Far spazio alla voce di chi è senza voce

Nella versione lucana della parabola del grande banchetto (Luca 14,15-24), l’accento non è tanto sull’estensione dell’invito a buoni e cattivi (come è nella versione di Matteo 22,2-10), quanto sui deboli, quelli che non si aspettano nulla o non possono prendere alcuna iniziativa da se stessi. Molto significativamente, viene immediatamente dopo l’ammonizione di Gesù a non invitare coloro di cui si può star certi che ricambieranno l’ospitalità (Luca 14,12-14). Ciò che va demolito è un intero modello di calcolo del valore umano in un sistema di qualsiasi scambio, secondo il quale varrebbe la pena prendere sul serio questa o quella persona a causa del loro status, dei vantaggi che offrono, della loro abilità a giocare il proprio ruolo nel particolare gioco che è in corso. Che cosa significa non avere il diritto di essere ascoltati, non avere accesso alla moneta corrente del mercato dominante? Significa essere senza parola, senza quei mezzi con i quali quelli che ti circondano addomesticano e organizzano il mondo. Il tuo linguaggio non conta: sia letteralmente, nel caso di soggetti il cui linguaggio non ha status legale, sia in senso più ampio, quando tutta la forma del linguaggio di chi è al potere ti ricorda costantemente che la tua prospettiva non è inclusa. Non puoi parlare in maniera tale da fare concretamente la differenza; la tua moneta viene respinta; niente di quel che dici “riuscirà bene”, persuaderà o avrà successo. Ecco perché Gesù in Luca 22,67 agli uomini del consiglio che chiedono di dire loro se sia il Messia, Gesù replica: “Se ve lo dico, non mi crederete, e se vi interrogo, non risponderete”. In altre parole: non ho niente da dirvi che siate in grado di udire o a cui siate in grado di rispondere. Il Gesù di Luca si mette dalla parte di quelli il cui linguaggio non può essere udito. Sorge allora una domanda: dov’è e che cos’è la “trascendenza” di Dio? Per Luca la trascendenza di Dio si rende in un certo senso presente in e con quelli che non hanno voce, in e con quelli che non hanno potere di influenzare il loro mondo, in e con quelli che si suppone abbiamo perso qualsiasi diritto possano avere avuto al mondo. Dio non è con loro perché siano naturalmente virtuosi, o perché siano dei martiri; è lì semplicemente nel fatto che vengono “lasciati fuori” quando il punteggio sociale e morale viene calcolato dai manager del comportamento morale o sociale. O, per dirla un po’ diversamente, Dio appare nel e attraverso il fatto che i nostri modi di sistemare il mondo lasciano sempre fuori dal conto l’interesse, il benessere o la realtà di qualcuno. Noi non sappiamo organizzare il nostro mondo in modo da lasciare a ciascuno uno spazio possibile. Siamo inevitabilmente costretti all’esclusione nel momento in cui cerchiamo di dare forma alla nostra vita morale e sociale. Allora, che cosa ci dice Luca mediante il modo con cui situa Dio accanto all’outsider? In un senso importante, non dice nulla riguardo a ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Se pensassimo che Dio debba essere trovato dentro e accanto all’outsider perché Dio approva di costui più di quanto approvi di un insider, ricadremmo proprio in quella mentalità che siamo esortati a dimenticare. La sostanza del messaggio di Luca è in un certo senso più semplice: Dio è nelle connessioni che noi non riusciamo a creare. La persona “lasciata fuori”, il cui posto io non posso garantire, che non è adatta, è la persona che mi richiama ai miei stessi limiti; e quando prendo atto del carattere incompleto del mio mondo di riferimento e della mia incomprensione, posso almeno vedere la serietà dell’interrogativo riguardo al destino di quelli a cui non si provvede. Se in un senso o nell’altro riconosco una rivendicazione di interesse per simili persone, seppure non abbia idea alcuna di come portarla a effetto, sono in qualche misura almeno nella direzione di percepire come Dio stia nelle connessioni che io non riesco a creare. Rendermi conto di avere “difficoltà di apprendimento”, che la mia modalità abituale di fare fronte non può fare fronte a questa esperienza, a questa persona, significa permettere che lo straniero continui a essere straniero, piuttosto che divenire un membro fallito del mio mondo o un parlatore incompetente del mio linguaggio. Allora imparare da quello straniero vuol dire permettere che il mio mondo venga ampliato in modi che vanno al di là dei miei piani e del mio controllo, appunto mediante il riconoscimento che lo straniero è davvero uno straniero. Circoscrivere l’altro nella mia cornice di riferimento è commettere uno sbaglio; rifiutare di ascoltare o di apprendere perché l’altro è “strano” vuol dire farne un altro. Lo straniero rappresenta il fatto che devo crescere, non necessariamente nella direzione di una identità simile alla sua, ma almeno in quella di un mondo in cui si possa avere di più la sensazione che si tratti di un mondo condiviso. Riconoscere l’altro senza l’impulso immediato di renderlo uguale, comporta il riconoscere l’incompletezza del mondo che io penso di poter gestire e l’andare verso quel mondo che potrei non essere in grado di gestire così bene, ma che ha maggiore profondità di realtà. Ed è facendo tali passi che si va più vicini a Dio (R; Williams, Il giudizio di Cristo, Qiqajon, Bose 2003, pp. 77-81, 87-88).

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