Cattedrale di prossimità - Osservatore Romano

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Monastero di Bose
Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto – Cei
Consiglio Nazionale Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori

XVI CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
ARCHITETTURA DI PROSSIMITÀ

Idee di cattedrale, esperienze di comunità

BOSE, 31 maggio - 2 giugno 2018


Sarà Mario Botta con una relazione sulla cattedrale come metafora dell’architettura a concludere sabato 2 giugno presso il monastero di Bose il sedicesimo convegno liturgico internazionale. I lavori inizieranno il 31 maggio con l’intervento del fondatore Enzo Bianchi. Il convegno è dedicato quest’anno alla «architettura di prossimità», indagando, come recita il sottotitolo, su «idee di cattedrale» ed «esperienze di comunità». Infatti, all’attuale fase di adeguamenti liturgici delle cattedrali non può non corrispondere anche una rinnovata visione dell’esperienza della comunità cristiana. Non solo. Come spiegano gli organizzatori, l’architettura cristiana è chiamata a iscriversi all’interno di una sociologia urbana e a interagire con essa, consapevole dei luoghi contemporanei di socialità in città, tra presenze monumentali centralizzanti», come musei e piazze, «e diffusione di luoghi informali o non-luoghi», come gli attuali centri commerciali. All’incontro, promosso dalla comunità monastica biellese in collaborazione con l’ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della Conferenza episcopale italiana, partecipano teologici, esperti e docenti provenienti da Stati Uniti, Francia, Spagna, Germania, Paesi Bassi, Belgio, Austria e Italia. Anticipiamo stralci degli interventi di tre relatori.


Osservatore Romano
di Goffredo Boselli

La cattedrale è il luogo fisico e simbolico più elevato della presenza della Chiesa in una regione. Nella sua tangibile materialità concentra e rappresenta la storia della presenza cristiana in quella terra e, nelle tracce archeologiche che di frequente la cattedrale conserva, custodisce gli inizi e le fondamenta della presenza cristiana in quella regione. Per questo, la cattedrale è la diocesi stessa, è il locus per antonomasia della Chiesa locale, della sua storia di fede e di cultura di cui le epoche storiche che si sono succedute con i loro stili, le evoluzioni liturgiche, le devozioni e le pratiche hanno lasciato segni e tracce indelebili iscritte negli spazi e sulle pareti. Per questo, la cattedrale è il microcosmo della fede del popolo dei credenti di quel territorio, che attraverso i secoli non solo ha vissuto e testimoniato la sua fede, ma che l’ha voluta e saputa anche confessare attraverso le tante capacità non solo architettoniche e artistiche ma anche artigianali e manuali che hanno messo in azione attorno a essa.

Le cattedrali sono probabilmente la sintesi e la più alta espressione di ciò che la fede cristiana può realizzare a livello architettonico e artistico. Più esattamente le vette che in occidente si sono raggiunte quando la fede cristiana ispira la genialità e la creatività dell’essere umano, quando promuove, incoraggia, coltiva e sostiene l’insieme della arti. Nelle più grandi cattedrali come in quelle più modeste si può raggiungere la totalità delle arti classiche convocate al servizio della fede e della liturgia: l’architettura, la scultura, la pittura, l’oreficeria, la vetreria, la lavorazione dei marmi, delle pietre, dei tessuti alle quali si aggiungo il canto, la musica e perfino l’arte oratoria. Davvero si intuisce il sentimento che il salmista voleva esprimere esclamando che nel tempio di Gerusalemme «tutto grida gloria» (Salmi, 29).

Questa è la ragione per la quale è improprio affermare che la cattedrale è anzitutto un luogo liturgico e solo successivamente un’opera architettonica e artistica, quasi che il rito, l’architettura e l’arte fossero elementi semplicemente giustapposti e autonomi uno dall’altro. La cattedrale è il centro spirituale e liturgico della diocesi non solo perché in essa il vescovo presiede i riti liturgici più solenni ma perché l’architettura e le arti sono esse stesse espressione spirituale e liturgica. La liturgia, infatti, non può essere ridotta al mero rito celebrato con le sue norme, ma è un dato permanente iscritto nelle pietre, nelle forme, negli spazi, nella luce, nei suoni e in tutti gli elementi che fanno una chiesa e dunque partecipano attivamente all’atto celebrativo.

