La paternità spirituale: elementi biblici

XVI Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
LA PATERNITÀ SPIRITUALE NELLA TRADIZIONE ORTODOSSA
Bose, 18-21 settembre 2008
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

Enzo Bianchi, priore di BoseLA PATERNITÀ SPIRITUALE: ELEMENTI BIBLICI

ENZO BIANCHI

 

 

 


Ascolta la relazione:

Bose, 18 settembre 2008
 
Introduzione

Il tema della paternità spirituale, così caro alla tradizione monastica d’oriente e d’occidente, non è trattato esplicitamente nelle Sante Scritture. E tuttavia è vero che ben presto quanti in ambito cristiano e anche giudaico hanno praticato questo ministero hanno fatto ricorso ad alcuni personaggi biblici ritenuti precursori ed exempla della paternità spirituale. In proposito mi limito a citare due testi contenuti nella Filocalia, che si colloca alla foce di questa lunga tradizione:

Non vi è altra via sicura di salvezza che quella di manifestare i propri pensieri ai padri e di ricevere da essi la regola della virtù piuttosto che seguire il proprio giudizio … La verità di questo ci è possibile apprenderla da molti passi delle Scritture ispirate, in particolare dalla storia del santo Samuele. Egli, chiamato da Dio una e due volte, corse dall’anziano Eli e si lasciò formare dal suo insegnamento, per sapere come rispondere a Dio.
(Cassiano il Romano, A Leonzio igumeno)

Il Signore ha detto: «Se uno non rinasce dall’alto, non può entrare nel regno dei cieli» (cf. Gv 3,3). Ma questa nascita si attua grazie alla sottomissione ai padri spirituali … Così i dodici sono nati da Cristo e i settanta sono nati dai dodici e sono divenuti figli di Dio Padre, come aveva detto il Signore: «Voi siete figli del Padre mio che è nei cieli» (cf. Mt 5,45). E Paolo ugualmente dice: «Anche se aveste mille maestri, non avete però molti padri; io vi ho generato, divenite miei imitatori» (cf. 1Cor 4,15; 11,1).
(Niceta Stethatos, Capitoli naturali 53)

Prendendo spunti da questi e altri passi che si potrebbero citare, il mio intento sarà quello di ripercorrere le più significative figure di «padri spirituali» ante litteram presenti nella Bibbia, analizzando volta per volta le caratteristiche salienti del rapporto con i loro «figli»: sono infatti convinto che tali elementi possano ispirare la prassi di paternità spirituale di ogni tempo.

1. La paternità spirituale nell’Antico Testamento

Il primo esempio biblico di un uso figurato dell’appellativo «padre» è attestato a proposito di Giuseppe, definito «padre (‘av) per il faraone», cioè, come si specifica subito dopo, «signore su tutta la sua casa e governatore di tutto il paese d’Egitto» (Gen 45,8). La sua saggezza e la sua intelligenza nell’interpretare i sogni fanno di Giuseppe, benché molto giovane, una guida per il re, che si rivolge a lui riconoscendolo abitato dallo Spirito di Dio (cf. Gen 41,38).
Ma il primo rapporto tra padre e figlio spirituale, anche se i termini non appaiono esplicitamente, è quello tra Mosè e Giosuè. Giosuè figlio di Nun viene presentato come «il giovane servo di Mosè, che non si allontanava mai dalla tenda dell’incontro» (cf. Es 33,11). Quale segno di una nuova nascita Mosè gli cambia il nome, da Osea a Giosuè appunto (cf. Nm 13,16). E come lo aveva portato con sé sul Sinai al momento di entrare nell’intimità con il Signore (cf. Es 24,13), così lo eleggerà quale suo successore nella missione di guida di Israele: su Giosuè infatti – dice la Scrittura – riposa lo Spirito e Mosè per ordine di Dio gli impone le mani, facendolo partecipare della sua autorità, affinché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore (cf. Nm 27,15-20).

