Foto e sintesi del 4 giugno

XIII Convegno Liturgico Internazionale Bose, 4 5 6 giugno 2015
ARCHITETTURE DELLA LUCE
Arte, spazi, liturgia

Organizzato dal Monastero di Bose 
in collaborazione con l'Ufficio Nazionale per i Beni Culturali
Ecclesiastici della Conferenza Episcopale Italiana
Consiglio Nazionale Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori

FOTO E SINTESI DEL 4 GIUGNO

SESSIONE MATTUTINA

La seduta di apertura del XIII Convegno liturgico, dedicato al tema Architetture della luce: arte, spazi, liturgia, è iniziata con la prolusione di fr. Goffredo Boselli, che ha sottolineato l’importanza del tema scelto quale punto d’incontro tra liturgisti e architetti: “In una chiesa non si deve semplicemente vedere la luce, si deve anche ricevere la luce per poter celebrare la luce, che rimane la principale metafora di Dio. Tra le diverse specificità della luce all’interno di una chiesa vi è anche questa: far vedere la luce senza tuttavia esibirla, senza ostentarla. Non c’è edificio umano come una chiesa dove la luce non deve essere consumata, sprecata e dunque persa, appunto per il ruolo eminentemente simbolico che la luce ha. Nello spazio liturgico la luce non deve essere dissipata perché chi abita una chiesa deve essere mosso a una ricerca della luce, al desiderio della luce che nella liturgia si fa invocazione.” Proprio per questo, con un’innovazione rispetto ai precedenti convegni, la sessione mattutina si è svolta nella chiesa monastica di Bose ed ha visto un intervento a due voci, del priore fr. Enzo Bianchi e di Philippe Markiewicz, monaco di Ganagobie, architetto e fondatore della rivista Arts Sacrés, sul ruolo svolto dalla luce in questo edificio, ideato e realizzato a partire dalle esigenze e dall’esperienza stessa della comunità monastica. Fr. Goffredo ha infine presentato gli atti del XII Convegno, Liturgia e cosmo. Fondamenti cosmologici dell’architettura liturgica, e ha ricordato i numerosi messaggi giunti da diverse autorità ecclesiastiche.

La prolusione di fr. Goffredo è stata seguita dalla lettura degli indirizzi d’auguri inviati dal card. Pietro Parolin, Segretario di Stato di Sua Santità (letto da mons. Marco Arnolfo, arcivescovo di Vercelli), dal Patriarca di Costantinopoli Bartholomeos I (letto da † Job di Telmessos, vescovo delle parrocchie russe dell’Europa occidentale dipendenti dal Patriarcato ecumenico), da mons. Nunzio Galantino, Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana (letto da mons. Angelo Lameri) e dal card. Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti (letto da Keith Pecklers, professore di liturgia presso la Pontificia Università Gregoriana). Vi è stato quindi il saluto di mons. Stefano Russo, attuale direttore dell’Ufficio Nazione per i Beni Culturali Ecclesiastici della CEI che ha inoltre presentato il direttore nominato allo stesso Ufficio, don Valerio Pennasso che ha a sua volta rivolto un saluto al convegno.

La sessione mattutina è proseguita con gli interventi del priore fr. Enzo, che dopo aver evidenziato a partire dalla propria esperienza l’importanza della luce quale elemento fondamentale dell’architettura liturgica, e ha tracciato un profilo biblico della luce, prima parola di Dio secondo la Genesi e simbolo del Cristo negli scritti giovannei, luce che le tenebre non possono soffocare, per quanto sia tenue e quasi fioca:

