua risurrezione” (Rm 6,4). In queste parole, proprio come nella triplice immersione del battezzando nell’acqua, vediamo che la partecipazione attiva a Cristo avviene attraverso la nostra personale partecipazione alla Sua morte e risurrezione. Più avanti l’apostolo sviluppa questo pensiero: “Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù” (Rom 6,11) Partecipi del Corpo di Cristo nel sacramento del Battesimo e della Cresima, siamo chiamati ad assimilare e ravvivare i doni dello Spirito Santo che abbiamo ricevuto. In questo è racchiuso il podvig ascetico del pentimento, in greco metànoia, che significa “cambiamento di mente”. “Il nostro uomo vecchio” (Rm 6,6) nel pentimento trasforma il proprio pensiero, per acquisire il diritto di dire, con l’apostolo Paolo: “Ora noi abbiamo il pensiero di Cristo” (I Cor, 2,16).

Ne consegue che il senso della nostra azione ascetica non consiste nello sviluppare le capacità dell’“uomo vecchio”, ma nell’acquisire una nuova umanità in Cristo. Il cammino verso questa umanità si compie nella lotta alle passioni, che costituiscono proprio l’essenza menzognera dell’uomo vecchio. Il pentimento è considerato come una morte, in rapporto alla necessità di rinunciare al modo di vita dell’uomo vecchio, che in ultima analisi è chiuso in se stesso. Credo sia giusto definire questo modo di vita (dell’uomo vecchio) come individualista, tanto più se si tiene conto del significato della parola latina individuum, cioè indivisibile, a se stante. L’origine dell’individualismo sta nel desiderio dell’uomo di essere lui stesso un dio, non di essere insieme al Creatore; così egli è affetto dalla sete di sottomettere a se il mondo, ma senza trovarsi in un determinato grado di una gerarchia stabilita da Dio; è volto a mitigare la paura di perdere il potere personale di fronte alla necessità di condividerlo con le altre anime all’interno di quella gerarchia.

L’uomo vecchio” si protegge da questa paura con il proprio orgoglio. Questa tentazione funge da catalizzatore per la moltitudine di tutte le altre passioni e crea nella coscienza dell’individuo l’illusione di essere pari a Dio. In tale stato l’uomo non è capace di compiacersi della verità (1 Cor 13,6), cioè non è capace di amare un altro uomo. Infatti per lui un altro uomo è sempre una minaccia alla sua propria sovranità. In questo meccanismo di orgoglio la coordinata “l’altro” diventa oggetto di invidia, di irritazione e di odio, vizi che nella cecità spirituale spesso vengono considerati manifestazioni di un carattere forte. Istituendo la Chiesa, il Signore ha dato inizio a una diversa logica dei rapporti interpersonali. Ricordo le parole della preghiera liturgica al momento della frazione dell’Agnello, che esprimono chiaramente questa logica:

“Viene frazionato e diviso l’Agnello divino, frazionabile e indivisibile, sempre mangiato e mai consumato, ma santificante per coloro che ne partecipano”.

Qui vediamo la confutazione dell’individualismo, per il quale la divisione è simile alla morte. E insieme c’è qui un paradosso: l’Agnello Divino viene frazionato e al tempo stesso rimane indivisibile. Viene mangiato, ma esso non si consuma. In questo sta il paradosso della vittima, la paradossalità del sacrificio come forma di pensiero e modo di vita. Così il dare diventa sorgente del ricevere, e la morte l’inizio della nascita. Seguendo questa logica, noi ci asteniamo dall’assecondare il nostro “io”, comunque si esprima questo assecondare: sotto forma di emozioni psichiche o nella aspirazione alle comodità materiali. Il senso di questo astenersi è il Signore stesso: noi rinunciamo a qualcosa al fine di fare spazio in noi alla Grazia divina. Questo astenersi, insieme al tendere della volontà verso Cristo, si chiama “digiuno”, che secondo il beato Giovanni Climaco è “causa del distacco dalle passioni, risoluzione dei peccati, porta del paradiso e godimento celeste”.

Tuttavia il digiuno produrrà frutti solo quando sarà unito al discernimento. Il discernimento, come una lancia affilata, deve troncare le passioni e aprire all’anima pentita il suo stato autentico. Possiamo dire che con il digiuno è la nostra carne che viene offerta come culto razionale a Dio (cf. Rm 12,1). La parola russa plot’ (carne) ha la stessa radice dell’aggettivo plotnyj (denso, compatto) che in questo contesto si può intendere come impenetrabile alla luce. In tal modo lo smembramento dell’uomo carnale con la lancia del digiuno “razionale” (con “discernimento”) fa sì che la carne diventi penetrabile per la luce della Grazia divina. Comprensibilissime diventano allora le parole del monaco sinaita Giovanni Climaco riguardo al digiuno, che è “lampada nella tenebra, ritorno dell’errante sulla giusta via, illuminazione di chi non vede”.

Separando il buono e il cattivo nella propria anima, possiamo di nuovo raccoglierla in unità. E questa novità riguarderà anche le passioni in quanto forze della nostra anima. Infatti le passioni sono un male e portano sofferenza quando sono generate dalla natura umana peccatrice. Ma esse possono e devono avere un orientamento buono nelle loro azioni. Non a caso nella letteratura ascetica vi è l’espressione “passione scevra di passioni”. Con tale formula si indica un tendere dell’uomo a Dio che non sia oscurato dall’orgoglio. Come il dono della vittima è accompagnato dallo spargimento di sangue, il sacrificio spirituale è accompagnato dallo spargimento di lacrime su se stessi e sul mondo. I destini del mondo e dell’uomo sono legati da tali inconfessabili legami, da tali sottili fili e pesanti catene che nessuno oltre a Dio può attingere la loro essenza onnicomprensiva. Così, condividendo se stesso nel sacrificio ascetico a Dio, l’individuo incontra il Dio Risorto, che nell’abbraccio ha allargato davanti a lui le sue Mani trafitte e che gli si rivolge con le parole: “Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25,21). “La gioia del padrone” è la gioia della risurrezione e della immortalità, è l’eternità condivisa dal Creatore con tutti; l’eternità in cui, secondo le parole di Paolo, “Cristo è tutto in tutti”(Col 3,11). In tal modo l’ascesi non è una fuga dell’uomo dal mondo. Nell’ascesi l’uomo si fa partecipe a Cristo, la cui natura umana è identica alla natura di ciascuno di noi. Questo significa che la partecipazione a Cristo di un uomo ha nella sua prospettiva l’unità nel Corpo di Cristo di tutta l’umanità trasfigurata.

Le parole di San Serafino di Sarov: “Acquisisci uno spirito di pace, e migliaia si salveranno intorno a te” acquistano allora un senso non solo morale, ma profondamente ontologico. L’esortazione di Nicola Cabasila a glorificare Dio per amore di Dio stesso ci riporta nuovamente al fatto che il podvig ascetico non è un fine in se stesso dell’esistenza umana, ma un cammino che conduce dall’umanità alla divino-umanità. Così la triade evangelica “via, verità e vita” si rivela nello stesso Signore nostro Gesù Cristo, a Lui gloria nei secoli. Amen.