In questo rapporto tra Mosè e Giosuè sono già presenti in nuce gli elementi fondamentali di una relazione di paternità spirituale: Mosè trasmette a Giosuè gli ordini di Dio, rendendolo intrepido e coraggioso (cf. Dt 3,21-28); gli assicura che il Signore camminerà davanti a lui, non lo lascerà e non lo abbandonerà (cf. Dt 31,8); e al termine della Torah si legge: «Giosuè era pieno dello spirito di sapienza, perché Mosè aveva imposto le mani su di lui; i figli di Israele gli obbedirono e fecero quello che il Signore aveva comandato a Mosè» (Dt 34,9). Ascoltando Giosuè ormai si ascolta Mosè: ecco la trasmissione, l’autentica traditio da padre a figlio, che ispirerà il celebre assunto con cui si aprono i Pirqè Avot: «Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti, e i profeti la trasmisero agli uomini della grande assemblea» (Mishna Avot 1,1)…

All’interno di questa relazione mi pare significativo notare anche la presenza di quella che potremmo chiamare correzione paterna. Giosuè è stizzito per l’estensione del carisma spirituale-profetico a Eldad e Medad, che profetizzano nell’accampamento senza essersi recati all’assemblea comune nella tenda, ma Mosè gli risponde risolutamente: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo Spirito!» (Nm 11,29). Questa divergenza mostra con chiarezza che in una relazione di accompagnamento spirituale il padre ha il grave dovere di correggere il figlio, mostrandogli la centralità della volontà di Dio: egli deve farsi tramite di quell’amore di Dio per tutti gli uomini che travalica ogni chiusura frutto di un cattivo zelo, sovente rinfocolato dagli entusiasmi giovanili…
Se con Mosè e Giosuè si ha il prototipo della relazione maestro-discepolo, tale relazione si fa manifesta nel caso di Eli e Samuele. Eli, sacerdote a Silo, è testimone della preghiera bisbigliata tra le lacrime da parte di Anna, una donna sterile salita al santuario per chiedere un figlio. Costui non sembra molto dotato del carisma del discernimento, se è vero che interpreta il movimento delle labbra di Anna come dovuto a uno stato di ubriachezza; tuttavia, dopo averla ascoltata, nella sua funzione istituzionale le impartisce la benedizione (cf. 1Sam 1,9-18). In seguito, al compimento della preghiera di Anna, Eli accoglie Samuele appena svezzato quale «ceduto al Signore per tutti i giorni della sua vita» (1Sam 1,27) e lo tiene accanto a sé, istruendolo e facendolo crescere.

I figli carnali di Eli sono degeneri e invano l’anziano sacerdote li ammonisce, senza riuscire a distoglierli dai loro peccati contro il Signore. Tuttavia nella sua sventura è consolato da un altro figlio, il giovane Samuele, che «continuava a servire il Signore sotto la sua guida» (1Sam 3,1). Siamo in un tempo in cui, annota il narratore, «la parola del Signore è rara» (ibid.); ovvero, Dio continua sempre a donare con premura la sua Parola, ma gli uomini sono duri di cuore, non vogliono accoglierla e obbedirle con la loro vita. La pagina che si apre a questo punto è assai nota. Mentre Samuele dorme presso l’arca del Signore, per tre volte si sente chiamare per nome, e ogni volta si alza e va dal sacerdote Eli, pensando che sia stato lui a chiamarlo. Solo alla terza volta Eli comprende e gli dice: «Se ti si chiamerà ancora, dirai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”» (1Sam 3,9). È un’affermazione straordinaria che riassume in sé mirabilmente il movimento della preghiera e, più in generale, della nostra relazione con Dio quale ci viene rivelata nelle Scritture: l’ascolto è già preghiera e ha un primato assoluto in quanto riconosce l’iniziativa di Dio, il fatto che la nostra vita non sia che una risposta costante alla sua chiamata sempre preveniente.

