L’umanità che viene dal lavoro

Fratelli, sorelle

già la scorsa abbiamo meditato sull’espressione contenuta nella conclusione della nostra Regola che chiede di vivere l’oggi di Dio (RBo 48), leggendola alla luce del tempo, dell’oggi particolarissimo che stiamo vivendo per l’isolamento dovuto all’epidemia. La particolarità di questo oggi ci interroga e ci consente di riflettere su un’altra dimensione costitutiva della nostra vita monastica, il lavoro.

Come viviamo il lavoro in questo tempo? Per alcuni non è cambiato niente. Altri si trovano molto alleggeriti quanto al loro lavoro e ai loro servizi. Il tempo sospeso che viviamo è una novità e rischia di farci scivolare nel lasciarci vivere, nel lasciarci andare all’inerzia, alla pigrizia, al perdere tempo. Ma non si può lavorare solo obbedendo alle pressioni esterne. Lavorare è essenziale per la formazione di un’umanità degna di questo nome. La nostra Regola lo ricorda nel paragrafo 24: si lavora perché si è umani, perché siamo uomini e donne e non ci è lecito farci mantenere. “Se uno non vuole lavorare neppure mangi” (2Ts 3,10), dice Paolo e ripete la nostra Regola (RBo 24). Chi non lavora sfigura la sua umanità, la deforma: guai se in monastero ci fosse qualcuno che non ha un lavoro. Senza lavoro il monaco diviene informe. Benedetto l’ha detto con forza: “Proprio allora sono veri monaci quando vivono del lavoro delle proprie mani” (RB 48,8). Senza la laboriosità del lavoro quotidiano che impegna e stanca corpo e mente non solo è minato l’equilibrio psicologico, non solo si diviene umanamente fiacchi, ma si smarrisce la stessa identità monastica.

Aver del tempo a disposizione può inoltre condurre allo stordimento di chi si perde nelle tante forme di informazione e di comunicazione che abbiamo a portata di mano tra Internet e social, tra cellulari, e-mail e whatsapp, informazione e comunicazione che spesso funzionano come un anestetico, proteggendoci dall’andare a fondo di noi stessi, proiettandoci nel facile e nel disimpegnato e facendoci fuggire da un presente pesante.

D’altro canto, proprio il maggior tempo a disposizione ha già portato diversi a rendersi disponibili per altri lavori, magari mai fatti prima. E di questa disponibilità c’è rallegrarsi e da ringraziare come di una benedizione. Occorre mobilità interna, una trasmigrazione dal proprio lavoro venuto meno o diminuito ad altre occupazioni in cui si aiuta un fratello o una sorella, o si impara un altro mestiere. Lavori che eventualmente potranno essere fatti in futuro o in una fraternità.

Perciò, fratelli e sorelle, siamo sobri e vigilanti, perché il nostro Avversario, il divisore, come leone ruggente si aggira cercando una preda da divorare. Resistiamogli saldi nella fede e impegnati a lavorare seriamente ogni giorno. E tu, Signore, abbi pietà di noi.

fratel Luciano