Il dono dell'ospitalità

L’ospitalita di Abramo, icona, inizio xv secolo, Museo Benaki, Atene
L’ospitalita di Abramo, icona, inizio xv secolo, Museo Benaki, Atene

Nella parabola del giudizio finale di Matteo, uno stesso stupore accomuna chi ha accolto il povero, l’affamato, il forestiero, e chi li ha respinti: “Signore … quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto?” (Mt 25,38). Il mistero dell’Altro che bussa alle nostre soglie rivela a ciascuno la benedizione che segretamente ci abita e non riconosciamo. Nell’accoglienza dell’altro è in gioco la nostra umanità. Lo straniero rivela chi noi siamo.

Il dono dell’ospitalità” è il titolo del 25° Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (Monastero di Bose, 6-9 settembre 2017), in cui cristiani d’oriente e occidente intendono interrogarsi insieme sulle radici spirituali dell’ospitalità cristiana, riascoltando il messaggio biblico e la millenaria tradizione ascetico spirituale dei padri monastici e dell’oriente cristiano.

Il convegno, che sarà aperto da Sua Santità Bartolomeo I, Patriarca ecumenico, con una prolusione che riflette su che cosa significa “Accogliere l’umanità in una terra abitabile”, si propone di esplorare vie possibili di conoscenza e riconciliazione tra fedi e culture, che sempre più spesso si sovrappongono senza incontrarsi, come primo passo per una cultura cristiana dell’accoglienza.

Le relazioni approfondiscono le radici bibliche dell’ospitalità, dove lo straniero appare come benedizione. “Il Signore apparve ad Abramo alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all'ingresso della tenda nell'ora più calda del giorno” (Gen 18,1-3). L’ospitalità di Abramo scaturisce paradossalmente da una prossimità che lo precede: il Signore stava “presso di lui” prima che Abramo gli uscisse incontro. La sua vocazione è già la vocazione dell’Esodo: esci dalla casa di tuo padre, dai vincoli della parentela e del passato, dalla patria e dalla terra – esci da te stesso per andare verso te stesso. In questa stranierità sta la benedizione della nascita di un figlio.

Nel Vangelo la figura dello straniero diventa rivelativa della presenza di Dio. “Tu solo sei così forestiero (paroikeîs) in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?” (Lc 24,18). Il passaggio del Risorto accanto ai discepoli sulla via di Emmaus, senza essere riconosciuto, alza un velo sul mistero di Cristo che entra nella storia degli uomini: egli è lo straniero che cammina accanto a noi, restando nascosto finché non è invitato a condividere la tavola e spezza il pane (cf. Lc 24,30-31). Alla sequela del Cristo, anche i cristiani sono chiamati a diventare stranieri capaci di ospitalità.

Non a caso la prima lettera di Pietro definisce i cristiani “stranieri e pellegrini” (1Pt 2,11), traducendo un’espressione del Levitico: “stranieri e ospiti” (Lv 25,23). I cristiani vivono nella compagnia degli uomini, ma sono incamminati verso una dimora futura, accogliente per l’intera umanità (cf. Fil 3,20); come scrive la Lettera a Diogneto (II sec.),“vivono nella loro patria, ma come forestieri … Ogni patria straniera è loro patria, e ogni patria è straniera” (Lettera a Diogneto V, 5). Le chiese nel tempo apostolico (i-ii sec.) hanno vissuto l’ospitalità reciproca come uno dei sacramenti della loro comunione; nell’ospitalità dell’altro, scrive Gregorio Magno, il Signore stesso si rivela: i discepoli di Emmaus “non amavano ancora Cristo come Dio, ma hanno amato un pellegrino, e così hanno amato Cristo” (Gregorio Magno, Quaranta omelie sui vangeli II, 23, i).

Nella tradizione monastica, prima di essere un’opera di misericordia, la pratica dell’ospitalità è la conseguenza dell’essere stranieri a somiglianza del Cristo, “colui che si è fatto straniero per noi scendendo dal cielo sulla terra” (Giovanni Sinaita, Scala III,30).

L’essere “stranieri” o la xeniteía (da xénos, “straniero”) diviene sinonimo del gesto inaugurale di ogni sequela: il “distacco” (aprospátheia) dal mondo, dai legami famigliari, la “rinuncia” (apotaghé) ai propri beni, il volontario esilio dalla propria terra, per vivere al servizio di Dio nel nascondimento, nell’umiltà e nell’attesa del definitivo incontro con Cristo. La xenitéia riemerge allora come philoxenía, ospitalità, accoglienza dell’altro, incontro accogliente di tradizioni diverse. Benedetto chiedeva di discernere la venuta del Signore nel forestiero che bussa alla porta. “Tutti gli ospiti siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: Sono stato ospite e mi avete accolto (Regola LIII 1).

L’uomo abita la terra come custode, ma anche come passante. Essere stranieri e pellegrini non significa contrapporre una parte dell’umanità – i residenti – all’altra ― i migranti ―, ma definisce l’essenziale vocazione umana: cercare un luogo da abitare e custodire insieme; ritrovare la familiarità, la fiducia, la comunione nelle relazioni. L’ospitalità gli uni degli altri, il movimento dall’estraniamento alla famigliarità, dalla distanza alla prossimità, traccia i contorni di un’ospitalità come dono, dato e ricevuto, che allarga i confini della nostra umanità.