Voce che domanda dalla prigione

15 dicembre 2019

Mt 11,2-11

III domenica di Avvento

di Luciano Manicardi

In quei giorni 2Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò 3a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». 4Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: 5i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. 6E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».
7Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? 8Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! 9Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. 10Egli è colui del quale sta scritto:

Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero,
davanti a te egli preparerà la tua via
.

11In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui.


Se la seconda domenica di Avvento presentava Giovanni nel deserto, la terza lo presenta in prigione. Giovanni è stato arrestato (Mt 4,12) e gettato in quella fortezza erodiana di Macheronte, a oriente del mar Morto, dove troverà anche la morte (Mt 14,3-12). Il testo di domenica scorsa non metteva ancora in scena Gesù, il Messia, e le parole di Giovanni che lo annunciavano erano sicure, forti, autorevoli, gridate, mentre ora che Gesù è in scena, che predica e opera, e dopo che Giovanni stesso l’ha battezzato riconoscendo di aver lui bisogno di essere battezzato da Gesù (Mt 3,13-17), ora la parola di Giovanni, in prigione, si fa debole, incerta, insicura. La voce che gridava nel deserto diviene la voce che domanda dalla prigione. Vi è uno scarto tra il Giovanni che ha gridato con pienezza di convinzione e con una forza che incuteva timore la venuta del “più forte” di lui (Mt 3,11) ma che non era ancora presente, e il Giovanni che, stando in prigione, si trova a fare i conti con l’evidenza di una persona precisa e soprattutto, con l’evidenza di ciò che questi compie e dice, con l’evidenza delle sue opere: la realtà non collima con l’immagine annunciata da Giovanni. Sembra anzi contraddirla. Nella fede e nell’attesa vi è sempre una parte di proiezione, di immagini che noi ci costruiamo, ma che vengono smentite e invitate a correzione dalla presa d’atto della realtà. Anche la fede e l’attesa vanno purificate da immagini e desiderata che si proiettano sugli altri. E che rischiano di rendere gli altri dei replicanti di noi stessi. Quando dunque si potrebbe pensare che finalmente l’attesa di Giovanni è colmata, che colui che da lui è stato battezzato e ora predica e opera prodigi è veramente il Messia, sembra che la certezza di Giovanni scemi, si tinga di toni meno forti e sicuri di sé. Ecco allora la domanda in bocca al Battista: “Sei tu il Veniente o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,3).

Il rapporto tra Giovanni e Gesù si svolge in una dialettica di reciprocità in continua tensione. Giovanni ha immerso nel Giordano Gesù in obbedienza a Gesù stesso e al volere di Dio, ma ha riconosciuto che lui stesso avrebbe avuto bisogno di essere battezzato da Gesù (Mt 3,13-17). In prigione, Giovanni conosce il dubbio circa l’identità dell’uomo che lui aveva indicato con certezza come il Messia, eppure rivolge a Gesù stesso la domanda: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attendere un altro?” (Mt 11,3). Dunque si affida a Gesù anche nel dubbio su Gesù. Se vi è distanza, tra i due vi è anche grande somiglianza. Tanto che Erode, dopo che aveva fatto mettere a morte Giovanni, avendo sentito parlare di Gesù, disse: “Costui è Giovanni il Battista. È risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi” (Mt 14,2). Anche il nostro testo liturgico ci rinvia a questa reciprocità profonda e discreta: nei vv. 2-6 l’attenzione è sull’identità di Gesù a partire dalla domanda che Giovanni rivolge a Gesù affidandola ai suoi discepoli; nei vv. 7-11 su quella di Giovanni a partire dalle domande che Gesù pone alle folle.

Giovanni ha sentito parlare delle “opere del Messia”. Nei capitoli 8 e 9 Matteo ha raggruppato una quantità di guarigioni e gesti potenti attuati da Gesù sicché non stupisce, narrativamente, che la fama di questi gesti sia giunta fino a Giovanni che pure si trova in prigione. La risposta che Gesù affida ai discepoli di Giovanni elenca: ciechi che recuperano la vista (Is 35,5; 42,7; Mt 9,27-31), zoppi che camminano (Is 35,6; Mt 15,31), lebbrosi che sono purificati (Mt 8,1-4), sordi che riacquistano l’udito (Is 29,18; 35,5; Mt 15,30), muti che parlano (Mt 9,32-33; 15,31), morti che risuscitano (Is 26,19; Mt 9,23-26), poveri a cui è annunciato il vangelo (Is 29,19; 61,1; Mt 5,3). Le opere terapeutiche elencate da Gesù culminano nel miracolo della resurrezione, ma trovano paradossalmente il loro vertice nell’annuncio del vangelo ai poveri. Il percorso che Gesù stabilisce è dai gesti alla parola, come se i gesti non fossero che una propedeutica che conduce all’autorevolezza della parola stessa, o meglio, non fossero che esplicitazione dell’autorevolezza e potenza della parola, una visibilizzazione della parola. Come se i gesti di guarigione e di liberazione compiuti da Gesù non fossero che vangelo in atti, espressione del “vangelo che è potenza di Dio” (Rm 1,16). Il senso è chiaro: il fine è giungere a credere al vangelo, alla parola di Gesù stesso. Credendo alla parola del vangelo, cioè alla parola di Gesù, anche alla parola che Gesù ha appena comunicato a Giovanni, lo stesso Giovanni potrà aderire a Gesù così come si presenta e non trovare scandalo in lui. La beatitudine è appunto per chi non trova motivo di scandalo in Gesù. Gesù, inaugurando la sua predicazione sulla scia del Battista, non chiede di credere ai gesti che avrebbe fatto, ma di credere al vangelo (Mt 4,17; cf. Mt 3,2), e più volte nel vangelo chiede di seguire lui, di lasciare tutto per lui, di aderire alla sua persona. Il vertice della risposta di Gesù a Giovanni è la beatitudine di chi vive la fede come affidamento alla persona di Gesù, come atto di fiducia in lui, nella sua persona. In quell’uomo che egli è. Effettivamente, ci sarebbe motivo di scandalo.