“l’architettura, soprattutto l’architettura di una chiesa, deve essere capace di questa diaconia: riuscire nell’operazione, o meglio nella predisposizione architetturale affinché sia possibile che la luce, nella quale “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28), ci riveli chi è la luce del mondo, colui che ha detto: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12). E se “nel Lógos era la vita, la vita luce degli uomini” (cf. Gv 1,4), se “il Lógos è la luce vera, che illumina ogni uomo che viene nel mondo” (cf. Gv 1,9), allora in un’architettura di assemblea cristiana la luce deve sempre tendere a essere simbolica, sacramentale. Questo non significa che la luce debba abbagliare, ma che il suo potere rivelativo deve modularsi in luce, penombra e oscurità, dicendo e non dicendo, mai abbagliando e mai lasciando regnare le tenebre. È significativo lo spazio di qualsiasi chiesa cristiana, nella quale la luce del giorno entra in molteplici modi: in squarci di ogiva, oppure attraverso filtri che la rendono dolce, attraverso vetrate che ne dettano un racconto… E quando scende la sera e lo spazio della chiesa potrebbe essere invaso dalle tenebre, ecco la lampada palpitante, che impedisce alle tenebre di regnare.”

Fr. Enzo ha quindi parlato dell’intreccio di luce naturale e artificiale nell’attuale chiesa monastica di Bose, mostrando come per essa la comunità abbia scelto con decisione una soluzione modesta ma non minimale, in cui la luce naturale, opportunamente filtrata dal gioco delle vetrate e degli spazi pieni, segue e guida la preghiera della comunità, sottolineando il ruolo preponderante dell’allineamento tra portale d’ingresso, ambone e altare, quale proiezione e invito verso l’eschaton. In questo spazio, la luce artificiale si presenta non come contrasto alla luce naturale ma come elemento in grado di operare in sinergia con essa, mettendo al tempo stesso in guardia contro la tentazione di esasperare la lettura simbolica di ogni elemento architettonico. Fr. Enzo ha inoltre richiamato i modelli che hanno ispirato l’architettura della chiesa monastica di Bose, e in particolare l’architettura cistercense – per la trifora che sormonta l’abside quale varco principale per la luce del giorno – e quella certosina, per l’orientamento della chiesa in direzione della stella polare anziché verso oriente:

“Quella di Bose è una chiesa monastica nella quale l’assemblea si sente popolo di Dio pellegrino, esule nel deserto, dunque una chiesa che deve significare l’icona di una carovana in cammino verso il Regno. L’abside è lo spazio di gloria che raccoglie gli sguardi e le preghiere di tutti. Nell’abside la luce penetra dalla trifora, luce unica e capace di alludere alla Triunità di Dio. Sull’assemblea la luce giunge tenue, accogliente, non diretta, e permette l’habitare secum, il raccoglimento, il silenzio adorante, l’assemblea ordinata e composta”.

Philippe Markiewicz ha ripreso queste indicazioni segnalando come, grazie al suo orientamento e alle aperture presenti, nel corso della giornata la luce solare compia un giro da un capo all’altro del coro della chiesa monastica di Bose, per illuminare, alla metà del giorno, l’ambone, luogo della Parola; ha quindi evidenziato il ruolo della luce nell’architettura sacra delle tradizioni orientale e occidentale, riferendosi tanto alla prospettiva storica, ai tempi in cui l’unica fonte disponibile oltre al sole era costituita dalle lampade ad olio e dalle candele, tanto all’epoca contemporanea in cui non sono pochi i casi in cui la disponibilità dell’illuminazione elettronica conduce a scelte dall’esito poco felice. La ricchezza dei contributi ha stimolato un dibattito vivace e interessante, in cui si è sottolineato come, tra le varie modalità di luce, non bisogni dimenticare accanto a quella naturale e a quella artificiale quella costituita dalle icone e, più in generale, dall’uso artistico dell’oro molto comune nell’età barocca.

