Kallistos Ware - La dinamica del perdono nei padri orientali

XXIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
MISERICORDIA E PERDONO
Bose, 9-12 settembre 2015
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

di Kallistos di Diokleia

E perdona a noi i nostri debiti come anche noi li perdoniamo ai nostri debitori” (Mt 6,12). La preghiera che Gesù ci ha consegnato, benché universale, è anche estremamente concisa. Il fatto che in questa breve preghiera, per quanto di ampio respiro, circa un quarto delle parole – non meno di tredici nel testo greco, su cinquantasette o cinquantotto – siano dedicate al tema del perdono indica come nell’ottica di Dio sia essenziale che noi perdoniamo e siamo perdonatii. Afferma il metropolita ortodosso russo Anthony Bloom di Sourozh: “Perdonare ai propri nemici è la prima, la più elementare caratteristica del cristiano; se non l’abbiamo non siamo affatto cristiani”ii.

In verità Gregorio di Nissa va ancora più lontano, afferma che la clausola “Perdonaci … come noi perdoniamo” è il punto culminante nella Preghiera del Signore vista nel suo insieme, poiché costituisce “la massima vetta della virtù”iii. Aggiunge comunque che – per quanto la clausola sia estremamente importante – pur tuttavia il suo vero senso non è affatto semplice da cogliere: “Il significato sorpassa qualunque interpretazione delle parole”iv. Questa richiesta non solo è difficile da capire, ma è anche una preghiera rischiosa. Osiamo applicare a noi stessi con estremo rigore il principio posto da Cristo stesso: “Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi” (Mt 7,2). Stiamo apparentemente chiedendo che il perdono di Dio sia limitato e ristretto dal desiderio di perdono che noi stessi mostriamo verso gli altri. “Avrai in contraccambio quello che tu stesso hai fatto”v, ammonisce Cipriano di Cartagine. Come afferma Giovanni Crisostomo – e sicuramente le sue parole ci fanno rabbrividire – “Da noi dipende il giudizio su di noi”vi.

Perdona a noi … come noi perdoniamo”: Gregorio di Nissa sottolinea che questa è una cosa ben strana da dire e osserva che è come se stessimo impartendo un ordine a Dio e gli stessimo insegnando in che modo deve comportarsi.

Se io non perdono gli altri”, gli diciamo, “ allora, o Dio, tieni lontano da me il perdono”. Da nessun altra parte se non nella Preghiera del Signore impartiamo ordini in questo modo. Il paradosso, sostiene Gregorio, può essere espresso attraverso ciò che si può definire “inversione mimetica” (l’espressione è mia, non sua). In altre occasioni siamo noi a essere chiamati a imitare Dio. Nella Legge si esorta: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo” (Lv 19,2); nel discorso sul monte Cristo dice: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). In ultima istanza, è solo Dio che ha il potere di perdonare i peccati (vedi Mc 2,7). Se noi siamo capaci di perdono, questo può avvenire soltanto attraverso l’imitazione di Dio e in virtù della grazia che egli stesso ci dona. Non possiamo perdonare sinceramente, questo va detto, a meno che veniamo attirati in Dio e “in certo senso, siamo diventati Dio”, per impiegare un’espressione di Gregorio. Chi perdona deve essere “deificato” o “divinizzato”; il perdono da parte nostra non è possibile senza théosisvii.

Questa è la via normale. Ma qui, nel caso della Preghiera del Signore – e Gregorio ammette che è “cosa ardua a dirsi”viii – l’ordine abituale è invertito. In questo caso siamo noi che serviamo come modello per Dio. Invece di essere noi a imitare lui, gli stiamo chiedendo di imitare noi. Come dice Gregorio, stiamo dicendo a Dio: “Comportati così come io mi sono comportato; imita il tuo servo, Signore … Io ho perdonato; tu perdona. Io ho mostrato una grande misericordia nei confronti del mio prossimo, imita la mia amorevolezza Tu che per natura sei amorevole”ix.

