Una speranza è possibile

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Lettera agli amici Qiqajon di Bose n. 72 - Pentecoste

In tempi difficili come quelli che stiamo vivendo abbiamo bisogno più che mai di parole che ci aiutino a guardare oltre. Non per fuggire un presente che va conosciuto e abitato fino in fondo, con responsabilità, ma per aprire sentieri di comprensione e di speranza, per ridare respiro soprattutto a chi più fatica a immaginare una via che gli impedisca di cedere alla disperazione.

Siamo ancora attanagliati da una pandemia che ci ha fatto misurare tutta la nostra fragilità e l’insensatezza dei nostri deliri di onnipotenza. L’abbiamo chiamata “pandemia” (di tutto il popolo) e non semplicemente “epidemia” (sul popolo), sottolineando così il suo potere senza confini e, insieme, la nostra vulnerabilità profonda e senza difese.

A questo si è aggiunta una guerra che continua a insanguinare la vecchia Europa. Un conflitto che ci scuote non perché più insensato di tante altre guerre dimenticate – pensiamo a quelle in Etiopia ed Eritrea, in Somalia, in Siria, nello Yemen, in Myanmar, in Nigeria, e la lista potrebbe continuare – e neppure perché particolarmente vicino a noi. La ragione della sua risonanza è nel fatto che essa mostra senza pudore alcuno l’inconsistenza di quella maturità che la moderna Europa presumeva di aver acquisito. Ci siamo illusi che bastasse dire “mai più la guerra” per chiudere definitivamente un’epoca, ma così non è! Il male che abita – insieme al bene – il cuore umano non manca di manifestarsi, e di continuare a mettere alla prova la nostra convinzione di essere, da noi stessi e in modo assoluto, capaci di bene. Una certezza tanto più fragile quanto più crediamo di esserne gli unici detentori.

Eppure Gesù era stato così chiaro con chi si pretendeva buono e pronto a esporre i frutti della propria rettitudine: “Nessuno è buono, se non Dio solo” Mc 10,18). Abbiamo tutti bisogno di conversione. Tutti, come singoli, come comunità, come chiese e società. Noi tutti come esseri umani chiamati a una bellezza e a una bontà che non appartengono a nessuno, neanche a chi pure le desidera con tutto se stesso. Quando smettiamo il cammino, illudendoci di essere giunti, ecco che inizia la distruzione. Le guerre, infatti, come ogni conflitto, che altro sono se non il segno di chi – singolo o comunità – ha perso il senso della prospettiva, di quell’oltre che supera ogni essere e ogni comunità, di quella piccolezza e di quella mancanza che minano alla base ogni illusione di onnipotenza?

Al tempo stesso, una guerra è anche, come ogni grave crisi, un momento di smascheramento, di tragica emersione della verità: fa uscire allo scoperto ciò che prima poteva essere camuffato sotto una patina di ipocrisia e di doppiezza. Governanti che si rivelano dittatori impietosi o demagoghi populisti, responsabili di chiese che si asserviscono al potere politico dimenticando non solo le esigenze dell’Evangelo ma anche l’umana pietà... Ma smascheramento anche di un sistema comunicativo che non mira a informare e a creare le basi per una conoscenza corretta della realtà, ma a ordinare un consenso per via di menzogna, censura, fabbricazione di falsi, opera capillare di disinformazione.

In questo i cristiani e le chiese hanno un ruolo particolare da svolgere, perché per essi quell’oltre cui guardare, e da cui imparare le parole da ricorda- re a se stessi e al mondo in cui sono chiamati a vivere, ha un volto e un nome. Invece assistiamo a parole disorientate e disorientanti. Anche qui abbiamo bisogno di conversione, di ritrovare la via e poi di farci compagni di strada della nostra umanità ferita, di non disertare un mondo che ci sembra così fragile e compromesso. Ecco dunque il nostro compito in questo momento cruciale, che

potremmo individuare come un duplice servizio di fraternità: convertirci ancora e trasformare il nostro sguardo; e poi partecipare da cristiani alle vicende del nostro mondo.

Innanzitutto trasformare lo sguardo, per vedere altrimenti una situazione che sembra dominata da parole che vanno passate al crogiolo dell’E- vangelo. In un’epoca in cui alla distruzione di un muro, quello di Berlino, che abbiamo accompagnato con grida festanti, è seguita la costruzione, avvolta da una quasi totale indifferenza, di tanti altri muri, a protezione di spazi identitari che fanno uso anche del nome cristiano, abbiamo bisogno di tornare all’Evangelo e a scritti, antichi e sempre nuovi, come l’A Diogneto. Testo misterioso e dalla sorte rocambolesca. Scomparso quasi subito, mai citato dai padri successivi, la cui ultima copia superstite fu riscoperta nel 1436 a Costantinopoli da un chierico latino al mercato del pesce dov’era impiegata come materiale da imballaggio. Testo che ci parla di un mondo che ancora oggi sembra utopico: di cristiani che non hanno patria, perché “ogni terra straniera è patria per loro e ogni patria è terra straniera”. Abbiamo bisogno di conversione per tornare a dire che nessuna terra è sacra, che nessun luogo è sacro, eccetto la carne dell’essere umano, l’unica realtà che, secondo il Nuovo Testamento, è tempio del Dio vivente. E che solo questa merita di essere difesa senza risparmio, perché chi salva un essere umano salva il mondo intero.