Eli, «pur se fa fatica perché evidentemente non ha mai fatto l’esperienza personale di Dio» (Carlo Maria Martini), tuttavia nella sua povertà compie l’essenziale: si fa mediatore della parola di Dio per Samuele e lo aiuta a discernerla. Sì, l’importante è che il padre spirituale assuma la propria debolezza e ne sia cosciente; se è disposto a fare questo e a mettersi con fedeltà al servizio del Signore e del discepolo, anche attraverso la sua pochezza il Signore farà passare la sua voce. Di più, Eli si sottometterà pure alla dura parola di giudizio pronunciata da Dio sulla sua famiglia per bocca di Samuele (cf. 1Sam 3,11-14.18), umiliandosi fino a farsi discepolo di colui che aveva definito «figlio mio» (benì: 1Sam 3,6.16). «Samuele acquistò autorità poiché il Signore era con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole» (1Sam 3,19): così si conclude il brano, attestando la qualità profetica di Samuele (cf. 1Sam 3,20). Certo, è il Signore ad averlo costituito profeta, ma a Eli va il grande merito di aver compiuto ciò che più tardi Palamone esprimerà così al giovane Pacomio: «Sarò pronto nei limiti della mia debolezza a soffrire con te finché tu conosca te stesso» (Vita bohairica di Pacomio 10).

L’ultimo esempio veterotestamentario che vorrei analizzare è costituito dalla relazione di paternità spirituale di Elia nei confronti di Eliseo. Nello sviluppo della profezia in Israele il Signore suscita con il suo Spirito delle forme di paternità diverse da quelle «istituzionali», come potevano essere quella di Eli o dei giudici: il capo di una corporazione profetica, che ne era allo stesso tempo il padre «spirituale», veniva chiamato ‘av, padre, nella consapevolezza che il vero padre non è colui che genera fisicamente, ma colui che educa e istruisce il discepolo sulle vie del Signore (cf. Esodo rabbah 46,5).
Elia il tisbita, «uomo di Dio» (2Re 1,9), subito dopo l’incontro con il Signore sul monte Oreb (cf. 1Re 19,9-18) chiama Eliseo alla sua sequela, gettandogli sulle spalle il mantello, segno della sua qualità profetica, mentre questi sta arando un campo. Il suo è un gesto subitaneo e istituisce l’unico esempio esplicito di sequela di un uomo a un altro uomo attestato nell’Antico Testamento. Il testo è estremamente scarno, a testimonianza del fatto che è la parola di Dio, sovrana e pienamente efficace, a suscitare la chiamata e a sostenere la risposta. Eliseo, congedatosi dalla famiglia e dal lavoro, «si alza e segue Elia, entrando al suo servizio» (cf. 1Re 19,21), «versandogli l’acqua sulle mani» (cf. 2Re 3,11), cioè condividendo con lui l’intimità di una vita comune. Quest’ultima annotazione conosce un commento significativo nella tradizione rabbinica:

R. Jochanan disse a nome di r. Shimon ben Jochaj: «È più importante la pratica della Torah che non il suo studio teorico, secondo quanto fu detto: “Eliseo, figlio di Safat, versò acqua sulle mani di Elia” (2Re 3,11). Non si dice: “Studiò”, ma “Versò”; da qui risulta che la pratica è più importante dello studio teorico». (Talmud babilonese Berakot 7b)

In altri termini, come diranno a più riprese i padri del deserto, è la condivisione quotidiana dell’esistenza la fonte più sicura di insegnamento per il discepolo; spesso si impara più da un’attenta osservazione dei gesti del padre che non da tante parole, perché la sua stessa vita è messaggio: «Abba, a me basta vederti!»… Anche per questo – credo – dopo il racconto della vocazione di Eliseo non ci è narrato nulla di preciso a proposito del servizio prestato dal discepolo presso il grande profeta.

