Prendere sul serio le domande sul senso della vita

La fede è chiamata a declinarsi come cammino del senso della vita, cioè a prendere sul serio, ma anche suscitare, tenere desta e orientare la domanda sul senso della vita in tutte le sue valenze: significato, direzione, gusto. La sete di senso che abita il cuore dell’uomo non potrà mai essere saziata da un senso imposto dall’esterno o dall’alto. Gli uomini vorrebbero vedere e incontrare dei testimoni del senso, e questo nel momento stesso in cui si mostrano assolutamente allergici a discorsi d’autorità che vorrebbero imporre decaloghi che dicono all’uomo ciò che è bene e ciò che è male, che gli dicono quel che deve o non deve fare. Chi oggi ha autorevolezza è colui che testimonia di un senso possibile perché lui stesso l’incarna. I testimoni del senso sono persone che nella loro stessa vita, nelle loro relazioni, danno realtà al senso della vita che hanno scoperto e a cui si sono asserviti ...
Occorre ricreare oggi una grammatica dell’umano che consenta l’accoglienza della parola di Dio e lo svilupparsi del dono della fede: questo sarebbe veramente un servizio, da farsi dialogicamente con chi attua una lotta anti-idolatrica , anche per altri, i non credenti. Declinare la fede come cammino del senso significa credere e testimoniare che Cristo può orientare il senso della vita e che la sua umanità può umanizzare la nostra ...


Prendere dunque sul serio oggi, nell’opera di trasmissione della fede, le domande umane e la domanda basilare sul senso, non solo non è estraneo al cristianesimo, ma è in linea di continuità con la logica dell’incarnazione. I discepoli hanno dato un senso radicale alla loro vita dopo aver visto l’umanità di Gesù, dopo aver ascoltato le sue umane parole, dopo essere stati testimoni dell’umanità del suo agire, dei gesti di guarigione e compassione con cui egli esprimeva la sua cura dell’umano menomato, e dopo averlo riconosciuto come risorto a partire dai gesti umanissimi con cui egli si è presentato loro: chiama per nome Maria (Giovanni 20,11-18), spezza il pane nel gesto quotidiano della condivisione della tavola (Luca 24,13-35), mangia e parla insieme con loro (Luca 24,36-49)... È dopo aver visto la sua umanità che essi hanno saputo riconoscere e confessare la divinità e ri-orientare la loro stessa esistenza. Questo discorso sul senso non vuole affatto dire che la chiesa ne sia la depositaria o ne abbia il monopolio, anzi! La fede non è una corazza fatta di certezze, non è un sistema di sicurezze e neppure una bacchetta magica: “Il credente esercita la sua fede sull’oceano del nulla, della tentazione e del dubbio: questo oceano dell’incertezza è il solo luogo in cui egli possa esercitare la fede” (Joseph Ratzinger).


La fede è, costitutivamente, anche rischio. Quando parlo della fede come cammino del senso intendo dire che la fede si apre alle dimensioni umanissime del senso stesso e cerca di illuminarlo col suo riferimento fondante e basilare a Gesù Cristo. Dicendo senso intendo significato, cioè ricerca dei motivi, del “perché” delle cose, che porta a comprendere il reale; ma senso dice anche orientamento, direzione, cioè ricerca del come camminare e del fine verso cui dirigersi; implica dunque il livello dell’etica (“come?), ma anche del destino della vita, dell’orientamento dell’intera esistenza, dei fini ultimi; infine senso ha a che fare con il gusto, dunque con i sensi e rinvia alla dimensione estetica, della bellezza, essenziale per far respirare l’uomo a piani polmoni e umanizzando pienamente. Ecco, la fede assume queste domande (“perché?”, “come?”, “verso dove?”) e in Gesù Cristo le orienta: egli infatti è “via, verità e vita” (Giovanni 14,6) (Luciano Manicardi, {link_prodotto:id=610}, Qiqajon , Bose 2005, pp. 18-21).

La fede come adesione al Signore

Gesù di Nazareth che ci ha raccontato e spiegato Dio, prima di lasciarci ha iniziato il suo ultimo discorso con queste parole: “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Giovanni 14,1). Ma cosa significa aver fede, credere? Nella Bibbia queste espressioni hanno un significato molto più ambiguo e polivalente di quello che hanno nel nostro linguaggio usuale; e tuttavia non indicano mai un atteggiamento umano di conoscenza intellettuale nei confronti di Dio, quanto piuttosto la realtà che lega l’uomo a Dio nel rapporto di alleanza, di conoscenza attiva e penetrante.
Nell’Antico Testamento le due radici fondamentali per esprimere la fede, il credere, sono aman e batakh, indicanti la prima “attaccamento”, “adesione”, “unione”, “inerenza”, “legame”, la seconda il “fare affidamento”, l’“aver fiducia”, il “mettere il piede sul sicuro”, il “trovare fondamento”. Se il primo termine ha un valore statico (tipico il derivato “Amen” che significa: “È così! È solido, dunque è vero”), il secondo è più dinamico.