Il Caerimoniale episcoporum afferma: «Le celebrazioni presiedute dal vescovo non sono un semplice apparato di cerimonie ma manifestano il mistero della Chiesa alla quale Cristo è presente. Pertanto queste celebrazioni siano un esempio per tutta la diocesi» (n. 12). Se dunque è compito proprio delle liturgie del vescovo di essere «un esempio per tutta la diocesi», questa esemplarità non può venir meno anche nelle altre celebrazioni che avvengono nella cattedrale. È il valore e il significato della chiesa madre della diocesi che lo richiede e non semplicemente la presenza o meno del vescovo.

Alla grande attenzione che in questi anni si ha verso il valore storico, architettonico e artistico delle cattedrali, con il conseguente impegno di rinnovamento dello spazio liturgico e dei suoi poli, deve corrispondere e seguire un altrettanto impegno nella cura e nella bellezza delle liturgie che in esse sono celebrate. Alla qualità architettonica e artistica talvolta uniche delle nostre cattedrali deve corrispondere anche la qualità liturgica delle sue celebrazioni. Non è sufficiente rinnovare lo spazio liturgico se poi le liturgie che vi si celebrano non sono all’altezza del luogo, non solo quelle presiedute dal vescovo ma anche quelle che ordinariamente si celebrano, specie quelle domenicali. «La chiesa cattedrale deve essere considerata il centro della vita liturgica della diocesi», raccomanda il Caerimoniale episcopurum (n. 44). Si è talvolta assaliti da sentimenti di sconforto e smarrimento nel constatare l’evidente stridore tra la straordinaria bellezza del luogo e la sciatteria della celebrazione, la grandezza di quello spazio e la miseria di quel rito, l’armonia delle forme architettoniche e la stonatura dei canti e delle musiche. È responsabilità della Chiesa celebrare liturgie all’altezza della magnificenza delle cattedrali che la storia ci ha consegnato. Quella storia che ci insegna che l’eloquenza della fede non sta solo nella parola della predicazione o nell’atto di carità, ma anche nella bellezza del gesto rituale, nell’armonia del canto e della musica, degli spazi e dell’arte per la liturgia.

Far vivere le nostre cattedrali oggi, riconoscere intatto il loro valore e il loro significato vuol dire anche garantire a esse liturgie degnamente celebrate. Se le diocesi compiono oggi grandi sforzi nei restauri e nei rinnovamento degli spazi liturgici della cattedrale, devono anche investire economicamente nella professionalità dell’organista, in quella del cantore, del maestro di coro, nella selezione e una seria formazione della schola cantorum. Almeno per le liturgie delle cattedrali non si dovrebbe acconsentire in alcun modo al livello amatoriale, all’improvvisazione e alla buona volontà generalmente mirabili per dedizione ma deplorevoli per i risultati. Domandiamoci: anche per il mondo cattolico si è costretti a dire ciò che nel suo Journals Alexander Schmemann lamentava di quello ortodosso per lui diventato «incosciente delle ricchezze fondatrici della sua liturgia»?

In ogni diocesi, almeno quelle con maggiori mezzi e possibilità, la vocazione oggi delle cattedrali è quella di essere la chiesa dove si può fare esperienza della bellezza della liturgia. Soprattutto per le persone, e sono tante, con spiccato senso estetico, particolarmente sensibili alla bellezza del canto e della musica, del rito celebrato con cura senza per questo essere lezioso e artificiale. Risuona a un tempo come un monito e un compito indirizzato in primo luogo alle liturgie delle cattedrali quello che Papa Francesco afferma in Evangelii gaudium: «La Chiesa evangelizza con la bellezza della liturgia».