La loro vicenda trova però un compendio paradigmatico al momento del congedo, quando Elia è rapito da Dio in cielo in un carro di fuoco (cf. 2Re 2,1-18). In quel frangente Eliseo grida rivolto a Elia: «Padre mio, padre mio, carro di Israele e sua cavalleria!» (2Re 2,12) e, per averne contemplato l’ascensione, riceve in cambio una doppia parte dello spirito del profeta: questa era infatti la parte che spettava al figlio primogenito nella divisione dell’eredità paterna (cf. Dt 21,17). Il passaggio di consegne tra Elia ed Eliseo è nuovamente significato dal mantello raccolto da quest’ultimo, pegno della continuità del ministero carismatico e dell’identità della funzione (cf. 2Re 1,8; 2,13). Così Eliseo da figlio diventa padre spirituale per tutto Israele, che attraverso il re Ioas gli rivolgerà lo stesso titolo da lui riservato a Elia: «Padre mio, padre mio, carro di Israele e sua cavalleria!» (2Re 13,14). E i presenti, vedendo Eliseo aprire le acque del Giordano con un colpo del mantello, devono riconoscere: «Lo spirito di Elia si è posato su Eliseo!» (2Re 2,15). Ecco una definizione sintetica della paternità spirituale: il padre trasmette al figlio il proprio spirito, inestricabilmente connesso con lo Spirito di Dio, fonte di vita in abbondanza e vero protagonista della vita spirituale.

2. La paternità spirituale nel Nuovo Testamento

Su questo sfondo veterotestamentario, cui si potrebbero aggiungere alcuni passi tratti dalla letteratura sapienziale – si pensi, per es., a Pr 4,1-2: «Ascoltate, o figli, l’istruzione di un padre e fate attenzione per conoscere la verità, poiché io vi do una buona dottrina; non abbandonate il mio insegnamento» – si comprendono meglio le relazioni di paternità spirituale implicite in molte pagine del Nuovo Testamento.

Il Nuovo Testamento si apre presentando, pur in modo molto sobrio, la funzione di paternità spirituale svolta da Giovanni il Battista nei confronti di Gesù, definito dal Precursore «colui che viene dietro a me» (opíso mou: Gv 1,15.30), con un’espressione tecnica che indica appunto una relazione di discepolato. Gesù sembra dunque aver seguito Giovanni come discepolo per un certo tempo, fino a farsi battezzare da lui (cf. Mc 1,13-17 e par.).

Quanto alla relazione di Gesù con i suoi discepoli, va innanzitutto notato che la sua chiamata rivolta ai dodici affinché abbandonino casa, famiglia e campi per «stare con lui» (cf. Mc 3,14) rinnova e radicalizza quanto era stato vissuto da Elia ed Eliseo: questa volta non c’è nemmeno più il tempo per congedarsi da quelli di casa. Gesù si rivolge talvolta ai suoi discepoli chiamandoli «figli» (tékna: Mc 10,24) o «piccoli figli» (teknía: Gv 13,33; paidía: Gv 21,5), così come farà anche Giovanni verso i cristiani della sua comunità (teknía: 1Gv 2,1.12.28; 3,7.18; 4,4; 5,21). Ma a prescindere da questi pochi esempi, tutta la vita comune di Gesù con i suoi può essere interpretata come un paziente lavoro mediante il quale egli cerca di narrare loro il volto di Dio e di generarli quali «figli del Padre che è nei cieli» (Mt 5,45), «figli del Regno» (Mt 13,38): nessuna autoreferenzialità da parte sua, ma la chiara coscienza di avere tutto ricevuto dal Padre e, di conseguenza, la gioia di restituirgli ogni cosa e ogni relazione. È dunque con grande intelligenza che l’autore della Lettera agli Ebrei può mettere in bocca a Gesù asceso al cielo le parole del profeta Isaia: «Ecco, io e i figli che Dio mi ha dato» (Eb 2,13; cf. Is 8,18), le quali a loro volta daranno origine a una tradizione patristica confluita, com’è noto, nel passo della Regula Benedicti in cui l’abate è detto fare le veci di Cristo (cf. II,1-3).