E allora quando diciamo: “Perdona a noi … come noi perdoniamo”, in che modo esattamente dobbiamo intendere la particella “come”? Forse in senso causativo? In questo caso il nostro perdono deve essere visto come la causa del suo; stiamo dicendo a Dio: “Perdona a noi perché noi perdoniamo”. È in questo modo, in verità, che alcuni padri della chiesa interpretano la frase. Clemente di Alessandria giunge a dire che, perdonando gli altri, in qualche modo costringiamo Dio a perdonarcix. Ora un’interpretazione causativa di questo genere è sicuramente inaccettabile. Come ha giustamente affermato Calvino, il perdono viene dalla “libera misericordia” di Dio; è un dono immeritato della grazia divina, donato unicamente attraverso la croce e la resurrezione di Cristo e non è mai qualcosa che possiamo guadagnare o meritare. Dio agisce in sovrana libertà e noi non abbiamo niente da esigere da lui.

Come afferma Paolo citando il Pentateuco: “Dio dice a Mosè: ‘Avrò misericordia per chi vorrò averla, e farò grazia a chi vorrò fare grazia’ (Es 33,19)xi. Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia” (Rm 9,15-16). Questo risulta chiaramente nella parabola degli operai mandati nella vigna; a quelli che si lamentano del loro salario, il padrone risponde: “Non posso fare delle mie cose quello che voglio?” (Mt 20,15). L’iniziativa nel processo del perdono dipende da Dio e non da noi. Dio non aspetta che noi perdoniamo gli altri prima di dilatare la sua misericordia su di noi. Al contrario, il suo perdono libero e senza condizioni precede ogni movimento verso il perdono da parte nostra. “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8).

In ogni caso, tra il nostro perdono e quello di Dio non c’è una misura comune. Dio perdona in pienezza, con generosità, in un modo che va ben oltre le nostre umane capacità. Il carattere insuperabile e incomparabile del perdono divino è sottolineato in un’altra parabola di Matteo, quella dei due debitori (cf. Mt 18,23-35). Dinanzi a Dio siamo come lo schiavo che è debitore di diecimila talenti – un talento equivale a più di quindici volte il salario annuale di un operaio – mentre in rapporto agli altri siamo come lo schiavo debitore di cento denari – un denaro corrisponde alla paga giornaliera di un operaio. Gregorio di Nissa, dopo aver detto che in questo atto del perdono Dio sta imitando noi, continua poi precisando la sua affermazione dicendo che i nostri peccati davanti a Dio sono incommensurabilmente più gravi che qualsiasi peccato dell’altro contro di noi. Più tardi cita a conferma proprio la parabola dei due debitorixii.

Se dunque il nostro perdono non è la causa del perdono di Dio, se non c’è una misura comune tra il nostro perdono e il suo, in che modo dobbiamo intendere quella particella come nella richiesta “Perdona a noi … come noi perdoniamo”? Poiché se la nostra volontà di perdonare non è la causa che muove Dio a perdonarci, essa è tuttavia la condizione che rende per noi possibile ricevere il suo perdono. Il perdono è immeritato ma non è incondizionato. Dio, da parte sua, desidera sempre perdonarci. Esprimiamo questa idea con le parole di Isacco il Siro: “In lui vi è un unico amore e un’unica misericordia, che si estendono sull’insieme della creazione, senza mutamento, fuori dal tempo, in eterno”xiii.

Ricordando l’agonia di Cristo nel giardino del Getsemani e la sua morte sacrificale sulla croce, ci possiamo chiedere: Che cosa avrebbe potuto fare il Dio incarnato che non abbia fatto per guadagnarci di nuovo a sé?