Il duomo di Modena - Osservatore Romano

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Idee di cattedrale, esperienze di comunità

BOSE, 31 maggio - 2 giugno 2018


Osservatore Romano
di Erio Castellucci

Appena si entra nella cattedrale di Modena, appare uno scenario molto suggestivo. L’interno, a tre navate, è sempre bello ed elevante, da qualunque punto lo si contempli: basta avere occhi e non essere totalmente sordi all’arcana seduzione del bello.   Svetta il crocifisso del XIII secolo sospeso sul presbiterio fortemente sopraelevato. Il capolavoro dell’interno è il pontile, in particolare il lungo bassorilievo della passione scolpito probabilmente da Anselmo da Campione, verso la fine del XII secolo, quindi subito dopo la consacrazione del duomo. L’ultima cena del pontile viene colta, con grande effetto drammatico, nel momento i cui Gesù “fa la comunione” a Giuda. Non è il traditore che intinge nel piatto con il maestro, ma è questi che mette direttamente il pane in bocca al discepolo ormai lontano, mentre “il discepolo amato” china il capo sul petto di Gesù. Nell’ambone domina Gesù benedicente, attorniato dai simboli dei quattro evangelisti; alla sua sinistra i quattro dottori della Chiesa occidentale: Agostino, Gregorio, Girolamo e Ambrogio.

La Chiesa è “comunione” non solo in senso sincronico, ma anche in senso diacronico: attraversa i tempi, è  traditio. L’altare, l’ambone e il coro originali, per la loro forte sopraelevazione di circa quattro metri rispetto al piano dell’assemblea, oggi di fatto non vengono utilizzati se non dalla cappella musicale del duomo nelle celebrazioni solenni. L’altare e l’ambone attualmente utilizzati si trovano al piano dell’assemblea, leggermente rialzati con pedane di legno. Ora la cattedra è collocata proprio dietro l’altare e l’ambone si trova nell’area del presbiterio. Diversi elementi, insomma, sono difformi dalla funzionalità della liturgia conciliare.

Il duomo di Modena non risponde pienamente a questa funzionalità liturgica per due motivi: prima di tutto l’interno, come lo vediamo ora, non è esattamente quello costruito da Lanfranco perché l’opera dei Campionesi ha aggiunto il pontile e innalzato il presbiterio, accentuando la separazione tra presbiterio e navata; in secondo luogo l’epoca in cui viene costruito il duomo (dal 1099 al 1230 circa) segna un mutamento di sensibilità in campo liturgico. In modo progressivo si compie il distacco sempre più netto dei fedeli dai sacerdoti celebranti anche mediante accorgimenti architettonici. I fedeli diventano, di conseguenza, sempre meno attivi e più spettatori; vengono orientati prevalentemente a vedere l’ostia consacrata nella quale si manifesta il miracolo della transustanziazione; più che unirsi, quindi, all’atto sacrificale di Cristo con la comunione, i fedeli sono paghi di vedere e adorare l’ostia consacrata.  Detto in sintesi, l’eccezionale sopraelevazione del presbiterio è pensata secondo le antiche esigenze di una liturgia presentata come sacro spettacolo.

 Oltretutto all’area presbiteriale originaria si accede non per mezzo di una grande scala centrale — come altre aree presbiterali fortemente sopraelevate — che avrebbe reso comunque abbordabile il dislivello e in qualche modo collegato all’aula assembleare, ma attraverso due scale laterali; l’altare non è visibile da gran parte dell’assemblea, occultato dal pontile.
La struttura compatta e ben definita del duomo non permetterà perciò cambiamenti rilevanti, come sarebbe auspicabile secondo le indicazioni liturgiche successive al Vaticano II. Sarà tuttavia importante maturare una riflessione; non solo, come sinora è avvenuto, all’interno del capitolo della cattedrale, ma anche coinvolgendo in qualche misura il popolo di Dio. Pensare insieme in modo sinodale la conformazione dello spazio celebrativo che può essere di aiuto a una migliore recezione del significato della liturgia e può offrire soluzioni che riflettono il sensus fidelium anche in questo campo; aprendo la riflessione non solo ai praticanti ma, nelle forme possibili, alla città.

Come afferma il documento della Conferenza episcopale italiana (Cei) del 1996:  «L’adeguamento liturgico delle chiese evidenza, a suo modo, il fatto che la Chiesa vive e opera all’interno della società attuale, a diretto contatto, in dialogo e a confronto con sensibilità e culture diversificate».  Occorrerà poi coinvolgere gli organi dello stato, anche per la natura di monumento tutelato dal ministero dei Beni culturali e dall’Unesco. Vale interamente anche per il duomo di Modena ciò che afferma il documento della Cei:  «Sulle nostre chiese, dunque, convergono interessi diversi — liturgici, culturali, normativi, turistici, tecnici — non sempre facilmente conciliabili».

