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Benedetta debolezza!

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Avanziamo in fila indiana sullo strettissimo sentiero che sale zigzagando l’arida montagna. Sono ormai invisibili la fertile vallata disegnata dal fiume Karun prima di tuffarsi nel Golfo persico e la cittadina di Shushtar, da cui siamo partiti. Eppure, si ode ancora l’eco lontana del muezzin che saluta gli ultimi luminosi ricordi del sole ormai tramontato. O forse è solo suggestione? La meraviglia di calpestare queste pietre che appena da una manciata di decenni, nel 642, hanno visto dissolversi il secolare impero persiano sotto i colpi dei discepoli del profeta Muhammad. Scolliniamo verso Occidente e la valle già immersa nell’ombra ci offre lo spettacolo di una costellazione di minuscole casupole di sassi, da cui trapela tremulo il chiarore dei bracieri. Poco più in basso, la sagoma scura della chiesa dove i monaci si riuniscono una volta alla settimana per l’eucaristia domenicale e il pasto fraterno.

Il dubbio su come riusciremo a individuare la cella di padre Isacco fa appena in tempo a bussare alla nostra mente quando una porta si schiude sulla destra, lasciando sfuggire uno sbuffo di luce calda. Un giovane monaco nel suo abito scuro fa capolino: “Entrate, mar Ishaq vi aspetta!”.

Viene dal Qatar il nostro mar Isacco. Dal Qatar? Ebbene sì! Proprio quella terra, che per noi sa troppo di arabo per essere cristiana e profuma troppo di vacanza esotica per essere associata a una fucina di vita spirituale, all’epoca ha donato alla chiesa siro-orientale alcuni dei suoi più grandi mistici. È stato poi vescovo, vescovo dell’antica città di Ninive! Ma appena qualche mese gli è bastato per convincersi che la leadership non faceva per lui e lo ha spinto a ritirarsi tra queste montagne desolate, prima nell’assoluta solitudine, poi alla lavra di Rabban Shapur. E ora eccolo, seduto su di una stuoia nella stanzetta vuota. Dagli occhi socchiusi, ormai incapaci di vedere (almeno le realtà visibili!), due lacrime dorate al chiarore del braciere si fanno strada tra le rughe profonde, come torrenti nel deserto. Ci accoglie con un tenero sorriso e ci invita ad accomodarci. Tutti prendiamo posto per terra, tranne un giovane con un cespuglio di capelli nerissimi. Coglie tutti di sorpresa, si slancia un poco in avanti, e, come per liberarsi da un peso insostenibile, mitraglia la sua domanda: “Come si fa a benedire tutto? Come faccio a dire bene dei miei crolli?”. L’anziano non si scompone. Solleva appena un angolo della bocca e fa un cenno al suo giovane compagno. Il ragazzo passa svelto nella stanza accanto e torna tenendo in mano qualche foglio di pergamena: “Abba Ishaq ormai parla a fatica, ma vuole che vi legga le parole che mi ha dettato qualche tempo fa: Ṭuvāh lebarnāšā deida‘ meḥiluteh – scandisce solenne in lingua siriaca –: Beato l’uomo che conosce la propria debolezza”. Non si tratta di andarsela a cercare – commenta il giovane discepolo – ma di smettere di raccontarci frottole, di illuderci di essere invincibili; si tratta di riconoscere con realismo che siamo deboli e fragili, come ogni altra cosa in questo mondo.

“Finché il cuore non è umiliato non smette di vagare. L’umiltà raffrena il cuore, e quando un uomo è umiliato, immediatamente la misericordia lo avvolge e lo abbraccia”. Finché tutto ci va bene saltelliamo di qua e di là sognando di lanciarci in una miriade di imprese grandiose, ma in realtà “chi manca di umiltà è ancora pauroso”, incapace dell’unico atto veramente eroico che ci è dato di compiere: chiedere aiuto. La percezione della precarietà concentra tutte le nostre debolissime forze verso quest’unica impresa. Allora si aprono i nostri occhi sui tanti piccoli gesti di cura di chi ci sta accanto; allora impariamo a pregare davvero, ad abbandonarci all’abbraccio della misericordia del Padre. Questa debolezza è benedetta perché ci rivela la nostra vera forza, perché scardina impietosamente la nostra autoreferenzialità e ci apre agli altri, ci rende solidali con tutte le creature. Un cuore umiliato, infatti, è anche un cuore misericordioso, “è l’incendio del cuore per tutta la creazione, per gli uomini, per gli uccelli, per gli animali, per i demoni (perfino!) e per tutto ciò che esiste. Al loro ricordo e alla loro vista i suoi occhi versano lacrime per la violenza della misericordia”. Se addirittura la debolezza diventa fonte di benedizione, “è dunque bene che chi procede sulla via di Dio, per ogni cosa che gli capiti ringrazi”.

Tace il giovane monaco, mentre le fonti delle lacrime dell’anziano continuano a bagnare di dolcezza le sue labbra dischiuse in un sorriso. Anche noi restiamo ammutoliti, il nostro amico si siede accanto a noi, e lasciamo che il silenzio faccia scendere in noi queste parole, questa vera e propria testimonianza. E chissà che il silenzio non generi in qualcuno di voi una domanda capace di guidarci a un nuovo incontro, verso una nuova tappa del nostro cammino di quest’anno.