Unicità della persona e desiderio di comunione

Ogni persona ha la sua storia personale che la rende unica. Può essere stata accettata o rifiutata, avere un passato di sofferenza interiore e di relazioni difficili con i genitori. Ma in ogni essere umano c’è un ardente desiderio, e nello stesso tempo una certa paura della comunione e dell’appartenenza. Ciò che desideriamo di più è l’amore e nello stesso tempo è ciò di cui abbiamo più paura. Ci rende vulnerabili e ci apre, ma è allora che possiamo essere feriti dal rifiuto e dalla separazione. Possiamo aver paura dell’amore perché abbiamo paura di perdere la nostra libertà e la nostra creatività. Desideriamo appartenere a un gruppo, ma nello stesso tempo abbiamo paura di trovarvi una certa morte perché forse non saremo più guardati come unici. Desideriamo l’amore, ma abbiamo paura della dipendenza e dell’impegno che implica. Abbiamo paura di essere utilizzati, manipolati, soffocati, distrutti. Nei confronti dell’amore, della comunione e dell’appartenenza con tutte le loro esigenze, siamo tutti ambivalenti ...


La nostra civiltà occidentale è una civiltà competitiva. Fin dalla scuola il bambino impara a “vincere”; i suoi genitori sono incantati quando è il primo della classe. È così che il progresso materiale individualista e il desiderio di salire di grado per un prestigio più grande hanno avuto la meglio sul senso della comunione, della compassione e della comunità. Si tratta adesso di vivere più o meno soli nella propria casetta, con un cartello sulla porta che dice: “Attenti al cane!”, custodendo gelosamente i propri beni e cercando di acquistarne altri. È perché l’occidente ha perso il senso della comunità che sorgono, qua e là, piccoli gruppi che cercano di ritrovare quello che è andato perduto (JEAN VANIER, La comunità: luogo del perdono e della festa, Jaca Book, Milano 2000, pp. 32-33)

Vivere la pace in comunità

La relazione personale richiede tenerezza e gentilezza. L’opposto dell’amore è la durezza di cuore e l’insensibilità; è l’indifferenza agli altri e a ciò che pensano, sentono e richiedono, evitando di incontrarli e costruendo meccanismi di difesa. La paura rinchiude le persone dentro i sistemi di difesa propri di ciascuno, ma la pace non è semplicemente l’assenza di guerra e non è solo vivere accanto agli altri, ignorandoli o evitando il contatto con loro. La pace implica la conoscenza reciproca, l’apprezzamento dell’altro, il riconoscere e accogliere i valori che ciascuno possiede e dona all’altro. La pace deriva dalla comunione dei cuori, in cui si scopre che siamo veramente fratelli e sorelle, appartenenti a una comune umanità. Questa comunione di cuori non è per niente sentimentale; non significa semplicemente mettersi al sicuro nel calore di un gruppo amico. Tale comunione richiede che insieme, come comunità e come amici, siamo impegnati a lavorare per la pace e la giustizia. La pace è il frutto dell’amore, un amore che è anche giustizia. Ma crescere nell’amore richiede fatica, una dura fatica. E può causare dolore, perché implica una perdita delle certezze, delle comodità, ferisce quel rifugio in cui siamo al sicuro e ci obbliga a definire meglio noi stessi.

Da “Trovare la pace” di Jean Vanier, ed. Messaggero di Padova 2004

Autorità come servizio

Abbiamo bisogno di diventare leader umili, che si mettono al servizio degli altri per aiutarli a crescere in conoscenza, sapienza, libertà e responsabilità, così che possano diventare, nel profondo del loro essere, maggiormente umani. Quando amiamo le persone, le liberiamo. Per essere buoni leader, dobbiamo anche essere preparati ad abbandonare la nostra posizione di autorità e lasciare che gli altri continuino a svolgere il ruolo di leadership al momento giusto. Per esercitare una “buona autorità” occorre diventare uomini di pace.
Profeti di pace sono quelli che nella loro persona e nei loro atteggiamenti non suscitano paura, ma aprono il cuore delle persone alla comprensione e alla misericordia. Sono quelli che nella loro debolezza gridano il loro bisogno di entrare in relazione. In qualche modo misterioso essi stanno demolendo le barriere della paura nei nostri cuori. Che cosa accade quando cominciamo a prestare attenzione ai deboli? Cominciamo ad accettare la nostra personale debolezza. Scopriamo che ci sono tantissime cose che non possiamo fare, che abbiamo bisogno degli altri! Quando scopriamo la nostra vulnerabilità e fragilità, è allora che cominciamo a uscir fuori da dietro le barriere che innalziamo attorno al nostro cuore per la nostra protezione.
Diventiamo profeti di pace quando scopriamo la nostra debolezza. Qui stiamo per toccare un mistero. La pace non viene dalla superiorità e dal potere. Viene dalla potenza della vita che scaturisce dalla parte più profonda, più vulnerabile del nostro essere, una potenza di vita tenera e forte, che è dentro di voi e di me.

Da “Trovare la pace” di Jean Vanier, ed. Messaggero di Padova 2004

Il centro di ogni comunità cristiana

In ogni gruppo umano c’è un campo di tensioni fatto di desideri e di ambizioni che s’incrociano, spesso entrano in conflitto, ma devono cercare di armonizzarsi. Nei casi migliori, queste tensioni si risolvono nella persona del leader,  che crea l’unità e l’armonia. Ogni gruppo è così strutturato gerarchicamente, guarda verso l’alto, verso la cima e si aggrappa al leader, che è emanazione e simbolo del gruppo. Evidentemente  questo vale anche, entro certi limiti, per le comunità secondo l’evangelo. E tuttavia… in una comunità secondo l’evangelo entra in gioco un’altra dinamica, perché qui la piramide è capovolta. Il centro di gravità, il punto focale, è il punto più basso, è il piccolo, il debole. Non si sta con gli occhi puntati sul leader, ma ciascuno, leader compreso, si prende cura del più debole e porta insieme agli altri il più debole. Il capo è colui che può meglio vegliare sui più deboli.

A. Louf, “{link_prodotto:id=309}”, edizioni Qiqajon, Magnano 2001