Radicalità di comunione

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Fratelli, sorelle,

dice la nostra Regola:

La vita comune significa radicalità di comunione nei beni spirituali, in quelli materiali, nella vita, nelle attività, nelle speranze, affinché tu sia veramente un segno di amore fraterno” (RBo 12).

La nostra Regola chiede radicalità per ciò che riguarda il celibato, la preghiera e la vita comune. Il celibato: “Tu devi vivere in una purezza radicale e nella solitudine del celibato” (RBo 18); la preghiera: “Per ogni cristiano la preghiera è un dovere essenziale, ma per te è radicale” (RBo 35); la comunione: “La vita di comunione è essenziale per i cristiani. Senza comunione non c’è chiesa. Ma anche questa esigenza per te diventa radicale” (RBo 12). Tutto questo è per specificare e dare concretezza a quel vivere radicalmente l’evangelo che è il fine per cui uno entra in comunità, come dice ancora la Regola (RBo 3).

Ma che significa radicalità? Radicalità indica ciò che ha a che fare con le radici, con l’essenza intima di una realtà, con la sua verità costitutiva e irrinunciabile, fuori dalla quale tale realtà smentisce se stessa. In questo caso parliamo di quella realtà che è la vita comune monastica. Non si dà vita comune senza comunione, e dunque senza ricerca di comunione. E questa comunione, che è richiesta a ogni battezzato, è ben specificata nella nostra Regola per noi che facciamo vita monastica, come radicalità di comunione anzitutto nei beni spirituali e nei beni materiali. Questo significa due dimensioni: partecipazione e condivisione. I beni spirituali: dunque la partecipazione alle preghiere e alla frazione del pane, come direbbe At 2,42, cioè partecipare all’eucaristia comune e alle liturgie, là dove ognuno di noi si nutre e da cui attinge la forza per vivere ciò che nella realtà ancora fatica a praticare.

Ma poi radicalità di comunione è condivisione dei beni materiali, di ciò che uno ritiene “suo”, dei proventi del proprio lavoro. Questo è scandalo per il mondo ma è chiesto dal vangelo e dalla vita comune monastica. Sappiamo bene che il termine koinonía indica nel NT spesso la colletta, la messa in comune dei beni, dei soldi, dei possedimenti. Il perseverare in questo atteggiamento è richiesto da At 2,42 come nota costitutiva della Chiesa: “I credenti erano perseveranti nella comunione … stavano insieme e avevano ogni cosa in comune …, tutto era fra loro comune” (At 2,42.44; 4,32). Sì, si tratta di perseverare, di rimanere in questo atteggiamento nei confronti dei beni, perché il passare del tempo e l’avanzare nell’età può portarci a edulcorare questa esigenza fino a farla svaporare, svanire. La paura per sé, per la propria salute, la preoccupazione per il proprio domani, l’incertezza del futuro portano ad accumulare, a tenere per sé.

Questa radicalità dunque, che riguarda la vita comune, riguarda poi anche il celibato, ovvero le due dimensioni costitutive di una vita monastica. E la “purezza radicale” di cui parla la Regola a proposito del celibato concerne in radice, appunto, la non doppiezza, la non menzogna, il non ingannare, ovvero quell’impurità che, anche biblicamente, è non integrità, divisione, “avere un cuore e un cuore” (Sal 12,3). Questa radicalità è dunque una meta cui tendere, non uno stato in si è installati. Guai a noi se pensassimo che la vita monastica in quanto tale ci garantisse della radicalità cristiana o di essere più radicali di chi vive altri stati di vita!

Così dunque, con questi riferimenti alla radicalità nella vita comune, nei beni materiali e spirituali, si concretizza il vivere radicalmente l’evangelo (RBo 3). La radicalità di comunione viene poi specificata “nella vita, nelle attività, nelle speranze”. Si tratta di partecipare, fondati sull’unica fonte che muove ciascuno di noi, l’amore di Dio (RBo 13), agli atti comuni della comunità, ai movimenti e ai gesti in cui si esprime il corpo comunitario, quel corpo che va al di là di ciascuno di noi ma di cui ciascuno di noi è pienamente parte e contribuisce attivamente a formarlo. Salvo invece menomarlo con la propria diserzione, con il proprio sottrarsi a tale partecipazione e condivisione, facendo riserva di sé, ovvero mettendo il proprio io, il proprio interesse, il proprio tornaconto, il proprio particulare, davanti a tutto il resto.

Radicalità di comunione “nella vita” è poi essenzialmente ricerca di comunione con l’altro all’interno delle relazioni fraterne. Perché appunto siano fraterne. Allora, dice la Regola, si sarà “segno di amore fraterno”. Questo amore è da leggersi non tanto con una griglia affettiva o psicologica, ma effettiva, pratica, obbedienziale. Sempre all’interno della grande carità che deve animare il nostro quotidiano.

Perciò, fratelli e sorelle, siamo sobri e vigilanti, perché il nostro Avversario, il Divisore, come leone ruggente, si aggira cercando una preda da divorare. Resistiamogli saldi nella fede perseguendo la radicalità di comunione nella nostra vita comune fraterna. E tu, Signore, abbi pietà di noi.

fratel Luciano