L’identità del cristiano: vivere per servire


Warning: Invalid argument supplied for foreach() in /home/monast59/public_html/templates/yoo_moustache/styles/bose-home/layouts/article.php on line 44

Vivere per servire: ecco un ideale davvero bello per un cristiano! Ogni autentico servizio, infatti, ha la sua radice nel mistero di Cristo che per salvarci … pur essendo di natura divina..., spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo (Lettera ai Filippesi 2, 6-7). Gesù è venuto sulla terra per insegnarci a servire. Egli è il nostro modello. Durante l'ultima Cena, dopo la lavanda dei piedi, disse ai suoi discepoli: «Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Giovanni 13, 12-15).

Conformarsi a Cristo significa, dunque, nelle situazioni in cui si vive e si lavora, saper dire con spontaneità:  Sono venuto per servire, non per essere servito» (cf. Matteo 20, 28),  essere cioè sempre a disposizione per il bene degli altri», anzi, «diventare un bene per gli altri». La differenza non è piccola: si tratta di passare dal fare qualcosa a favore dei fratelli, ad essere una persona per gli altri, come Gesù è «per noi».
Questo modo di porsi in relazione a Dio e al prossimo dona alla vita una dimensione nuova: in qualunque stato ci si trovi — consacrati o laici, soli o sposati, sani o malati — sempre si ha una missione da compiere, quella di donarsi. E poiché il donarsi implica l'impegno di una continua conversione per negarsi a se stessi, chi vive in tale dimensione interiore evita di entrare in competizione e in rivalità con i fratelli, non agisce sotto la spinta dell'ambizione e dell'egoismo, fugge l'ostilità, la violenza, l'aggressività, con tutte le tristi conseguenze che purtroppo si esibiscono sulla scena di questo mondo. Allora, anche se in apparenza non occupa un posto di rilevo nella società, il cristiano contribuisce veramente a costruire la « civiltà dell'amore »; là dove vive è una presenza di pace che diffonde attorno a sé carità e spirito di comunione, favorisce la collaborazione e la concordia a tutti i livelli, diventa fermento di giustizia, di santità.

L'ideale del servizio comporta inoltre altre conseguenze. Se uno vive in pace con gli altri non avanza diritti per sé, cerca piuttosto di mettersi nella prospettiva del «dovere». Oggi si parla facilmente di «diritti», ma si pensa meno al fatto che, se ogni persona ha il diritto di essere libera, di avere il necessario per vivere, ciò implica che io ho il dovere di fare per quella persona quanto occorre per il suo bene. Certamente si tratta di un atteggiamento da assumere reciprocamente, di una responsabilità comune. Quanto è importante la reciprocità! Tuttavia, per quanto ci riguarda, dobbiamo soprattutto preoccuparci di compiere il nostro dovere, cioè di servire gli altri con amore, in modo gratuito, anche se non riceviamo dagli altri il contraccambio. Anzi, quando tale disparità dovesse manifestarsi, proprio allora è il momento di vivere il Vangelo alla lettera, senza seguire la mentalità del mondo.

Annamaria Cànopi
Abbadessa del Monastero “Mater Ecclesiae”, isola di S. Giulio d’Orta

Il significato della parola “servizio”


Warning: Invalid argument supplied for foreach() in /home/monast59/public_html/templates/yoo_moustache/styles/bose-home/layouts/article.php on line 44

Leggi tutto: Il significato della parola “servizio”

La parola “servizio” è una delle più abusate, e spesso è usata per dire proprio il contrario di ciò che essa significa e di ciò che vuole e deve essere.
Nella nostra cultura il termine servo è ormai logoro e disprezzato, non piace, perché servire è considerato umiliante e perché si è fatta molta retorica in proposito...