L'appello spirituale delle cattedrali - Avvenire

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XVI CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
ARCHITETTURA DI PROSSIMITÀ

Idee di cattedrale, esperienze di comunità

BOSE, 31 maggio - 2 giugno 2018


Avvenire, 31 maggio 2018
di Goffredo Boselli

Al centro della città e idealmente al cuore della società contemporanea, le cattedrali di cosa oggi sono segno? Sono reliquie preziose di un tempo tanto glorioso quanto passa- to? Segni ostentati delle pretese trionfali- ste di una cristianità ormai scomparsa? Come conciliare la loro centralità spaziale con la progressiva marginalizzazione del messaggio cristiano nelle società occidentali come nei comportamenti degli uomini e delle donne di oggi? Come coniugare le loro monumentali dimensioni con la lenta erosione dell’appartenenza alle comunità cristiane e della presenza alle assemblee liturgiche? Siamo forse costretti a guardare alle nostre cattedrali come a delle immense navi spiaggiate alle quali è venuto meno il mare in cui navigare? In definitiva, il segno della cattedrale è oggi diventato insignificante?


Di fronte a queste impietose quanto inevitabili domande non può venir meno la piena convinzione che la visibilità delle nostre cattedrali è ancora portatrice di un messaggio per la società di oggi. La loro presenza al cuore delle città è tutt’oggi memoria della prossimità della comunità cristiana alla comunità umana. Le loro dimensioni segno della vocazione non settaria ma multitudinista della Chiesa. Infine, ma non per ultimo, la loro qualità architettonica e la loro bellezza artistica sono la più eloquente parola sulla natura e il fine della rivelazione cristiana. “Cattedrale” è vocabolo che evoca da sé solo per il popolo cristiano le radici e l’eredità della sua fede, la testimonianza del- la storia e il centro simbolico della chiesa diocesana. Per i non credenti è un riferimento alla cultura e alla storia, per il turista, per l’esteta e per lo storico un luogo la cui visita offre sempre scoperte ed emozioni. Per lo Stato e i suoi organi un monumento unico da conservare e un patrimonio artistico peculiare da valorizzare.

Pertanto, la vocazione prima di una cattedrale non è quella di essere un museo di opere d’arte o di custodire un tesoro, né di essere una meta turistica o una prestigiosa sala di concerti. Sebbene possa e debba essere anche tutto questo, la cattedrale è innanzitutto la chiesa madre il centro spirituale e liturgico della chiesa locale, il luogo dove è posta la cattedra del vescovo in mezzo alla sua diocesi. La cattedrale è sta- ta e resta l’espressione della fede di un popolo che nel corso dei secoli ha apposto il sigillo del suo tempo in funzione della sua cultura religiosa e del suo genio artistico.

La prima vocazione alla quale la città contemporanea appella la cattedrale è quella di essere presenza, in altre parole di continuare a esserci e assumere il senso dello stare al centro, lì dove la storia l’ha posta. Al cuore dello spazio cittadino, la cattedrale non è solo nella città ma è con la città. In senso figurato essa abita la città insieme ai suoi abitanti, come un simbolo il cui significato deborda ampiamente il suo valore religioso e la sua funzione cultuale.

Se la centralità della cattedrale non è più in alcun modo l’emblema della pretesa della Chiesa di fondare e ordinare l’intero mondo sociale, se lo stagliarsi della sua figura nello skyline della città non è di certo l’immagine di un potere spirituale incontrastato, affermare che il primo compito della cattedrale al cuore della città e della società contemporanea è quello di esserci, significa essere fino in fondo consapevoli del valore della presenza, della semplice e nuda presenza.

La presenza basta a se stessa e, a maggior ragione, la forza e l’intensità della pre- senza di un edificio storico e di grande valore architettonico e artistico come è una cattedrale. Se crediamo all’efficacia e all’eloquenza dei luoghi, degli spazi, degli edifici e delle architetture non fatichiamo a comprendere che il semplice esserci della cattedrale al centro della città svolge il compito di ricordare che anche una società secolarizzata non può recidere le sue radici religiose. In Europa la civiltà cristiana è tramontata ma le cattedrali restano. Restano come testimoni di una storia religiosa e culturale che non può essere dimenticata, ignorata né tan- to meno rimossa, ma che deve essere conosciuta e interiorizzata.

