Solitudine e comunità

Viviamo un tempo nel quale viviamo molte esperienze comuni­tarie. Con esse si vogliono superare gli incontri anonimi e le attività burocratiche: si intende, soprattutto, offrire all'uomo uno spazio di autentica esperienza personale e di comunione fraterna. Tuttavia anche la comunità può diventare un alibi: un rifugio, cioè, alle proprie paure e impotente, piuttosto che una convergenza e una partecipazione di persone vere, ricche di vocazioni mature e di scelte virili.
Per evitare le illusioni e le improvvisazioni comunitarie, si tratta di capire una realtà apparentemente paradossale e contraddittoria: solo le vere solitudini sono capaci di vere comunioni. Per rifarsi al Van­gelo, solo se il seme di una vita, di una coscienza, di una vocazione sa marcire (questo è il momento profondo e ricco di fecondità per­sonale) matura e cresce il frutto dell'amicizia, della comunione, della partecipazione. Non ci può essere comunità dove vite immature svuo­tano altre vite; dove coscienze smarrite si aggrappano a certezze im­prestate; dove vocazioni improvvisate cercano surrogati, succhiando vitalità invece che alimentare e donare vita.
Una comunità cristiana deve essere innanzitutto un incontro di « so­litudini contemplative », se si vuole sfociare davvero in una comu­nione operante di scelte concrete e di rischi storici. Altrimenti riman­gono « convivenze », fragili supporti a personali inconsistente inte­riori, che appoggiano il proprio vuoto sul vuoto altrui. Al massimo si avrà una convergenza esteriore di interessi culturali e intellettuali o, peggio, di emozioni estetiche.
Dove non crescono né si rispettano né salutarmente si provocano au­tentiche vocazioni, non nascerà né resisterà a lungo una comunità. Si parlerà di fraternità ma si spremerà sentimentalismo o umanismo; si pregherà anche insieme ma saranno più esercitazioni teologiche che abbandono alle sorprese dello Spirito e messa in comune del dono inesauribile della Verità fatta carne.

Umberto Vivarelli, La solitudine del cristiano