Rifiutare il saccheggio del pianeta


Warning: Invalid argument supplied for foreach() in /home/monast59/public_html/templates/yoo_moustache/styles/bose-home/layouts/article.php on line 44

Leggi tutto: Rifiutare il saccheggio del pianeta

“Il cibo è la nostra comunione naturale alla carne del mondo” (Sergej Bulgakov). La benedizione sul cibo, su tutto il lavoro che lo produce, implica il rifiuto del “saccheggio del pianeta”, il rispetto dei ritmi della vita; essa ci fa passare da un rapporto da vampiri con la natura – mangiare per essere infine mangiati – a un rapporto eucaristico che rende Dio presente nei cicli vitali...

Cadono i pregiudizi


Warning: Invalid argument supplied for foreach() in /home/monast59/public_html/templates/yoo_moustache/styles/bose-home/layouts/article.php on line 44

Leggi tutto: Cadono i pregiudizi

Quando entriamo in relazione personale con una persona diversa o emarginata, cominciamo a riconoscere gli errori e le ingiustizie della nostra cultura e della nostra società. Allora prendiamo coscienza di quanto siano radicati i pregiudizi che ci governano. Qualche tempo fa, alla stazione, ho incontrato un uomo che, un tempo...

Responsabilità/alterità


Warning: Invalid argument supplied for foreach() in /home/monast59/public_html/templates/yoo_moustache/styles/bose-home/layouts/article.php on line 44

Nella lingua latina il termine che corrisponde alla parola italiana “responsabilità” è sponsio che vuol dire propriamente “promessa”, “impegno”; suo sinonimo è praestatio che vuol dire rendersi garante di qualcuno o di qualcosa. Responsabile è dunque colui che si fa mallevadore di qualcun altro. La responsabilità è una presa in carico: essa obbliga a una risposta. C’è responsabilità solo in quanto c’è relazione. In molti ricorderanno la celebre frase esistenzialista “l’inferno sono gli altri”. Quella frase esprimeva non solo il rifiuto degli altri, ma anche l’insofferenza per l’impossibilità della propria autosufficienza. Che sono poi due facce della stessa medaglia. Chi, infatti, fosse autosufficiente, sarebbe libero da ogni obbligo nei confronti degli altri e di sé: tutto gli sarebbe possibile perché da nessuno dipende. Invece così non è, perché noi esistiamo solo nella e per la relazione, siamo in catena e questo rende la responsabilità possibile e la rivela insieme come inevitabile. Ognuno di noi esiste in virtù di altri, e non solo perché da altri è stato generato, ma perché da questo sarebbe presto uscito, così come vi è entrato, se non fosse stato accolto, cresciuto, da qualcuno a suo modo amato. Nessuno di noi sarebbe al mondo se qualcuno non ci avesse preso in carico, non se ne fosse assunto la responsabilità. Ogni uomo, in ragione del suo semplice esistere, non può che essere grato, anche se ha buone per lamentarsi, per disprezzare, maledire. Questo sentimento si genera soprattutto quando ci si rende conto che il bene di esistere è goduto ampiamente meno di quanto lo si potrebbe e non per inimicizia della natura, ma perché gli uomini, lungi dal sostenersi, si ostacolano, spezzano la catena che li lega nella vana illusione di potersi rafforzare ognuno per proprio conto.


E così si trovano senza nulla cui attaccarsi, in egoistica e solitaria deriva. In questo paesaggio selvaggio è evidente che le istanze della sicurezza prevalgono su quelle della confidenza, del reciproco affidarsi. Spesso gli uomini non si assumono le responsabilità che dovrebbero, a garanzia dei loro stessi interessi, perché in modo del tutto miope ritengono che per star bene sia sufficiente non danneggiarsi. Se l’atteggiamento è questo, è evidente che nella gerarchia dei valori l’assicurarsi prevalga sul soccorrersi, l’indisponibilità a offrirsi freni la spontaneità del bene. D’altra parte, ignorare l’esistenza degli altri, prescinderne, ci esonera dal dovere di dare risposte. Per non sentirsi colpevoli basta poter dire sempre e in ogni caso: “con questo io non c’entro”. Nelle società contemporanee avanzate, infatti, le colpe maggiori non riguardano tanto quel che si fa, ma quel che non si fa: il peccato corrente è l’omissione. Non assumersi responsabilità è il modo migliore per non sentirsi colpevoli. Si dirà: io ignoro gli altri? Ma quando mai! Infatti, un po’ di beneficenza – che al di là di ogni buona intenzione è pur sempre una monetizzazione delle relazioni umane -, all’occasione, è un modo facile per scaricarsi la coscienza. Ben venga la beneficenza – sempre e in ogni caso – ma non la si faccia mai a discarico o in sostituzione, bensì a compimento, come un portare a perfezione la propria capacità di mettersi a disposizione. anche a costo di personali rinunce. E tuttavia a fronte di indubbie e molteplici generosità gli uomini sfuggono innanzi alle proprie responsabilità. Quanti, infatti, si rendono conto di come e quanto i diversi stili di vita, i livelli di ricchezza, l’impiego distorto delle risorse, il modo ovvio e mai problematizzato di usarle pesino sui nostri reciproci destini.


