Ho sentito battere il cuore del mondo

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Il 4 settembre è tornato nel seno del Padre il cardinale Roger Etchegaray (1922 -2019).

La comunità coltivava con lui un’amicizia fedele e tenace da oltre venticinque anni… da quando, con la sua simpatia unica, si presentò una volta sulla porta del monastero, i giorni dopo Natale, con una bottiglia “magnum” di Champagne, chiedendo se poteva festeggiare con noi il giorno del suo onomastico, san Roger (30 dicembre)! Questo dice un tratto caratteristico della sua personalità, fine, arguta e longanime: l’amore per la vita e per le cose più semplici che rallegrano il cuore dell’uomo, un intuito fulminante per penetrare questo cuore e trasformarlo da cuore di pietra a cuore di carne, con un sorriso, una parola, un grano di sale, una strizzata d’occhio, un invito ad andare oltre e più in alto. “Ho sentito battere il cuore del mondo”, diceva, ma questo a partire dal cuore di chi gli stava accanto, di colui al quale si faceva prossimo: “Quest’uomo, questo prossimo, deve essere amato per se stesso: egli non è una semplice ripetizione dell’amore di Dio. È più che amare Dio nel prossimo, è amare l’uomo «in se stesso», l’uomo tout court, trovando nell’amore di Dio per l’uomo il fondamento e il modello”.

Da allora i contatti si sono moltiplicati fino a pochi giorni fa, con visite reciproche, anche in occasione dei convegni ecumenici internazionali, telefonate, corrispondenza, messaggi, biglietti.

Dotato di una sapienza umana e di una fiducia ardente e passionale nella vita, nelle forze di resurrezione che la abitano e che conducono a vedere la sua verità molto più nel futuro che nel passato, aveva un senso contagioso delle relazioni (“l’uomo solo è in cattivissima compagnia!”) e della loro virtù di rinnovare sorprendentemente la storia, diventando speranza, ottimismo, fiducia… a partire dal dato marginale, da ciò che è piccolo e apparentemente trascurabile. Non esente, umanissimamente, da malinconie e momenti di tristezza, sapeva superarle con una sovrabbondante umanità, una fede semplice forte e personale nel Signore Gesù e uno spossesso di sé che lo portava a un’autentica povertà di cuore, quell’innocenza mista a stupore che sprigionava dai suoi occhi blu, più efficace di ogni dimostrazione di forza.

Anche nei giorni del suo ultimo ritiro nella casa per anziani di Cambo-les-Bains in Francia, s’interessava della comunità, riconosceva la voce di chi di noi gli rispondeva al telefono, enumerava a memoria i nomi dei fratelli e delle sorelle e diceva che aveva intenzione di tornare presto a trovarci… ma questo non era che un aspetto della sua capacità di amare, personalmente, non genericamente. “Per dare a questo amore tutto il suo peso divino, gli evangelisti avevano inventato e lanciato sul mercato il termine carità, oggi screditato. Dobbiamo riabilitarlo, cancellando tutte le sue caricature e contraffazioni. Carità: passatempo per oziosi o calcolo appena velato di proselitismo. Carità: semplice soccorso senza la preoccupazione di risalire alle cause. Carità: attestato per avere la coscienza a posto, per coloro che si fanno complici delle ingiustizie sociali, e che trasforma gli uni in benefattori, e gli altri in assistiti. In una società in cui tutto si burocratizza, secondo le parole di Emmanuele Mounier, l’uomo «ha bisogno di provare l’amore a bruciapelo», la carità ne acuisce lo sguardo e permette di individuare angoli fino a quel momento sconosciuti, di dissodare spazi che essa consegna poi alla giustizia di cui amplia senza sosta il campo. La carità resta sempre al cuore delle lotte per la giustizia, poiché andando oltre il freddo equilibrio dei diritti attinge nell’amore di Dio forze creatrici illimitate per amare gli altri al di là di ogni giustizia. Condividere per amore conduce più lontano nella condivisione che condividere per giustizia. Il lebbroso ha «diritto» che la società lo curi, non ha «diritto» al bacio di Francesco d’Assisi – ma ne ha bisogno per essere colmo di gioia!”.

Infine vogliamo ricordare un suo dono peculiare e raro: la gioia di esistere: “La gioia di esistere? È prendere a piene mani la terra che calpesto. È sentire l’odore dell’argilla con cui sono impastato. È scoprire in me tutti questi tratti rozzi dell’uomo primitivo. È ascoltare il respiro di tutto il mio essere, anima e corpo. È gustare il sapore del sale che rende sapida la mia vita. È essere un buon pagano, cioè un contadino credente che vive in armonia e anche in complicità con tutta la creazione. La gioia di esistere? È ritrovare la memoria più remota, quella delle mie origini, è bere alla sorgente della mia vita. È non abbandonarmi alla coscienza vertiginosa del mio nulla, ma alla coscienza esaltante di guizzare fra le mani di Dio. È scoprire le impronte digitali del Vasaio su quel vaso fragile che sono io. È portare la bruciatura del ferro incandescente con cui il Pastore ha segnato il mio vello. È fiutare la freschezza, la novità perpetua del mio essere, che lo spirito creatore mi soffia in ogni istante. È avere un nome unico per Dio che mi fa esistere nominandomi e che ha voluto darsi un nome per me, un nome che stilla tenerezza e misericordia… È camminare con il Cristo Pasquale, che è divenuto un vero “cittadino” della terra dopo essere disceso fin nelle sue viscere (Mt 12, 40). È integrare la morte nel massiccio della mia esistenza e incamminarmi verso di essa nella più appassionante ma più solitaria delle mie scalate”.

Ora che lui, al di là della morte è entrato in questa gioia per sempre, lo preghiamo di continuare a benedire tutti, perché sia possibile “avanzare come un asino” (come amava dire!), confidando nel Signore che fa nuove tutte le cose.

“Alla sera della vita sento ancora battere il cuore dell’uomo. E il cuore di Dio. Poiché sono una cosa sola.”