Impressiona poi che tra le opere di liberazione messianica elencate nel testo di Is 61,1 da cui è tratta l’indicazione dell’evangelizzazione dei poveri, vi sia anche la liberazione dei prigionieri. Vi è una dimensione realmente drammatica in Giovanni: il Veniente le cui opere annunciano come liberatore è colui che non lo libera dalla prigione: Giovanni resta in carcere e vi troverà la morte. Anche in questo Giovanni sembra precorrere il Gesù che nel Getsemani si affida al Dio che non ne esaudisce la preghiera di essere liberato da quell’ora (Mc 14,35), che passi da lui quel calice (Mt 26,39). Sergej Bulgakov ha interpretato questo episodio della vita del Battista come se qui Giovanni vivesse il suo personale Getsemani. Per Giovanni, il Veniente ha cessato di essere una verità evidente e diviene un interrogativo. Il dubbio lo attraversa, ma il dubbio, che sempre accompagna una fede che non sia totalitaria e fanatica, può affinare la fede e ridurre la distanza tra l’immagine del Signore che il credente nutre e il Signore stesso nel suo rivelarsi. Anche la fede, la nostra personale fede, ha una storia. E anche la nostra fede non è solo luce, ma luce e buio, luce nel buio, e conosce zone grigie. Del resto, già al battesimo Giovanni era stato spiazzato da Gesù e aveva “lasciato fare” (cf. Mt 3,15) operando un decentramento da sé in favore di colui che veniva dietro di lui.

Al tempo stesso la domanda su Gesù che Giovanni affida ai discepoli può avere anche un’altra sfumatura di significato: indicare cioè un passaggio di consegne. I suoi discepoli sono inviati a Gesù come colui alla cui parola essi si dovranno attenere. Obbligato – se così si può dire – a manifestarsi con più evidenza da quella domanda, Gesù risponde con parole della Scrittura ma aggiungendovi l’annotazione sullo scandalo che è possibile trovare in Gesù. Gesù stesso riconosce che la fede in lui come Messia non è affatto evidente, nonostante le opere e i gesti di potenza.

Nella seconda parte del testo evangelico, dopo la domanda di Giovanni su Gesù ecco le affermazioni di Gesù su Giovanni. Il modo stesso in cui Gesù parla di Giovanni esprime autorevolezza e mostra una vis polemica. Per tre volte Gesù ripete la domanda martellando i suoi interlocutori: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto?” (vv. 7.8.9). E in questa domanda risuona un rimprovero. Come se dicesse: avete considerato Giovanni un personaggio da vedere, uno spettacolo da guardare (un po’ come Erode che con curiosità mondana desiderava vedere Gesù e sperava di vedere qualche miracolo compiuto da lui: cf. Lc 23,8), ma se Giovanni era un profeta, egli doveva essere ascoltato ben più che visto. Ascoltato e obbedito. Ma anche Giovanni, come normalmente i profeti, non è stato capito. E dopo aver detto ciò che Giovanni non è: non è un irresoluto, una banderuola che si piega nella direzione del soffiare del vento, non è un uomo che svende la coscienza, ma è una roccia che resta saldamente se stesso; dopo aver detto che non è un uomo che vive nel lusso e negli agi, anzi vive in modo sobrio e ascetico; Gesù afferma ciò che Giovanni è. Egli è un profeta anzi, più di un profeta: è stato non un annunciatore, ma il precursore del Messia. Giovanni ha visto, riconosciuto e indicato in Gesù il Messia. Anche se, aggiunge Gesù, il più piccolo nel Regno è più grande di lui. E il più piccolo, il discepolo, colui che è venuto dietro a Giovanni, altri non è che Gesù stesso. E Gesù, il più piccolo (per Luca, Gesù è anche più giovane di Giovanni), è più grande di Giovanni, di colui che l’ha preceduto e annunciato. Anche in questo riconoscimento reciproco nella verità vediamo la libertà dell’uno e dell’altro: Giovanni aveva già riconosciuto che colui che lo seguiva era più forte di lui, e questo non era per lui motivo di gelosia o di frustrazione; ora Gesù riconosce il ruolo di preparazione attuato da Giovanni, ma senza alcun senso di superiorità. La libertà che nasce dall’obbedienza diventa riconoscimento e rispetto reciproco.