Assumere su di sé il peso degli altri consapevolmente non può dunque coincidere con la generosità dell’offrire – o nell’offrire quel che si può – ma piuttosto con il diuturno impegno perché si realizzi un mondo più giusto. Questo modo di atteggiarsi permetterebbe – perfino – di pensare la politica diversamente da quanto comunemente accade e renderebbe decisamente stonata la formula qualunquistica “sono tutti uguali”. L’assunzione di responsabilità a causa della giustizia potrebbe essere per tutti una buona ragione per impegnarsi disinteressatamene in politica contro gli usi personalistici ed arbitrari del potere. Ma – ci si chiede – se la politica nasce per mediare interessi come si potrà mai parlare, in essa, di disinteresse? ingenuità o follia. Tuttavia la politica si giustifica se e solo opera in vista dell’interesse generale: in questa luce, l’utopia del disinteresse si mostra più ragionevole di quanto non lo si pensi. Date queste premesse, chiara ne è la conseguenza: le società contemporanee diverranno società responsabili solo quando abbandoneranno la pratica diffusa dell’omissione, che le esonera formalmente dagli obblighi e permette loro la falsa coscienza: quella di sentirsi innocenti. Alla responsabilità non si sfugge perché non è cosa che si possa assumere a discrezione, però, ma è la realtà a imporla. L’altro nel suo puro esistere mi rende sempre e in ogni caso responsabile. Lo posso amare, aiutare, combattere, odiare: sempre e in ogni caso prendo posizione nei suoi confronti e non posso non prenderla. Quand’anche lo ignorassi sarei appunto responsabile di ignorarlo e sarei perciò nei suoi confronti sempre inevitabilmente giusto o colpevole, mai neutrale.


Il mio essere responsabile non dipende da una mia decisione, ma è una mia condizione: è l’altro per il fatto stesso di esistere che mi impedisce di non esserlo. Tanto vale che ognuno assuma consapevolmente le proprie responsabilità. Da questo punto di vista la Bibbia è più che mai esemplare. Dopo che Caino ha ucciso il fratello Dio lo interroga con le note parole: “Dov’è Abele, tuo fratello?” (Genesi 4,9). Caino si difende dichiarandosi irresponsabile. Ma egli responsabile lo è, non tanto e non solo perché il fratello lo ha ucciso, ma perché non lo ha preso in custodia. Evidentemente se lo avesse preso in custodia, se se ne fosse reso responsabile non lo avrebbe ucciso. Essere responsabile di un altro non vuol dire affatto agire per suo conto - e meno che mai sostituire l’altro nella sua libertà - ma, al contrario, prendere la libertà dell’altro a misura della propria azione e del proprio limite. Questo sentirsi reciprocamente responsabili apre la strada al divenire vicendevolmente disponibili (S. Natoli, Parole della filosofia, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 137-139).

