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Una felicità piuttosto paradossale...

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Nella lingua ebraica non c’è un termine che corrisponda veramente al nostro concetto di “felicità”, benché molti lo sfiorino da vicino. Neanche il conosciutissimo sostantivo shalom è interamente corrispondente. In ultima analisi, il termine ashrè, spesso tradotto con “felice” o “beato”, è probabilmente quello che più si avvicina a ciò che normalmente intendiamo per “felicità”: in effetti sembra evocare una fortuna durevole, un successo, un’evoluzione in atto. Ma, oltre al fatto che la felicità che designa spesso ha qualcosa a che fare anche con Dio o con la Sapienza, che consiste nel conformarsi all’ordine del Creatore, resta difficile discernere cosa esattamente significhi questo termine. Inoltre la parola ashrè e il verbo che da essa deriva ricorrono quasi soltanto per proclamare “felice” qualcuno che non necessariamente ha la sensazione di esserlo.

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Misericordia: il nome di Dio

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La Bibbia ci dice: “Dio è amore” (1Gv 4,8), cioè comunicazione di se stesso. Prima di tutto, Dio è comunicazione di se stesso nella Trinità. Dio non è un Dio solitario, il Dio trinitario è comunione. L’aspetto esteriore di quest’amore e di questa comunicazione in se stessa è la misericordia. Essa è la fedeltà di Dio a se stesso, che è amore. Poiché Dio è fedele a se stesso, egli vuole comunicare il suo essere prima nella creazione, poi nella storia della salvezza; egli non può fare altrimenti che perdonare e dare una nuova chance a ogni peccatore che si pente e si converte … Nella sua misericordia Dio apre il suo cuore e ci lascia guardare nel suo cuore. Così papa Francesco, quando gli ho dato il libro sulla misericordia solo qualche giorno dopo che era stato pubblicato in traduzione spagnola, mi ha detto: “Misericordia, questo è il nome del nostro Dio!”.

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Fede ad arte

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Tutte le immagini hanno uguale importanza? Assolutamente no. Alcune meritano di essere difese a qualunque costo dai cristiani, in quanto esprimono o ricapitolano ai loro occhi, in modo efficace e sintetico, quello che va professato e vissuto. Altre potrebbero essere tralasciate, e non sarebbe una grande perdita. Mi pare illuminante, comunque, lasciarsi guidare nel caso specifico da una delle più audaci innovazioni del concilio Vaticano II, nel quale si è parlato di “gerarchia delle verità”, “essendo diverso il loro nesso con il fondamento della fede cristiana”.

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L’anima della vita

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Con questa somiglianza il Nome benedetto ha creato l’uomo, e l’ha fatto dominare su miriadi di forze e su mondi senza numero. Li ha consegnati in suo potere perché li reggesse e dirigesse secondo i più piccoli movimenti delle sue azioni, parole e pensieri, e secondo i vari aspetti delle sue direzioni, sia verso il bene sia verso il suo contrario (non sia mai!). Poiché con le sue azioni, parole e pensieri buoni l’uomo sostiene e rafforza molte potenze e i santi mondi superiori, aggiungendo loro santità e luce, come sta scritto: “Porrò le mie parole nella tua bocca … per spiegare i cieli e fondare la terra” (Is 51,16). O, come hanno detto i nostri maestri: “Non leggere tuoi figli (banajikh) ma tuoi costruttori (bonajikh)”, perché essi mettono in ordine i mondi superiori, come un costruttore mette in ordine la sua casa, infondendo loro una grande forza.

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La chiesa ortodossa: tradizione e riforme

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La chiesa ortodossa ritiene di essere fedele alla tradizione apostolica e patristica. Essa situa se stessa nella continuità ininterrotta della chiesa primitiva, essa perciò non manca di ricordare continuamente di aver preservato inalterata e senza cambiamenti, sia nella lettera che nello spirito, la tradizione ereditata dai sette concili ecumenici del primo millennio e dai padri della chiesa indivisa …

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Chiedere perdono per costruire pace e giustizia

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Chi chiede perdono, e perché? A chi spetta concederlo? Per un cristiano, la richiesta di perdono per colpe commesse dai suoi “padri” non è frutto di una “strategia”, non è un’arma da usare per ottenere altrettanto dall’avversario, non è una sorta di “patteggiamento di pena”, ma è l’espressione di una consapevolezza, di una convinzione profonda che, illuminata dalla parola di Dio, porta a esclamare: “Anch’io e la casa di mio padre abbiamo peccato” (Ne 1,6), nasce da una convinta solidarietà con le generazioni che lo hanno preceduto nella fede e nella testimonianza cristiana. Nessun calcolo, quindi, nessun soppesare l’efficacia di una dichiarazione, nessuna pretesa di contraccambio, ma il dar voce a un cuore contrito, il sentirsi parte di una comunione di santi e di peccatori.

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Il poema della luce

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Se nella Bibbia la luce è legata al genere letterario del racconto, lo è altresì a quello della poesia. Vi è infatti qualcosa del mistero della luce, e soprattutto del mistero biblico della luce, che può dirsi solo poeticamente. La potenza della poesia è tale che, nello spazio e nel reticolo di qualche parola, un mondo si dischiude sotto i nostri occhi. Così il versetto 10 del salmo 36: “È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce”. Così Dio è la vita sotto la vita, l’acqua viva sotto la vita. O meglio, come si aggiunge nella seconda parte del versetto, è la luce della luce. Vedere la luce creata significa partecipare al dono di un Creatore che è lui stesso luce. Solo la poesia può osare una tale scorciatoia espressiva. Noi ci troviamo fra luce e luce, noi che “vediamo.

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