Orientarsi nel deserto

Oceano Atlantico,
marzo 1940

Una muscolatura segreta e viva

Ho vissuto tre anni nel Sahara. Chiunque abbia conosciuto la vita sahariana, dove tutto in apparenza non è che solitudine e privazione, piange quegli anni come i più belli che ha vissuto.

Certo, il Sahara non offre, a perdita di vista, se non sabbia uniforme o più esattamente, poiché le dune sono rare, una distesa di sabbia pietrosa. Vi si è sommersi in permanenza in uno stato assoluto di noia. Eppure invisibili divinità vi costruiscono una rete di direzioni, di pendii e di segni, una muscolatura segreta e viva. Non c’è più uniformità.

Tutto si orienta. Perfino ogni silenzio è diverso da un altro. C’è un silenzio del meriggio quando il sole ferma i pensieri e i movimenti. C’è un falso silenzio, quando il vento del Nord è caduto e l’apparizione di insetti annunzia la tempesta dell’Est apportatrice di sabbia. C’è un silenzio di mistero, quando si annodano tra gli arabi indecifrabili riunioni. C’è un silenzio acuto quando, la notte, si trattiene il respiro per sentire. Un silenzio malinconico, se ci si rammenta di chi amiamo.

Tutto si polarizza. Ogni stella fissa indica direzione. Infine dei poli quasi irreali, da molto lontano, rendono quel deserto calamitato: una casa paterna che rimane viva nel ricordo; un amico di cui non sappiamo nulla, se non questo, che c’è.

Così ci si sente tesi e vivificati dal campo delle forze che ci attraggono o ci respingono, ci sollecitano o ci resistono. Eccoti ben fondato, ben determinato, ben installato al centro di direzioni cardinali. E poiché il deserto non offre nessuna ricchezza tangibile, poiché non c’è nulla da vedere ne da sentire nel deserto, si è costretti a riconoscere (la vita interiore invece che addormentarsi, si fortifica) che l’uomo è animato soprattutto da sollecitazioni invisibili. L’uomo è governato dallo Spirito. Io valgo, nel deserto, quanto valgono le mie divinità.

La calamita

Così se mi sentivo ricco, a bordo del mio triste piroscafo, di direzioni ancora fertili, se abitavo un pianeta ancora vivo, era grazie ad alcuni amici, che dispersi dietro di me nella notte di Francia, cominciavano ad essermi essenziali.

La Francia, decisamente, non era per me né una dea astratta né un concetto storico, ma una carne da cui dipendevo, una rete di legami che mi reggeva, un insieme di poli che fondava i pendii del mio cuore. Provavo il bisogno di sentire più solidi e più durevoli di me stesso coloro dei quali avevo bisogno per orientarmi. Per conoscere o per ritornare. Per esistere.

Ed ecco, oggi che la Francia, in seguito all’occupazione, è entrata in blocco nel silenzio col suo carico, la sorte di ciascuno di quelli che amo mi tormenta più gravemente di una malattia. Mi scopro minacciato dalla loro fragilità nella mia essenza.

Colui che, in questa notte, ossessiona la mia memoria, ha cinquant’anni. È malato. Ed è ebreo. Come potrebbe sopravvivere al terrore tedesco? Ho bisogno di crederlo riparato. Allora soltanto credo che viva ancora. Solamente allora, errando lontano nell’impero della sua amicizia che non ha frontiere, mi è permesso sentirmi non emigrante ma viaggiatore. Perché il deserto non è là dove si crede. Il Sahara è più vivo di una capitale e la città più brulicante si svuota se i poli essenziali dell’esistenza sono insensibili alla calamita.

Di dove viene il peso che mi attrae verso la casa di quest’amico? Quali sono stati gli istanti capitali che di questa presenza hanno fatto uno dei poli di cui ho bisogno?
Come la vita costruisce queste linee di forza delle quali viviamo?

Tratto da: Antoine de Saint-Exupéry, Pilota di guerra. Lettera a un ostaggio. Taccuini,
Bompiani 1959.

Siamo nel 1940: Antoine de Saint-Exupéry è su una nave che lo sta conducendo verso gli Stati Uniti, ha 40 anni e morirà tra quattro anni. Deve lasciare la Francia, occupata dai tedeschi. Nell’atto di passare da un continente all’altro fa rivivere in sé l’esperienza del deserto, che aveva conosciuto sorvolando il Sahara come aviatore. Nel difficile passaggio che deve affrontare ora, lasciando una terra nota e propria verso un dove sconosciuto, sente emergere il bisogno di trovare in sé dei punti cardinali che lo orientino. Così l’oceano diventa il deserto, luogo dove l’uomo è messo alla prova, impara a discernere il campo di forze che lo plasmano e a riconoscere le stelle fisse.

Nel cercare se stesso, l’autore vede affiorare la memoria di un’amicizia, che si profila come uno dei poli orientanti. Si tratta di Léon Werth, amico ebreo rimasto in Francia, solo, cui de Saint-Exupéry rivolge questa Lettera a un ostaggio e cui dedicherà Il piccolo principe.

La presenza dell’amico e la responsabilità verso di lui illuminano, nella fatica dell’esilio, quella costellazione di relazioni vitali che polarizzano la solitudine dell’autore. Così egli inizia a scoprire quella “muscolatura segreta e viva” che dà carne all’ossatura eretta dell’uomo maturo, capace di essere consapevole di sé e presente alle relazioni che lo rendono responsabile.


Per approfondire:
Solitudine: deserto o giardino?
L'avventura dell'amicizia

Biografia
Sito su Antoine de Saint-Exupéry (in francese)