Donare il tempo


Warning: Invalid argument supplied for foreach() in /home/monast59/public_html/templates/yoo_moustache/styles/bose-home/layouts/article.php on line 44

Leggi tutto: Donare il tempo

Essere responsabili per qualcuno, amare qualcuno, significa dargli tempo. Così, è evidente che far nascere un essere umano è precisamente l’atto di donazione del tempo. Ma anche dare ascolto a un altro è dargli tempo. Analogamente, perdonare significa dare all’altro il tempo di rinnovarsi, non incastrarlo identificandolo nel male che può aver fatto...

Abitare il mondo senza dominarlo


Warning: Invalid argument supplied for foreach() in /home/monast59/public_html/templates/yoo_moustache/styles/bose-home/layouts/article.php on line 44

Leggi tutto: Abitare il mondo senza dominarlo

Sottrarsi al fascino del potere. Abitare questo mondo senza dominarlo. riallacciare una relazione fraterna con gli esseri in una sorta di amicizia francescana per la creazione. Ritrovare ciò che è gratuito, che è donato, che è imprevisto, inaudito… Qui “comunione dei santi” acquista il suo significato; coloro che sono depositari del potere possono essere segretamente posti a beneficio di coloro che...

Far spazio alla voce di chi è senza voce


Warning: Invalid argument supplied for foreach() in /home/monast59/public_html/templates/yoo_moustache/styles/bose-home/layouts/article.php on line 44

Nella versione lucana della parabola del grande banchetto (Luca 14,15-24), l’accento non è tanto sull’estensione dell’invito a buoni e cattivi (come è nella versione di Matteo 22,2-10), quanto sui deboli, quelli che non si aspettano nulla o non possono prendere alcuna iniziativa da se stessi. Molto significativamente, viene immediatamente dopo l’ammonizione di Gesù a non invitare coloro di cui si può star certi che ricambieranno l’ospitalità (Luca 14,12-14). Ciò che va demolito è un intero modello di calcolo del valore umano in un sistema di qualsiasi scambio, secondo il quale varrebbe la pena prendere sul serio questa o quella persona a causa del loro status, dei vantaggi che offrono, della loro abilità a giocare il proprio ruolo nel particolare gioco che è in corso. Che cosa significa non avere il diritto di essere ascoltati, non avere accesso alla moneta corrente del mercato dominante? Significa essere senza parola, senza quei mezzi con i quali quelli che ti circondano addomesticano e organizzano il mondo. Il tuo linguaggio non conta: sia letteralmente, nel caso di soggetti il cui linguaggio non ha status legale, sia in senso più ampio, quando tutta la forma del linguaggio di chi è al potere ti ricorda costantemente che la tua prospettiva non è inclusa. Non puoi parlare in maniera tale da fare concretamente la differenza; la tua moneta viene respinta; niente di quel che dici “riuscirà bene”, persuaderà o avrà successo. Ecco perché Gesù in Luca 22,67 agli uomini del consiglio che chiedono di dire loro se sia il Messia, Gesù replica: “Se ve lo dico, non mi crederete, e se vi interrogo, non risponderete”. In altre parole: non ho niente da dirvi che siate in grado di udire o a cui siate in grado di rispondere. Il Gesù di Luca si mette dalla parte di quelli il cui linguaggio non può essere udito. Sorge allora una domanda: dov’è e che cos’è la “trascendenza” di Dio? Per Luca la trascendenza di Dio si rende in un certo senso presente in e con quelli che non hanno voce, in e con quelli che non hanno potere di influenzare il loro mondo, in e con quelli che si suppone abbiamo perso qualsiasi diritto possano avere avuto al mondo. Dio non è con loro perché siano naturalmente virtuosi, o perché siano dei martiri; è lì semplicemente nel fatto che vengono “lasciati fuori” quando il punteggio sociale e morale viene calcolato dai manager del comportamento morale o sociale. O, per dirla un po’ diversamente, Dio appare nel e attraverso il fatto che i nostri modi di sistemare il mondo lasciano sempre fuori dal conto l’interesse, il benessere o la realtà di qualcuno. Noi non sappiamo organizzare il nostro mondo in modo da lasciare a ciascuno uno spazio possibile. Siamo inevitabilmente costretti all’esclusione nel momento in cui cerchiamo di dare forma alla nostra vita morale e sociale. Allora, che cosa ci dice Luca mediante il modo con cui situa Dio accanto all’outsider? In un senso importante, non dice nulla riguardo a ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Se pensassimo che Dio debba essere trovato dentro e accanto all’outsider perché Dio approva di costui più di quanto approvi di un insider, ricadremmo proprio in quella mentalità che siamo esortati a dimenticare. La sostanza del messaggio di Luca è in un certo senso più semplice: Dio è nelle connessioni che noi non riusciamo a creare. La persona “lasciata fuori”, il cui posto io non posso garantire, che non è adatta, è la persona che mi richiama ai miei stessi limiti; e quando prendo atto del carattere incompleto del mio mondo di riferimento e della mia incomprensione, posso almeno vedere la serietà dell’interrogativo riguardo al destino di quelli a cui non si provvede. Se in un senso o nell’altro riconosco una rivendicazione di interesse per simili persone, seppure non abbia idea alcuna di come portarla a effetto, sono in qualche misura almeno nella direzione di percepire come Dio stia nelle connessioni che io non riesco a creare. Rendermi conto di avere “difficoltà di apprendimento”, che la mia modalità abituale di fare fronte non può fare fronte a questa esperienza, a questa persona, significa permettere che lo straniero continui a essere straniero, piuttosto che divenire un membro fallito del mio mondo o un parlatore incompetente del mio linguaggio. Allora imparare da quello straniero vuol dire permettere che il mio mondo venga ampliato in modi che vanno al di là dei miei piani e del mio controllo, appunto mediante il riconoscimento che lo straniero è davvero uno straniero. Circoscrivere l’altro nella mia cornice di riferimento è commettere uno sbaglio; rifiutare di ascoltare o di apprendere perché l’altro è “strano” vuol dire farne un altro. Lo straniero rappresenta il fatto che devo crescere, non necessariamente nella direzione di una identità simile alla sua, ma almeno in quella di un mondo in cui si possa avere di più la sensazione che si tratti di un mondo condiviso. Riconoscere l’altro senza l’impulso immediato di renderlo uguale, comporta il riconoscere l’incompletezza del mondo che io penso di poter gestire e l’andare verso quel mondo che potrei non essere in grado di gestire così bene, ma che ha maggiore profondità di realtà. Ed è facendo tali passi che si va più vicini a Dio (R; Williams, Il giudizio di Cristo, Qiqajon, Bose 2003, pp. 77-81, 87-88).