La sessione mattutina si è conclusa con la relazione di Albert Gerhards, , che a partire da testi della tradizione patristica (l’innografia ambrosiana e il canto bizantino del lucernario, Phos ilaron) ha analizzato il ruolo e il significato della luce per la teologia e l’antropologia cristiana, ponendo a confronto questi dati con l’architettura liturgica contemporanea, a partire dall’apporto – empirico e teorico – di Rudolf Schwarz e altri grandi architetti: chi progetta e costruisce chiese non deve vederle solo come luoghi destinati ad una funzione, ma come spazi capaci di rendere e creare un’atmosfera, e non a caso “molti architetti non associano più alla costruzione di chiese la ricerca della funzionalità, ma dell’atmosfera”, come dimostra ad esempio la Bruder-Klaus-Kapelle di Peter Zumthor.

SESSIONE POMERIDIANA

La sessione pomeridiana si è svolta, come d’abitudine, nella sala conferenze del monastero. Nel primo intervento della sessione, Jean-Pierre Sonnet, docente di Antico Testamento alla Pontificia Università Gregoriana, ha fornito un’esposizione ampia e avvincente della visione biblica della luce, cominciando dal racconto della creazione in Genesi 1:

“La luce del primo giorno precede la creazione degli astri, e in particolare del sole, che avviene solo al quarto giorno (Gen 1,14-19). La luce del primo giorno non è pertanto mediata da altre creature, siano esse il sole o la luna: ha la sua origine in Dio, ed è la premessa alla manifestazione di tutte le creature”.

Ma Dio è anche colui che fa brillare la sua luce nei momenti oscuri della storia, come nell’esodo di Israele dall’Egitto: al passaggio del Mar Rosso, si ritrovano gli elementi primordiali della creazione, e tra essi la luce (Es 13,21-22). Ma la luce è centrale anche nella vicenda di Gesù secondo i racconti evangelici, e in particolare alla Trasfigurazione e alla Resurrezione; e nell’Antico come nel Nuovo Testamento, la luce è anche promessa escatologica, segno del tempo in cui non splenderanno più il sole né la luna, perché lampada della città sarà l’Agnello (cf. Ap 22,4-5). Senza dimenticare che anche nell’oscurità in cui la fede sembra in declino e l’iniquità dilagante, una lampada continua a risplendere (cf. 1Sam 3,3).

Angelo Lameri, professore di liturgia e sacramentaria generale presso la Pontificia Università Lateranense, ha affrontato il tema della luce in riferimento alla liturgia, e in particolare al ruolo del cero pasquale e del preconio nella liturgia della veglia pasquale: la luce vi compare insieme ad altri elementi primari come l’acqua, che se rimandano al racconto della creazione rappresentano anche elementi necessari per la vita e lo sviluppo dell’umanità, ma che la liturgia cristiana ha saputo interpretare anche alla luce della nuova creazione avvenuta nella Passione e Resurrezione di Gesù Cristo.

Infine Andrea Dall’Asta, direttore della Galleria San Fedele presso l’omonimo centro dei gesuiti a Milano, ha esposto una relazione sulla luce nell’arte cristiana, e in particolare nell’architettura, corredata da un ampio repertorio fotografico che ha permesso al pubblico di seguire un percorso che ha spaziato dai forti chiaroscuri romanici, in cui la poca luce filtrata dalle piccole monofore, bifore o trifore risaltava in un ambiente immerso nell’oscurità, alle grandi vetrate gotiche, dalla luce dorata delle icone e dei mosaici bizantini, rimando alla realtà trasfigurata, alla luce naturale del Rinascimento, concepita in termini prettamente matematici e fisici e volta ad esaltare l’unitarietà delle costruzioni più che singole parti al loro interno, per giungere attraverso gli effetti drammatici e scenografici dell’età barocca e alle scoperte degli impressionisti all’architettura ecclesiastica contemporanea, rappresentata da esempi come Notre Dame du Haut a Ronchamp, di Le Corbusier, e la suggestiva chiesa della luce a Ibaraki di Tadao Ando. A questi contributi è seguito un dibattito con ampi interventi sulle nuove possibilità di sfruttare e usare la luce in contesti liturgici, e sul rapporto non sempre facile tra architetti e committenti.