Avere un corpo

Se ci volgiamo alle immagini che oggi la società veicola a proposito del corpo, ci troviamo stretti tra, da un lato, esaltazione, idolatria, sublimazione, esibizione e, dall’altro lato, disprezzo e rimozione: esaltazione dell’immagine di un corpo giovanile, sempre sano, desiderabile, seducente, e rimozione del corpo sofferente, malato, morente. Oggi si privilegia l’immagine del corpo, ma dobbiamo chiederci se siamo ancora capaci di coglierne la simbolicità. L’impressione è che il corpo oggi invadentemente esibito nella sua bellezza patinata, sia in realtà un corpo zittito, non eloquente, senza profondità, omologato a canoni estetici alla moda, parcellizzato, anatomizzato, un corpo che è pura esteriorità, in fin dei conti neutralizzato e banalizzato, dove anche la differenza sessuale sembra relativizzata e non più percepita come segno infrangibile dell’irriducibile alterità maschio-femmina. Ma soprattutto è nei nostri vissuti personali che emergono i segni della difficoltà a vivere il corpo, delle patologie e delle deviazioni nel rapporto con il corpo nostro e degli altri, delle difficoltà a entrare in consonanza con il corpo, difficoltà che si riverberano anche sui piani della relazione con gli altri, dell’assunzione della realtà, del rapporto con Dio. Se il corpo (come sottolinea la concezione biblica) è il crocevia delle relazioni del singolo con gli altri, con la società, con il creato e con Dio stesso, ciò ha una ricaduta precisa sull’esistenza di ciascun uomo: dovremmo cioè ricordare che noi siamo anche la storia del nostro corpo, a partire dalla sua origine, la condizione fetale. La nostra storia personale non data semplicemente dal giorno in cui siamo “venuti alla luce”, in cui siamo stati partoriti, ma risale al concepimento e ai mesi di vita intrauterina! Il corpo è portatore di una sua memoria profonda: esso conserva tracce invisibili ma realissime di ciò che l’uomo ha vissuto, provato e sofferto. Questa memoria viene fatta emergere e “portata a superficie” dalle esperienze che ciascuno vive: il corpo, infatti, è il libro del tempo, il libro su cui restano registrate emozioni, sofferenze ed esperienze di un passato che non è dietro a noi, ma dentro di noi; le posture del nostro corpo non sono innocenti, ma sono il frutto di una storia, sono rivelazione ed eloquenza. Il nostro corpo porta inscritte in sé la memoria della nostra origine, del grembo da cui proveniamo. Posture e gestualità del nostro corpo, il modo con cui lo trasciniamo o lo portiamo ben eretto, il nostro essere incurvati o ciondolanti, il modo di camminare, le rigidità, sono un linguaggio che riflette il nostro psichismo e i nostri vissuti e che attende interpretazione. Il corpo parla, e parla un linguaggio che anticipa e trascende l’espressione verbale. Merleau-Ponty sostiene che noi impariamo la nostra lingua materna attraverso il corpo, non mentalmente, e Nietzsche giunge ad affermare: “Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza”(Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1986, p. 35). È dunque essenziale ascoltare il proprio corpo. La vigilanza e la preghiera trovano qui il loro umanissimo fondamento (che certo non può esaurirle, ma che pure è essenziale): ascoltare il proprio corpo consente di decifrare anche il corpo dell’altro, o quantomeno di porsi in una condizione in cui si può entrare in comunione con la storia dell’altro, che sempre affiora nel suo corpo. Allo stesso modo, solo entrando in contatto con la propria sofferenza profonda, si può pervenire a provare autentica compassione ed entrare in comunione con il sofferente che ci è accanto e che giustamente rifiuterà chi si porrà al di fuori della sfera di sofferenza che lui patisce.

L. Manicardi, Il corpo, qiqajon, Bose, 2005, pp. 19-22