J

Il diniego


Warning: Invalid argument supplied for foreach() in /home/monast59/public_html/templates/yoo_moustache/styles/bose-home/layouts/article.php on line 44

I mezzi di informazione, che ci fanno conoscere, come mai prima era accaduto, quel che succede nel mondo, ci hanno messo nelle condizioni di praticare un nuovo vizio, che rischia di passare inosservato perché molto diffuso, senza che la sua diffusione diminuisca di un grammo la sua tragicità. Questo vizio è il diniego, che consiste nel negare, nelle forme più svariate e ipocrite, l’esistenza di ciò che esiste e per giunta si conosce. Il linguaggio è un grande alleato del diniego che può essere letterale: “non è successo niente”, “non c’è stato alcun massacro’, “non sarebbe potuto succedere senza che noi lo sapessimo”; interpretativo per cui la pulizia etnica si chiama “scambio di popolazioni”, un massacro civile “danno collaterale”, una deportazione “trasferimento di popolazione”, una tortura “pressione fisica”. Oppure, ed è il più diffuso, il diniego può essere implicito e ciò avviene quando non si negano i fatti, si esclude solo che questi fatti interpellino proprio noi. I bambini che muoiono di fame in Somalia, gli stupri di massa delle donne in Bosnia, i massacri di Timor Est, i senza tetto nelle nostre strade sono fatti riconosciuti, ma non sono percepiti come un elemento di disturbo psicologico o carichi di un imperativo morale ad agire. Il diniego implicito che scatta qui è lo stesso per cui, di fronte a un incidente stradale, i testimoni si dileguano, perché “il fatto non ha niente a che fare con loro”, perché “ci penserà qualcun altro”. Ogni tipo di diniego comporta una falsificazione della nostra condizione psicologica. Nel diniego letterale non si vuole sapere ciò che si sa, in quello interpretativo si vuole evitare, attraverso una riformulazione di comodo dei fatti, di essere interpellati legalmente o moralmente, in quello implicito si visualizzano i fatti come estranei alla propria competenza, in modo da sentirsi esonerati da un pronto intervento.