Questo mutamento di sguardo porta alla consapevolezza che laddove la dignità di un essere umano è offesa, il cristiano ha l’obbligo di fare tutto ciò che l’Evangelo gli ispira, per intervenire a sua difesa, esercitando una responsabilità che si fa cura e intercessione. La cura è atteggiamento che previene le sofferenze, è un modo di porsi costante, che si fa più attivo e percepibile quando il dolore sembra sovrastare una persona, una comunità, un paese: abbraccia ogni aspetto dell’esistenza umana nei tempi di crisi, così come nel “dopo” che, proprio grazie alla cura, può prendere avvio anche nelle situazioni più disperate. È un atteggiamento di cui le donne da sempre sono tra i testimoni più credibili, là dove la guerra trova gli uomini tra gli esponenti più risoluti, come sperimentiamo anche in questi tragici giorni. Siamo resi sempre più consapevoli che guerra e cura hanno entrambe bisogno di alcune doti: forza (altra cosa dalla violenza), perspicacia, coraggio, risolutezza, tenacia... Poi però si nutrono di alimenti ben diversi: la guerra necessita di nemici, frontiere e trincee, armi e munizioni, spie, inganni e menzogne, spietatezza e denaro... La cura invece si nutre d’altro: prossimità, solidarietà, compassione, umiltà, dignità, delicatezza, tatto, ascolto, autenticità, pazienza, perseveranza...

Per questo, nell’ora cupa che stiamo attraversando, tutti noi possiamo essere artefici essenziali di questo aver cura dell’altro, delle vittime della guerra e della violenza, del pianeta e di noi stessi con loro. Tutti, uomini e donne di ogni o di nessun credo, ciascuno per le sue capacità, competenze, principi ispiratori, forze fisiche e d’animo.

In questa lunghezza d’onda, la risposta cristiana al male diviene anche movimento di intercessione. Che può far sorridere o alzare le spalle a chi è estraneo alla fede cristiana, e portarlo perfino a pensare che la preghiera sia un rincorrere il male senza aver la forza di vincerlo, e dunque, alla fin fine, giustificarlo. Tuttavia, sempre guardando a Cristo, che “alla destra di Dio intercede per noi” (Rm 8,34), il cristiano non può non farsi intercessore, sa- pendo che l’intercessione manifesta la pienezza dell’essere del credente nella sua relazione con Dio e con gli umani, ed è il movimento che mostra l’unità fra responsabilità, impegno, solidarietà, giustizia e preghiera.

Intercedere non è semplicemente pregare per altri ricordando a Dio i bisogni e le necessità degli altri: infatti “Dio sa già di che cosa abbiamo bisogno” (cf. Mt 6,32). Inter-cedere è “fare un passo tra", è interporsi fra due parti, entrare in una compromissione attiva. L’intercessione, il pregare per e con chi vive il conflitto, porta colui che prega a disporsi a essere là dove il conflitto avviene, dove la morte è in agguato, dove la solidarietà con le vittime si fa tangibile. L’intercessione diviene un esporsi, un “metterci la faccia", un rischiare con la forza e il coraggio che vengono dalla fede.

Come non cogliere nell’appello firmato da diversi preti e diaconi della Chiesa ortodossa russa un passo fatto da uomini di fede che intercedono tra le parti in conflitto? Così scrivevano con parresia, fin dai primi giorni di guerra, nel loro appello per la riconciliazione e la fine della guerra:

“Vi ricordiamo che la vita di ogni persona è un dono di Dio inestimabile e unico, e pertanto auguriamo il ritorno di tutti i soldati – sia russi che ucraini – alle loro case e alle loro famiglie sani e salvi. Pensiamo amaramente all’abisso che i nostri figli e nipoti in Russia e Ucraina dovranno superare per ricominciare a essere amici, rispettarsi e amarsi. Rispettiamo la libertà dell’uomo data da Dio e crediamo che il popolo ucraino dovrebbe fare la sua scelta da solo, non sotto la minaccia delle armi, senza pressioni da parte dell’Occidente o dell’Oriente... Nessun appello non violento alla pace e alla fine della guerra dovrebbe essere represso con la forza e considerato una violazione della legge, poiché tale è il comandamento divino: “Beati gli operatori di pace". Invitiamo tutte le parti in guerra al dialogo, perché non c’è altra alternativa alla violenza. Solo la capacità di ascoltare l’altro può dare speranza per una via d’uscita dall’abisso in cui i nostri paesi sono stati gettati in pochi giorni”.

L’intercessione nasce dalla convinzione che Gesù ha infuso nei credenti dicendo loro: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto" (Lc 11,9). Parole che sembrano smentite dall’esperienza perché noi chiediamo e non otteniamo, cerchiamo e non troviamo. In realtà quelle parole rivelano chi è colui che prega: uno che cerca, uno che chiede, uno che bussa. E che non smette di cercare, di chiedere, di bussare.

Le vie della trasformazione dello sguardo e della responsabilità che si fa cura e intercessione possono essere allora strumenti efficaci, concreti, per esercitare il ministero della speranza. Il faticoso servizio della speranza, che non si riduce a facile ottimismo.

La speranza autentica, infatti, affonda le sue radici in un senso che richiede di essere costantemente ricompreso, in una Parola che ci è stata affidata agli inizi del nostro cammino ma che abbiamo bisogno di riascoltare, soprattutto in momenti critici come questo. E poi necessita di cammini insieme agli altri e alla presenza dell’Altro.

Di questo desiderio di conversione e rinnovamento dello sguardo e di questa rinnovata fedeltà agli uomini e donne del nostro tempo, con le loro gioie e le loro fatiche, vorremmo essere testimoni insieme a voi al cuore della storia.

I fratelli e le sorelle di Bose
Bose, 5 giugno 2022 Pentecoste


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