La presenza della cattedrale al cuore della città contemporanea è un appello a ricordare non solo che la dimensione spirituale nelle sue molteplici forme ed espressioni è costitutiva di ogni essere umano, ma anche che la stessa convivenza umana, il tessuto quotidiano delle relazioni, la costruzione dei valori condivi- si e la ricerca del bene comune necessitano della componente spirituale. Tra gli edifici e gli spazi pubblici della città, la cattedrale ha vocazione a essere uno spa- zio altro che è figura dell’esistenza di una dimensione altra della vita. Per questo, la sua presenza connotata da una particolare bellezza architettonica e artistica invita a entrare per accedere e aprirsi a un’altra dimensione del vivere.

Percorrerla nell’interezza della sua profondità può condurre a comprendere che l’esistenza umana necessita di un orientamento, uno scopo, un fine, una meta. La cattedrale sta al centro della città per ricordare che quando l’umanità perde la dimensione spirituale smarrisce una par- te non accessoria ma essenziale di se stessa, per questo la vocazione oggi della cattedrale al centro dello spazio pubblico è quello di ricordare in modo silente che il messaggio cristiano è ancora oggi una risorsa di umanizzazione. Questo è il primo compito della cattedrale oggi nella città contemporanea, quello della presenza, che non è occupare il posto centrale, ma rispondere alla vocazione del cristianesimo di stare al centro della vita umana, là dove la vita ogni giorno pulsa.

Città e cambiamenti - Osservatore Romano

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XVI CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
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Idee di cattedrale, esperienze di comunità

BOSE, 31 maggio - 2 giugno 2018


Osservatore Romano
di Mario Abis

Negli ultimi decenni siamo testimoni diretti di una globalizzazione che in primis significa urbanizzazione del mondo, ovvero trasformazione della visione di città che, aprendosi a nuovi orizzonti, crea soluzioni sempre più innovative. Fin dalle origini della cultura occidentale si è posto l’accento sull’insieme di pregiudizi che viziano il rapporto centro-periferia.

Se da un lato il centro è sinonimo di importanza, di potere, di legittimazione ed efficacia (dall’agorà al panottico, la stessa architettura ha esaltato positivamente il concetto di centralità come luogo del potere) dall’altro lato, per contrasto, la periferia viene confinata ad assumere un ruolo marginale e negativo, nonché svantaggioso e delegittimante. Questa sorta di tensione storica viene oggi a scontrarsi e a frantumarsi in un mondo caratterizzato da nuovi “processi di decentramento”, fotografati proprio da Augè. L’antropologo spiega come il processo di urbanizzazione corrisponda a un duplice sviluppo che vede la convergenza delle grandi metropoli con le vie di comunicazione e consumo, i cosiddetti “filamenti urbani”, ossia quegli spazi che saldano tra loro queste nuove e grandi agglomerazioni urbane.

In questo scenario «il mondo è un’immensa città. È una città-mondo», dove occorre ribaltare i pregiudizi e riabilitare il concetto stesso di periferia che, più che estinto, si trova oggi di fronte a un processo di trasformazione. Secondo Wallerstein «Centro/periferia è un concetto di globalizzazione del mondo premoderno»; nella modernità, invece, vi è un’immagine di centro demoltiplicato e onnipresente, in cui vige la regola di un eterno presente.

Lavori del 3 giugno

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XV CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
ABITARE
CELEBRARE
TRASFORMARE

processi partecipativi tra liturgia e architettura

BOSE, 1-3 giugno 2017


Si conclude oggi il XV Convegno Liturgico Internazionale, organizzato dal Monastero di Bose e dall’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali Ecclesiastici e l’edilizia di Culto della CEI.

Le conferenze di quest’ultima sessione – presieduta da fr. Goffredo Boselli, membro del Comitato scientifico – ruotano intorno al verbo /TRASFORMARE/ cioè dare nuova vita ai luoghi. Ogni spazio costruito dall’uomo è un organismo vivo e per questo in continua trasformazione, autentica metamorfosi di finalità, usi e forme. Semper reformanda è la Chiesa, anche nelle sue architetture. La tradizione ecclesiale – che è trasmissione del fuoco e non nostalgia delle ceneri – abita e vive gli spazi della comunità nei suoi continui mutamenti; inevitabilmente, dunque, e vitalmente li trasfigura, perché continuino ad essere eloquenza dell’oggi di Dio per gli uomini che vivono l’oggi della Chiesa nell’oggi del mondo. Dare nuova vita alle cose non è solo compito del divino, ma richiede il contributo dell’umano.