Ora, è vero che Gesù nel vangelo secondo Matteo afferma con forza: «Non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo» (Mt 23,9). Una volta deprivato della sua vis polemica dovuta alla concorrenza tra il nascente movimento cristiano e quello rabbinico, che si serviva di tale appellativo per designare le guide spirituali, questo detto non va inteso in senso letteralistico bensì compreso in profondità: la fonte di ogni paternità è Dio e ogni paternità umana, inclusa quella spirituale, discende da lui, è donata per partecipazione alla sua. Nello stesso senso Gesù ammonisce che «uno solo è buono» (Mt 19,17), Dio. Ma come non ci è impedito di giudicare buone delle creature, in quanto donne e uomini abitati dalla bontà di Dio, così ci è dato di scorgere la maternità e la paternità in credenti che non se la arrogano indebitamente ma ne sono testimoni tra i fratelli per dono esclusivo di Dio; in persone che, come Giovanni il Battista, conducono altri a Cristo e poi escono di scena, pronte a diminuire affinché Cristo cresca (cf. Gv 3,30).
Paolo non è dunque un trasgressore delle parole di Gesù, lui che più di ogni altro chiama in causa il rapporto di paternità spirituale nei confronti dei suoi discepoli. E fa questo – non lo si dimentichi – essendo stato a sua volta generato alla vita cristiana da Anania, che si prende cura di lui e lo battezza dopo che Cristo gli si è rivelato sulla via di Damasco (cf. At 9,10-19; 22,12-16). Inoltre ha avuto bisogno che Barnaba lo accompagnasse nell’opera di maturazione della fede, inserendolo progressivamente nella comunità di Gerusalemme (cf. At 9,26-30; 11,22-30) e sostenendolo durante le traversie del primo viaggio missionario (cf. At 13,1-15,40). Sì, anche Paolo, che non aveva conosciuto personalmente Gesù, è stato iniziato da altri alla vita in Cristo, da lui poi vissuta con grande intensità e, di conseguenza, trasmessa ad altri figli…

Nelle sue lettere l’apostolo più volte allude alla sua opera di paternità nei confronti di singoli figli spirituali: parla di Onesimo come di «mio figlio (ho emòn téknon) che ho generato in catene» (Fm 10); di Tito come «mio vero figlio (gnesìon téknon) nella fede comune» (Tt 1,4). Paolo utilizza accenti particolarmente affettuosi nei confronti di Timoteo, che definisce «mio figlio amato e fedele nel Signore» (mou téknon agapetòn kaì pistòn en kyrío: 1Cor 4,17; cf. 1Tm 1,2.18; 2Tm 1,2; 2,1); di lui dice anche: «ha servito il Vangelo con me, quale un figlio con il padre (hos patrì téknon)» (Fil 1,22).

Quest’ultimo passo ci introduce a un tema centrale toccato da Paolo in relazione alle comunità cristiane da lui fondate: la sua è una paternità strettamente connessa alla trasmissione del Vangelo; ovvero, se non va trascurato lo stretto legame umano esistente tra l’apostolo e i suoi figli, nondimeno è il Vangelo di Dio e di Gesù Cristo che costituisce il metro oggettivo e determinante delle sue relazioni con loro. Questa duplice dimensione appare chiaramente in un passo della sua lettera più antica, la prima scritta ai cristiani di Tessalonica:

Siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre si prende teneramente cura dei propri figli. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il Vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari … E sapete anche che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, incoraggiandovi e scongiurandovi a camminare in maniera degna del Dio che vi chiama al suo Regno e alla sua gloria (1Ts 2,7-8.11-12).