Il perdono comunque non deve soltanto essere offerto, ma anche accolto. Dio bussa alla porta del cuore umano (cf. Ap 3,20), ma non abbatte la porta; siamo noi che dobbiamo aprirla. Se, nonostante il vivo e inesauribile desiderio di Dio di perdonare, noi induriamo il nostro cuore e rifiutiamo il perdono agli altri, allora molto semplicemente ci priviamo della capacità di accogliere il perdono di Dio. Chiudendo il nostro cuore agli altri, li chiudiamo anche a Dio, rigettando gli altri, rigettiamo lui, noi stessi ci escludiamo dal suo amore risanante. Dio non ci esclude, siamo noi che ci escludiamo da soli.

Perdona a noi … come noi perdoniamo” ogni volta che diciamo queste parole, come ci ha giustamente avvertito il metropolita Anthony Bloom, “prendiamo nelle nostre mani la nostra salvezza”xiv.

Sottolineando questa ricorrente insistenza dei padri sulla necessità del perdono vicendevole, ritroviamo anche la profonda convinzione, costantemente enfatizzata dai padri, che il genere umano costituisce essenzialmente un’unità. Lo possiamo dire con le parole di Silvano del Monte Athos: “Il nostro fratello è la nostra vita” xv, oppure con quelle di Giuliana di Norwich: “Agli occhi di Dio tutti gli uomini sono come un solo uomo e un solo uomo è come tutti gli uomini”xvi. Questo è vero non soltanto a livello sentimentale o emotivo, ma in termini ontologici. Il nostro bisogno di perdono vicendevole deriva direttamente dal fatto che siamo tutti interdipendenti, membri di un’unica famiglia umana.

Questa sottolineatura della nostra coinerenza interpersonale deve essere visita non solo nella clausola “Perdona a noi … come noi perdoniamo”, ma anche nella Preghiera del Signore nella sua interezza. Cipriano osserva che in tutta la preghiera si parla per lo più al plurale non al singolare; non si dice “mio”, ma “nostro”; non si dice “me”, ma “noi”.

Non diciamo: “Padre mio che sei nei cieli”; neppure: “dammi oggi il mio pane”. Ciascuno di noi non domanda che vengano rimessi solo a lui i peccati, né chiede solo per sé di non essere indotto in tentazione e liberato dal male. La nostra preghiera, invece, è pubblica e interessa tutti. Quando preghiamo, non preghiamo per una sola persona, ma per tutto il popolo, perché tutto il popolo è unoxvii.

La percezione dell’unità della nostra umana natura, nell’ottica di Ciprianoxviii, ha il suo saldo fondamento nella dottrina cristiana di Dio. Noi crediamo in Dio Trinità che non soltanto è uno-in-tre, non soltanto è un’unità, ma è un’unione, non solo personale, ma interpersonale. Crediamo in Dio come comunione di Padre, Figlio e Spirito. Questo significa che in quanto esseri umani creati a immagine del Dio triuno, siamo salvati non come singoli individui, ma come membri di quella famiglia che è la chiesa, e così non possiamo essere perdonati da Dio se non ci perdoniamo a vicenda.

Quando, perciò, diciamo nella Preghiera del Signore. “Perdona a noi … come noi perdoniamo”, stiamo proprio affermando la nostra unità in quanto membri della razza umana; possiamo dire, con Clemente di Alessandria che “tutti gli uomini sono creazione di una volontà sola”xix. Massimo il Confessore sviluppa questa affermazione nel suo commento alla Preghiera del Signore. L’unità e l’amore vicendevole, dice costituiscono “il principio (lógos) dell’[umana] natura”.Quando perciò preghiamo per ricevere il perdono, stiamo mettendo la nostra volontà umana in armonia con il lógos secondo il quale siamo stati creati. E inversamente, rifiutare il perdono è “tagliare la natura separando se stessi dagli altri esseri umani attraverso i quali noi stessi siamo umani”. Il nostro rifiuto di vivere in comunione gli uni con gli altri attraverso il perdono reciproco è perciò autodistruttivo: “Se la natura, con la volontà, si ribella contro se stessa, è impossibile che essa accolga la divina, ineffabile condiscendenza”xx.