Il prof. Carlo Ratti del Massachusetts Institute of Technology di Boston, dove dirige il Senseable City Lab, propone una riflessione su «Temporaneo e permanente in architettura», mentre l’architetto Mario Cucinella di Bologna, docente presso la Facoltà di Architettura di  Ferrara,  l’Università  di  Nottingham,  lo IED  di  Torino,  l’Università  Federico  II  di  Napoli,  e  direttore  del  comitato  scientifico  di  PLEA  (Passive  and  Low  Energy Architecture), offre una rilettura trasversale dei temi percorsi durante i tre giorni di questo convegno: Abitare, Celebrare e Trasformare.

Al termine di un tempo di dibattito e dialogo fra relatori e pubblico, il presidente del Comitato scientifico, fr. Enzo Bianchi, porge all’assemblea i saluti e i ringraziamenti conclusivi, alla fine del XV Convegno Liturgico Internazionale di Bose, che ha cercato di mettere in evidenza la dimensione partecipativa dell’esperienza ecclesiale e architettonica, nel movimento virtuoso fra committenza, architetti, artisti e comunità cristiana. Ancora una volta si conferma che non è possibile pensare e realizzare gli spazi di una chiesa senza il coinvolgimento delle persone e delle comunità chiamate ad abitare i luoghi di vita della Chiesa, in profonda sinergia con il tessuto sociale e ambientale circostante.

 

Lavori del 2 giugno

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XV CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
ABITARE
CELEBRARE
TRASFORMARE

processi partecipativi tra liturgia e architettura

BOSE, 1-3 giugno 2017


Si svolge oggi la seconda giornata del XV Convegno Liturgico Internazionale, organizzato dal Monastero di Bose e dall’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali Ecclesiastici e l’edilizia di Culto della CEI.

La sessione della mattina – presieduta dalla dr. Micol Forti, direttrice della Collezione d’Arte Contemporanea dei Musei Vaticani e membro del Comitato scientifico – ruota intorno alla tematica del /COSTRUIRE/ cioè porre un nuovo elemento all’interno di un paesaggio: in senso architettonico e teologico, la Chiesa è costruttrice del tempo e dello spazio, sapendo che costruire è quell’autentico abitare, che – mentre erige costruzioni – si prende cura di ciò che cresce. Il prof. Luigi Bartolomei, dell’Università di Bologna presenta l’interazione fra costruzione dello spazio sacro e paesaggio, nel segno del signum consolationis.

In seguito il critico dell’architettura Jean-François Pousse (Meudon), con fr. Philippe Markiewicz osb (Paris), architetto e direttore della rivista francese Arts sacrés, presentano la recente realizzazione della Cattedrale e del Centro culturale per gli ortodossi russi a Parigi, alla luce dei principali progetti finalisti in concorso.

Nel pomeriggio – sotto la presidenza di mons. Giancarlo Santi – la riflessione verte intorno al verbo /CELEBRARE/ che, coniugato in chiave teologica, implica l’assumere e l’abitare la ritualità e la spiritualità in un luogo: l’agire liturgico di una comunità celebrante plasma gli spazi, imprime una direzionalità, apre vie di senso e di sensibilità, manifesta la Chiesa, mentre le dà forma. Il teologo francese Louis-Marie Chauvet dell’Institut Catholique de Paris offre la sua riflessione circa l’attuale domanda di riti, come possibile apertura di itinerari di senso, di fede e di umanizzazione.

In seguito, la dr. Kristell Köhler, responsabile diocesana per la pastorale giovanile della diocesi di Köln e il prof. Albert Gerhards, docente presso il Seminar für Liturgiewissenschaft dell’università di Bonn, esamineranno il caso del Centro di pastorale giovanile «Crux» di Köln per esemplificare alcuni criterio di adattamento degli spazi liturgici per celebrazioni peculiari.

