a cura di Rosanna Virgili, Istituto Teologico Marchigiano
L’opera di Luca, ha esordito la professoressa Virgili alla prima lezione, è racconto della mitezza di Cristo, della determinazione, della misericordia, dei poveri, delle donne, dei viaggi “per terra e per mare”, in un continuo decentramento dal tempio alle periferie. Gli episodi che si sono commentati sono l'annuncio dell'angelo a Maria, la visita a Elisabetta, le tentazioni di Gesù nel deserto, la guarigione della donna curva da diciotto anni e dell'indemoniato che viveva a Gerasa tra i sepolcri, e ancora la parabola del povero Lazzaro... La parola di Gesù, radicata nel Dio delle Scritture, si compie e si fa vita nel grembo di una vergine e di un'anziana; dialoga, in maniera vincente e liberante, con le pulsioni della fame, del potere sugli altri, del potere religioso, smascherandone il pericolo di idolatria; ridona dignità, umanità e prossimità a chi vive ripiegato su se stesso, isolato e intimamente diviso. La parola di Gesù rimette nel giro della vita coloro che, in vari modi e per motivi diversi, erano relegati ai margini della società del tempo, e di ogni tempo.
“Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo – cioè anche ‘per causa mia che sono il Vangelo, la buona e bella notizia per eccellenza’ –, la salverà” (Mc 8,35; cf. anche Mc 10,29), dice Gesù al centro del vangelo secondo Marco. Queste parole paradossali possono persino risuonare folli, assurde, soprattutto agli orecchi dei non cristiani. Come può un uomo pretendere questo? Eppure Gesù lo ha fatto, riassumendo così la peculiarità della vita con lui, ossia della vita cristiana. In proposito non c’è molto da commentare: c’è da sperimentare (e di conseguenza da capire) che il tenere gelosamente la vita per sé equivale a perderla, a gettarla via; il perderla per Cristo, dunque il vivere per amore suo con lui e come lui, cioè a favore dei nostri fratelli e sorelle in umanità, significa trovarla e vederla da lui salvata. La vita cristiana è molto semplice: è una vita umana conforme alla vita di Gesù Cristo, allo stile con cui egli ha vissuto, amato, dato e ricevuto fiducia.
In un certo senso, si deve dire che la Genesi non è l’inizio della Bibbia. L’inizio si trova negli eventi dell’esodo, quando Israele fece la conoscenza di Colui che divenne il suo Dio, il SIGNORE. La Genesi è un tentativo di raccontare Dio, in ciò che faceva prima di farsi conoscere a Israele. Ricuperando storie ancestrali di patriarchi, storie di clan e di tribù, che si raccontavano sotto le tende, e rileggendo i miti delle civilizzazioni circonstanti, Israele ha mostrato nella narrazione delle generazioni che compongono la Genesi, che il suo Dio, Dio di amore e di liberazione, si è manifestato tale fin dalle origini della storia umana e nelle varie vicende – anche tumultuose – della storia degli uomini. Nel contempo forgiava l’unità dello stesso popolo d’Israele.
«Dio è violento, sì o no? Le religioni, e il monoteismo ebraico-cristiano-islamico in particolare, sono fonte di pace, sono riserva critica nei confronti della cultura della violenza o sono motivo e giustificazione dei conflitti? L’attualità rende urgente, come sempre d’altronde, il chiedersi in rigorosità e verità di quali immagini di Dio si è portatori. Il che richiede, tra l’altro, un ritorno ai propri testi fondativi a coglierne il messaggio fontale, costitutivo ed essenziale, alla cui luce reinterpretare gesti e parole di violenza in nome del proprio Dio. Un Dio, e il riferimento è all’esperienza biblica, in principio pastore e guerriero, quindi smascheratore dell’origine da cui muove la violenza, il cuore dell’uomo, poi identificato dalle figure del Messia di pace e del Servo del Signore. Una breccia aperta che “Gesù verrà ad occupare” portando, nella versione cristiana, a compimento l’immagine di un Dio che si spezza senza spezzare nessuno, che si dà in pasto senza fagocitare nessuno, che non priva nessuno del suo sguardo di fiducia, di speranza e di amore. Per una storia altra, determinata dal guardare come si è guardati, un Dio non lupo prepotente, non volpe astuta, ma agnello mite e umile.»
Si è concluso il corso tenuto dal priore, Enzo Bianchi, dal titolo La cattedra dei poveri e dei sofferenti.
I poveri e i sofferenti non vanno solo compatiti e aiutati ma prima di tutto ascoltati perché titolari di un magistero, di un insegnamento per noi. Questa l’idea chiave sviluppata da Enzo grazie ad un’itinerario attraverso l’intero testo biblico. I testi profetici e legislativi dell’Antico Testamento dipingono il povero con i volti più disparati, dagli orfani e le vedove, agli stranieri, agi schiavi, ai malati. Figure diverse, ma tutte accomunate dalla consapevolezza di un bisogno che solo Dio può colmare. Sono questi poveri ad insegnare a Israele ad attendere il Messia, il re giusto e liberatore.