Gregorio di Nissa perviene alla medesima conclusione: “Condannando il tuo prossimo, condanni te stesso”xxi.

Alcuni padri greci sviluppano questa visione dell’unità della natura umana in modi che possono sembrare a prima vista sorprendenti e inaspettati. Un autore ascetico vissuto probabilmente all’inizio del v secolo, Marco il Monaco o l’Eremita, per esempio, sostiene che dobbiamo pentirci non solo per i nostri peccati personali ma anche per i peccati degli altri:

Dal momento che il diavolo non desiste dal muoverci guerra, anche il pentimento non deve mai cessare. I santi sono dunque tenuti a offrirlo anche per il prossimo poiché non possono giungere alla perfezione senza un’attiva carità … Se dunque sarà fatta misericordia a chi fa misericordia, a mio avviso è a causa del pentimento che l’universo rimane unito poiché ciascuno di noi è aiutato dall’altroxxii.

Parte del pentimento, anche se questo non è tutto, consiste proprio nel cercare il perdono di Dio. Se siamo chiamati a pentirci per i peccati degli altri, allora possiamo e dobbiamo chiedere il perdono a nome loro. “Ciascuno di noi è aiutato dall’altro”; siamo perdonati non da soli, ma come “membra gli uni degli altri” (Ef 4,25). Il perdono è personale, ma non individuale.

Quando si dice che siamo perdonati non come singoli individui, ma “come membra gli uni degli altri”, non dobbiamo pensare che questo si riferisca semplicemente all’altro essere umano che vive accanto a noi in questo momento. La solidarietà nel perdono vicendevole si estende attraverso il tempo e lo spazio. La dinamica del perdono è diacronica. Gregorio di Nissa sostiene che quando diciamo “Perdonaci” nella Preghiera del Signore, chiediamo il perdono non solo per i nostri peccati personali, ma anche per “i debiti comuni alla nostra natura”, vale a dire per il peccato originale che l’intera razza umana eredita dal nostro progenitore Adamo. Anche se fossimo liberi da peccati personali, anche se in realtà, commenta Gregorio, nessuno di noi può dire questo neppure per una sola ora della sua vita, avremmo comunque bisogno di dire “Perdonaci” a nome di Adamo.

Adamo vive in noi … e così possiamo utilizzare queste parole: Perdona a noi i nostri debiti. Anche se fossimo Mosè o Samuele o qualcun altro di estremamente virtuoso, nemmeno in quel caso potremmo considerare queste parole come applicate a noi, poiché noi siamo umani; noi partecipiamo della natura di Adamo e perciò partecipiamo anche della sua caduta. Poiché dunque, come dice l’Apostolo, “tutti moriamo in Adamo” (1 Cor 15,22), queste parole, che ben esprimono il pentimento di Adamo, sono anche appropriate per tutti coloro che sono morti con lui.

Tali asserzioni da parte di Marco il Monaco e di Gregorio di Nissa hanno poco a che vedere con una teologia della colpa originale pienamente sviluppata come quella che troviamo in sant’Agostino. In effetti, Marco esclude espressamente la prospettiva secondo cui, in un senso giuridico, noi saremmo colpevoli del peccato di Adamo, considerato come il risultato di una scelta personale. Tuttavia, a un livello più profondo di quello di una colpevolezza legale, c’è una mistica solidarietà che ci unisce tutti gli uni agli altri; ed è di questo che Marco e Gregorio stanno parlando. “Tutti gli uomini sono un uomo”, e così ciascuno di noi è “responsabile per tutto e per tutti”, per usare le parole dello starec Zosima nel capolavoro di Dostoevskij.

Anche se non siamo personalmente colpevoli, portiamo comunque il peso della colpa di Adamo e degli altri membri della famiglia umana. Essi vivono in noi e noi in loro. Qui, come sempre la parola fondamentale è “noi”, e non “io”. Nessuno di noi pecca da solo, perché ci trasciniamo a vicenda nella caduta e nessuno di noi è perdonato e salvato da solo perché attraverso la misericordia di Dio ci innalziamo a vicenda nel paradiso. La dinamica del perdono non è solitaria ma “sociale”; non si dice: “Perdona come io perdono”, ma: “Perdonaci come noi perdoniamo”.

