E se fosse il malato che guarisce la comunità?


c) una comunità aperta al debole ... per essere autenticamente comunità, essa deve aprirsi al debole, al malato e trovare nel debole un criterio della sua verità e autenticità. Una comunità in cui l’elemento attivo ed efficentistico divenga preminente, rischia di emarginare il debole, di non dare spazio alla presenza inutile del malato, di colui che non ha strumenti di conoscenza e di parola, e limitate possibilità di azione. Una tale comunità risponde allora a una concezione per cui la comunità deve essere l’insieme dei forti, la somma delle ricchezze di ciascuno, mentre ogni autentica comunità è frutto della condivisione delle povertà di ciascuno. La comunità è com-munitas, termine che rinvia a munus, che è il dovere, il mandato, il compito, ma anche il dono, in particolare il dono che si dà, il dono che ci spoglia di noi stessi e che rende coloro che vivono in comunità dei donati a... e donanti a... La communitas è l’insieme di persone unite non da una proprietà, da un possesso, da un di più, ma da una mancanza, una povertà, un di meno. Paolo direbbe che la comunità è l’insieme delle persone che sono unite da un debito, il debito dell’amore reciproco (cf. Romani 13,8). Il malato, nel suo reale deficit, nella sua concreta disabilità, che (sia ben chiaro!) con tutte le forze si deve assolutamente cercare di arginare e di ridurre, ricorda alla comunità il suo status di corpo in cui le membra più deboli sono le più necessarie (cf; 1 Corinti 12,22) (Luciano Manicardi, {link_prodotto:id=310} Evangelizzare le parole della sofferenza, Qiqajon, Bose 2000, pp. 201-203).

 

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