Ma l’Antico Testamento rivela anche un Dio che è dalla parte de poveri, che ascolta il loro grido anche quando non ha voce e che li ama più di ogni altro. È questo stesso Dio che nel Nuovo Testamento, in Gesù, si fa povero, fino ad assumere la condizione di schiavo (cfr. Fil 2,5-9). Gesù è passato facendo del bene e guarendo (cfr. At 10,38), ma soprattutto i poveri li ha incontrati, li ha ascoltati e toccati, si è messo alla scuola del loro magistero di umanità. A noi è chiesto di seguirne le tracce, perché è la comunione il cuore del cristianesimo.
Se Vangelo significa “buona notizia”, qual è questa buona notizia? Incompreso, mal interpretato quando non addirittura falsato nel corso della storia, il Vangelo ha una sua essenza profonda, rintracciabile sin dalle prime pagine dell’Antico Testamento. Vangelo non indica soltanto il genere letterario del Nuovo Testamento che raccoglie la vita e le parole di Gesù di Nazareth ma, prima di tutto, Cristo stesso che resta il centro della fede cristiana. Ma Vangelo è anche la “buona notizia” che è contenuta in tutte le Scritture.
Tracciando un percorso scritturistico che va dall’Esodo all’epistolario paolino, il priore di Bose ha mostrato al centinaio di ospiti convenuti il cuore di questo messaggio biblico, mettendo in evidenza la continuità e anche la rottura tra le due alleanze. La “buona notizia” rivelata da Gesù Cristo, il Cristo stesso, esiste in nuce già nell’Antico Testamento.
Per fr. Enzo, il cuore della Torah per noi cristiani non è già la Legge ma l’autorivelazione di Dio fatta a Mosè sul monte Sinai (cf. Es 3,14; 34,5-7). Lì il Signore, svelando il suo nome, cioè la sua identità profonda, si rivela come misericordia. Ecco la “buona notizia” che fa da criterio ermeneutico dell’evangelicità dell’Antico Testamento. E lungo tutto il corso della prima alleanza la buona notizia è che la misericordia di Dio ha sempre la meglio sulla sua giustizia.
Nel Nuovo Testamento la “buona notizia” è la vita di Gesù: egli è l’inveramento della misericordia di Dio annunciata nel Primo Testamento. Gesù annuncia e realizza il perdono dei peccati. Egli si mette dalla parte dei peccatori, anzi va alla ricerca di chi soffre per il peccato, mangia con loro amandoli e trasformando le loro vite. Per questo il Vangelo diventa scandalo per gli uomini religiosi: colui che è santo e senza peccato si mescola con i peccatori. Lo stesso pentimento, nel Nuovo Testamento, diventa allora la conseguenza e non la premessa dell’amore di Dio.
Per i cristiani, fede non significa credere in Dio ma che Dio ci ama. Ed ecco l’ultimo sviluppo della buona notizia come amore divino, che sottolinea l’apostolo Paolo: la giustizia di Dio è, in realtà, giustificazione; in Cristo, Dio fa giusti i peccatori.
L'uomo e la donna entrambi creati per stare l'uno di fronte all'altra, per essere una il limite dell'altro, rischiano nella vita e nella storia, anche in quella biblica, di essere invece l'uno contro l'altra. Rosanna Virgili, biblista presso l’Istituto Teologico Marchigiano, ha guidato l’ottantina di ospiti presenti a Bose questa settimana in un percorso attraverso le storie degli uomini e delle donne dell'Antico Testamento e del Nuovo Testamento. Caino, Abele, Abramo, Sara, Mosè, Davide, Debora, Ruth e Noemi, Pietro,e Maria Maddalena: attraverso il racconto esegetico delle loro vicende umanissime, la Virgili ha cercato di dare significato concreto ai concetti di maschile e femminile, sempre tenendo presente la distinzione tra l'antropologia culturale che definisce gli usi e i costumi e quindi anche i rapporti tra uomini e donne di una data cultura e periodo storico, e l'antropologia teologica che invece rivela nel tessuto della narrazione biblica un impianto etico che pone al centro la relazione. Il rispetto del limite dell'altro, della differenza, il riconoscimento all'interno della relazione di una trascendenza che impedisce di impadronirsi dell'altro sono ciò che permette di restare nell'alleanza e di non cadere nell'idolatria. Da ultimo la biblista ha mostrato come all'interno del paradigma del maschile e del femminile compreso come paradigma della differenza, della scoperta del proprio limite e della propria non autosufficienza, è possibile leggere la storia dell'alleanza tra Dio e il suo popolo, storia fatta di alterità, di tradimenti, di abbandoni, di perdono e di continue riprese.