A conclusione riflettiamo sulle parole di Cristo sulla croce: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). È stato questo spirito di un perdono che tutto abbraccia a cambiare la crocifissione di Cristo da errore giudiziario, atto di violenza arbitraria in sacrificio espiatorio per i peccati del mondo intero. E noi, che ci chiamiamo cristiani e che portiamo al collo il segno della croce, siamo chiamati a fare nostro lo stesso spirito di perdono con un respiro universale. Poiché senza perdono non c’è vero cristianesimo.

i*Metropolita di Diokleia, del Patriarcato di Costantinopoli, ha insegnato presso l’università di Oxford. Traduzione dall’originale inglese di Lisa Cremaschi. Per una più ampia discussione sul tema del perdono, si veda il mio articolo: “‘Forgive us …as we forgive’: Forgiveness in the Psalms and the Lord’s Prayer”, in Meditations on the Heart: The Psalms in Early Christian Thought and Practice. Essays in Honour of Andrew Louth, a cura di A. Andreopoulos, A. Casiday, C. Harrison, Turnhout 2011, pp. 53-76.

 

ii A. Bloom, Per una preghiera viva, Brescia 20092, p. 43.

iii Gregorio di Nissa, Sul Padre nostro, omelia 5, in Gregorii Nysseni Opera VII/2, Leiden-New York-Köln 1992, p. 59

iv Ibid., p. 61.

v Cipriano di Cartagine, La preghiera del Signore 23, in Opere di San Cipriano, a cura di G. Toso, Torino 1980, p. 227.

viGiovanni Crisostomo, Omelie sul vangelo di Matteo I, a cura di S. Zincone, Roma 2003, p. 371.

vii Cf. Gregorio di Nissa, Sul Padre nostro, omelia 5, pp. 59-61.

viii Ibid., p. 61.

ixIbid., pp. 61-62.

x Cf. Clemente di Alessandria, Gli stromati VII,86,6, a cura di M. Rizzi e G. Pini, Milano 2006, p. 801.

xi Cf. Gregorio di Nissa, Sul Padre nostro, omelia 5, p. 62.

xii Ibid., pp. 69-70.

xiii Isacco il Siro, Discorsi, parte II, Omelia 40,1, in CSCO 555, Scriptores Syri 225, Louvain 1995, p. 174.

xiv A. Bloom, Per una preghiera viva, p. 42.

xv Silvano del Monte Athos, Nostalgia di Dio. Tutti gli scritti, a cura di A. Mainardi, Magnano 2011, p. 137.

xviGiuliana di Norwich, Libro delle rivelazioni, a cura di D. Pezzini, Milano 1984, p. 211. Il passo è citato in Charles Williams, The Forgiveness of Sins, London 1942, p. 16. Questo libretto, scritto nel corso della seconda guerra mondiale, resta uno dei più utili trattati su questo tema.

xvii Cipriano di Cartagine, La preghiera del Signore 8, pp. 213-214.

xviii Cf. ibid. 23, p. 227: “Dio non accetta il sacrificio di chi vive nella discordia ... Il più grande sacrificio per Dio è la nostra pace, la nostra concordia di fratelli e l’essere un popolo raccolto nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo”.

xix Clemente di Alessandria, Stromati VII,81,3, p. 796.

xx Massimo il Confessore, Sul Padre nostro, in Nicodimo Aghiorita e Macario di Corinto, La filocalia II, a cura di M. B. Artioli e M. F. Lovato, Torino 1983, p. 308.

xxi Gregorio di Nissa, Sul Padre nostro, omelia 5, p. 61.

xxii Marco il Monaco, La penitenza 12, in Traités I, a cura di G.-M. de Durand, Paris 1999, p. 250.