Anche durante questa giornata, le diverse conferenze della sessione mattutina e pomeridiana sono seguite da un tempo di scambio e dibattito animato dai giovani architetti e professionisti del /CLI LAB/, che illustrano le “architetture quotidiane” degli spazi sacri vissuti concretamente dalle comunità, e che propongono alcuni schemi per “visualizzare il limite” nel pensare e disegnare uno spazio per il culto, fra separazione e coinvolgimento, cammino e scoperta.

Lavori del 1 giugno

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Monastero di Bose
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XV CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
ABITARE
CELEBRARE
TRASFORMARE

processi partecipativi tra liturgia e architettura

BOSE, 1-3 giugno 2017


Si è aperto questa mattina il XV Convegno Liturgico Internazionale, organizzato dal Monastero di Bose e dall’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali Ecclesiastici e l’edilizia di Culto della Conferenza Episcopale Italiana, in collaborazione con il Consiglio Nazionale degli Architetti, dedicato al tema: Abitare, celebrare, trasformare. Processi partecipativi tra liturgia e architettura.

Il fondatore di Bose, fr. Enzo Bianchi, ha aperto i lavori con una relazione introduttiva, seguita dall’indirizzo di saluto di mons. Valerio Pennasso, direttore dell’UNBC della CEI, che si è fatto latore del messaggio di S. Ecc. Mons. Nunzio Galantino, Segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana. Il dott. Giuseppe Cappochin, presidente del CNAPPC, ha poi porto il suo saluto ai partecipanti al Convegno.

Nell’intento di delineare una grammatica per pensare e vivere la Chiesa attraverso i suoi spazi e le sue architetture, la sessione del mattino è dedicata alla coniugazione del verbo /FARE/ nella prospettiva ecclesiologica del «fare Chiesa» e del «fare chiese» in senso architettonico. Il prof. Dario Vitali, ecclesiologo della Pontificia Università Gregoriana (Roma) esamina la prospettiva teologica della Chiesa, fra appartenenze e radicamento nel territorio, mentre mons. Valerio Pennasso, esamina i luoghi per la comunità, attraverso i loro processi di costruzione e trasformazione.

Nel corso della seduta di apertura, presieduta da mons. Angelo Lameri (Pontificia Università Lateranense, Roma), membro del Comitato scientifico, S Ecc. mons. Marco Arnolfo, Arcivescovo metropolita di Vercelli, ha dato lettura del messaggio del Card. Pietro Parolin, Segretario di Stato di Sua Santità, con la benedizione del Santo Padre Francesco; mentre il messaggio del Card. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura è stato letto da mons. Fabrizio Capanni, officiale del medesimo Pontificio Consiglio.

La sessione del pomeriggio – presieduta dall’architetto Andrea Longhi (Politecnico di Torino), membro del Comitato scientifico – è dedicata al tema dell’/ABITARE/, considerato sotto l’angolo antropologico e filosofico del prendere dimora in uno spazio costruito: se «l’abitare è il modo in cui i mortali sono sulla terra» (Heidegger), allora questa modalità dev’essere pensata e assunta, in un dato intreccio e contesto sociale, nell’epoca dei non-luoghi. Dopo il saluto di S. Ecc. mons. Gabriele Mana, vescovo di Biella, che ha dato lettura del messaggio di E. Ecc. mons. Claudio Maniago, presidente della Commissione per la Liturgia della CEI, la prof. Carla Danani, dell’Università di Macerata, accompagna l’uditorio in un percorso attraverso le diverse prospettive filosofiche contemporanee dell’abitare, per delineare una «Oikosophia» per l’oggi.

In seguito, gli architetti Aaron Werbick e Gerald Klahr (Köln-Berlin) presentano il progetto partecipativo come metodo, alla luce della loro esperienza di dialogo fra committenza ecclesiale, comunità cristiana, architetti e costruttori.

Alle relazioni del mattino e del pomeriggio segue un tempo di dialogo e dibattito animato dai giovani architetti e professionisti che, nel mese di febbraio, hanno partecipato al /CLI LAB/, un laboratorio interdisciplinare tra architettura e liturgia organizzato dal monastero di Bose dall’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali Ecclesiastici e l’edilizia di Culto della Conferenza Episcopale Italiana per favorire lo scambio diretto di esperienze, progetti in corso, realizzazioni per aprire nuove strade verso la progettazione dei luoghi di culto e spiritualità.