Paolo è dunque nello stesso tempo madre e padre per i suoi figli spirituali, e la sua autorevolezza si fonda sull’esempio da lui dato in prima persona: «lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il Vangelo di Dio» (1Ts 2,9). Chi al contrario pretende di imporre agli altri ciò che non è disposto a vivere, va inevitabilmente incontro al severo giudizio di Cristo su quanti «legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle degli uomini, ma non vogliono muoverli neppure con un dito (Mt 23,4)…

Ma se nel precedente passo vi era solo il paragone – «come una madre … come un padre» –, ai cristiani di Corinto Paolo si rivolge con un’affermazione ancor più netta: «Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo (en Christô Iesoû dià toû euanghelíou egó hymâs eghénnesa)» (1Cor 4,15). Certamente qui l’apostolo vuole distinguere la propria funzione da quella di quanti gli sono subentrati a Corinto per guidare la comunità in sua assenza: questi ultimi non devono attribuirsi nulla di più della funzione che gli spetta, quella di tutori, di precettori incaricati solo di proseguire l’opera da lui iniziata. Ma più in profondità queste parole rivelano la consapevolezza che abita il cuore di Paolo: egli è reso padre dalla fecondità del Vangelo, della Parola che per primo ha accolto in sé come seme e fonte di vita. Solo da questo essere radicato nel Vangelo discende la sua capacità di chiamare altri a una nuova nascita, di destarli alla vita secondo Dio: ecco il «senso nascosto» ravvisato da Origene in questo passo paolino (cf. Frammenti del Commento alla Prima lettera ai Corinti [su 1Cor 4,15]).
Nessun protagonismo deve dunque animare il padre spirituale, ma la chiara consapevolezza che egli è chiamato ad essere una sequentia sancti Evangelii, un brano vivente di Vangelo per i suoi figli. Questo comporta una dura lotta, una fatica che può essere sostenuta nella misura in cui si ha chiaro il fine cui si tende, come scrive lo stesso Paolo ai cristiani della Galazia: «O figli miei, che di nuovo partorisco nel dolore, finché non sia formato Cristo in voi (méchris hoû morphothê Christòs en hymîn)» (Gal 4,19). Ecco lo statuto paradossale della paternità spirituale: il padre soffre per una gestazione di Cristo che spetta al figlio condurre, una gestazione che può anche essere lunga e travagliata. Ma prima o poi viene il giorno in cui il parto si compie: quando il figlio diviene «un uomo maturo, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13), allora il padre deve farsi umilmente da parte. Il suo compito è terminato: da quel momento sarà Cristo, il terzo in ogni relazione di paternità spirituale, a guidare in prima persona il figlio, a condurlo nel cammino della vita.

Conclusione

Parafrasando un’affermazione di Pierre Lenhardt a proposito della trasmissione della Torah da parte dei maestri d’Israele, potremmo dire che come non si riceve la vita senza genitori, così non si ricevono la parola di Dio e i fondamenti della vita nello Spirito senza un padre spirituale saldamente radicato nel Vangelo di Cristo. Sì, il cristiano è chiamato a ricevere la vita da chi è stato reso capace di donarla, per essere poi in grado di trasmetterla a sua volta a quanti verranno dopo di lui. È quel movimento ben espresso ancora da Origene: «Prendiamo a esempio Paolo che istruisce Timoteo: Timoteo riceve da Paolo dei suggerimenti e poi va lui stesso alla fonte da cui Paolo è venuto; vi attinge e Timoteo diventa uguale a Paolo» (Frammenti del commento alla Prima lettera ai Corinti [su 1Cor 2,12-15]).
«Cristiani non si nasce ma si diventa» (Tertulliano, Apologetico XVIII,5) grazie alla mediazione di un padre o di una madre che sappiano esercitare l’arte dell’accompagnamento nello Spirito. Che sappiano cioè guidare nella libertà e per amore, e con infinita pazienza, alla vita in Cristo, alla vita secondo Dio, «il Padre dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome» (Ef 3,14-15).

ENZO BIANCHI