Per arrivare a queste conclusioni è necessaria una falsificazione del nostro apparato cognitivo (non riconoscere i fatti che si conoscono), emozionale (non provare sentimenti di fronte a fatti che li sollecitano), morale (non riconoscere nei fatti alcuna valenza di ingiustizia o di responsabilità), e di azione (non agire in risposta a quanto consociamo). Se abbandoniamo il grande scenario della storia, per entrare nella sfera più ristretta della nostra vita privata, il diniego dilaga in tutte le sue forme in maniera insospettata. I membri della famiglia hanno una capacità sorprendente di ignorare o fingere di ignorare che cosa accade davanti ai loro occhi, sia esso abuso sessuale, violenza, alcolismo, follia o semplice infelicità. Esiste un livello sotterraneo dove tutti sanno quello che sta succedendo, ma in superficie si mantiene un atteggiamento di assoluta normalità, quasi una regola di gruppo che impegna tutti a negare ciò che esiste e si vede. Qui il diniego è il primo adattamento della famiglia alla devastazione causata da un membro, sia esso alcolista, o drogato, o pedofilo, o violento, o folle, o dedito a traffici illeciti. La sua presenza deve essere negata, ignorata, sfuggita o spiegata come qualcos’altro, altrimenti si rischia di tradire la famiglia. Qui scatta quella che potremmo definire la morale della vicinanza che è quanto di più pernicioso ci sia per la coscienza privata e, a maggior ragione, per quella pubblica.


Infatti, la morale della vicinanza, che abbiamo ereditato dall’età premoderna, dove non c’erano i mezzi di informazione e dove la società era circoscritta a piccole comunità o a piccoli gruppi, tendeva difendere il gruppo familiare o comunitario e a ignorare tutto il resto. Oggi che i mezzi di informazione ci fanno conoscere quanto accade in tutto il mondo, il persistere nella morale della vicinanza non ci consente di vivere all’altezza del nostro tempo, se non a colpi di diniego, che può assumere la forma dell’indifferenza per tutte le disgrazie che accadono lontano da noi, o la forma dell’insensibilità dovuta al fatto che fondamentalmente i miei bambini non muoiono e non moriranno di fame, e che io non sono stato né sarò cacciato di casa mia dopo aver visto mia moglie uccisa a colpi di machete. Questa consapevolezza dettata dalla morale della vicinanza finisce col sostituire alla responsabilità, alla sensibilità morale, alla compassione, al senso civico, al coraggio, all’altruismo, al sentimento della comunità, l’indifferenza, l’ottundimento emotivo, la desensibilizzazione, la freddezza, l’alienazione, l’apatia, l’anomia e alla fine la solitudine di tutti nella vita della città. Contro il diniego non dobbiamo invocare la verità che talvolta nemmeno a noi stessi possiamo ammettere, ma quel principio che la rivoluzione francese ha messo in circolazione, e che è stato finora del tutto ignorato: non l’uguaglianza, non la libertà che nel novecento hanno contrapposto la visione comunista e capitalista del mondo, ma la fraternità. L’abbondanza di informazione che è il tratto tipico del nostro tempo ci rende infatti responsabili di ciò che sappiamo e, se non diventiamo sensibili alla fraternità, di fronte a quel che sappiamo diventiamo irrimediabilmente immorali, a colpi di diniego (U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, Milano 2003, pp.107, 111-114).