Un bambino attaccato con una fascia aman al seno di sua madre (cf. Isaia 60,4) non è in una condizione indifferente; egli ha fiducia batakh, si sente sicuro (cf. Salmo 131,2) in quella condizione. La fede è dunque un’adesione al Dio dell’amen (Isaia 65,16), un mettere la fiducia solo in lui rimanendo saldi: non un’idea, non un fatto intellettuale, ma una realtà che coinvolge tutto l’uomo.
La fede non è pensare che... credere che... Dio esiste, ma aderire al “Signore tuo Dio”: il credo dell’ebreo in una delle più antiche confessioni di fede (cf. Deuteronomio 26,3-10) è la decisione di mettersi in alleanza con quel Dio che ha agito e sta ancora operando per il credente, per il suo popolo.
Un testo fondamentale dice: “Se voi non credete, non avrete stabilità” (Isaia 7,9), ma va compreso e tradotto: “Se voi non aderite a me, non avrete stabilità”. Ecco la fede: legame con Dio, attaccamento, adesione a lui (Enzo Bianchi, il radicalismo cristiano. Seguire Gesù il Signore, Gribaudi, Torino 1989, pp. 27-28).

Fede come fiducia

Normalmente noi utilizziamo i termini “credente” e “non credente” per indicare due gruppi sociali ben definiti: ovunque incontriamo credenti e non credenti; la maggior parte della gente è in grado di dire senza esitare a quale gruppo appartenga. È un po’ come una professione o una nazionalità o uno stato civile; potremmo quasi indicarlo sulla carta d’identità o sulla denuncia dei redditi, come del resto già avviene in alcuni paesi ... Quando parliamo della fede, pensiamo spontaneamente alle verità della fede. Una simile associazione orienta il concetto della fede in una direzione intellettualistica e in parte già lo blocca. Chi parla di verità della fede pensa immediatamente a un manuale di teologia o di catechesi, in cui la parola di Dio è esposta in maniera didattica. Una simile espressione didattica della fede ha ovviamente molta importanza, ed è bene che sia oggetto di estrema cura; ma è altrettanto importante che l’accento venga posto sulla differenza fondamentale tra la fede e un manuale, pur realizzato in modo esemplare. Posso benissimo sapere molto a proposito della fede, e anche condividere molto questa conoscenza con altri, senza mai compiere il passo decisivo della fede, che implica sempre un abbandono esistenziale a Gesù ...


In ebraico, il termine “fede” (emûnah) deriva da emeth, “fedele”, che è uno degli attributi maggiori di Dio. Dio è misericordioso e fedele (cf. Genesi 24,27); potremmo anche tradurre: “tenerezza e saldezza”. Emeth infatti suggerisce l’idea della roccia sulla quale ci si può appoggiare e si può edificare. Dio non viene meno: potremo sempre contare su di lui. Credere significa appoggiarsi su questa saldezza di Dio. Anche “Amen” deriva dalla stessa radice: dire “Amen” significa credere al massimo grado, acconsentire alla saldezza di Dio come questa si impone a noi nella sua Parola o nella persona di Gesù ...
La nostra fede è un movimento verso Dio, una fede che ci scuote e ci trascina, una fede che è esodo da se stessi e immissione in Dio: tale era la fede del centurione. Così ogni giorno posso aggrapparmi alle parole di Gesù che salva e chiedergli: “Di’ soltanto una parola e io sarò guarito”. Una fede simile costituisce uno sconvolgimento radicale: l’uomo è invitato a uscire da se stesso, impara a dimenticarsi e ad abbandonarsi per lasciarsi raggiungere dalla Parola viva e onnipotente di Dio, con tutte le conseguenze che ciò comporta ...


La fede ci apre alla potenza di Dio: siamo liberati nel nostro intimo e il nostro cuore è salvato. È come se Dio aprisse un chiavistello nel nostro io profondo e spalancasse una porta attraverso la quale può farsi breccia per inondarci come un torrente e trascinarci nell’amore e nell’Onnipotenza che ci fa rivivere, similmente a quanto è accaduto il mattino di Pasqua, quando Gesù è resuscitato dai morti in virtù dell’onnipotenza della gloria del Padre. La fede è questo evento sorprendente che si impadronisce non solo della nostra intelligenza, ma di tutto il nostro essere. Ne usciamo rimpiccioliti e, per così dire, come sperduti. Piccoli nei confronti di noi stessi, degli altri e di Dio, eppure mai schiacciati, anzi, liberati ad opera di questa illimitata fiducia in lui “che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare” (Efesini 3,20), e sempre disponibili per i miracoli che il Signore continuerà a compiere attraverso la nostra fede (André Louf, {link_prodotto:id=307}, Qiqajon, Bose 1990, pp. 33-34.38-39.42).