Pavel Florenskij

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scienziato e presbitero ortodosso (1882-1937)

Pavel Florenskij nasce il 9 gennaio 1882 in Azerbajgian, il padre è un ingegnere delle ferrovie mentre la madre è di origine armena. La famiglia di Pavel si trasferisce poco dopo a Tibilisi, il principale centro commerciale, culturale di tutta l’area del Caucaso. Passa la sua infanzia oltre a Tibilisi anche a Bitumi crescendo in un clima famigliare sereno. In casa Florenskij non vi è ostilità nei confronti della religione, ma nel contempo non se ne riconosce alcuna. Fin da piccolo Pavel manifesta chiaramente una grande curiosità per la natura. Importante per la definitiva scoperta della dimensione religiosa dell’esistenza da parte di Florenskij è l’incontro con due grandi figure spirituali: il vescovo A. Florensov e lo starec Isidor Gruzinkij. Il pensiero scientifico si dimostra così ben presto inadeguato a rispondere alle domande di significato che egli si pone sempre più fortemente. Importante nel cammino che porta Florenskij alla scoperta della dimensione religiosa dell’esistenza, ormai non più ignorabile, è la ricerca filosofica sul problema del simbolo in generale e successivamente del simbolo trinitario in particolare. Sotto la maschera del visibile si cela sempre, per Florenskij, una realtà invisibile. La vera conoscenza non può che partire dalla chiara percezione di questo mistero, che abbraccia ogni relazione con il mondo. Nel 1904 si laurea in Matematica e Fisica e si avvia subito dopo la tesi verso una brillante carriera accademica che decide però di interrompere per iscriversi all’Accademia Teologica di Mosca. Nel 1908 termina gli studi teologici e gli viene assegnata nella stessa Accademia la cattedra di Storia della Filosofia.


L’anno successivo si sposa con Anna M. Giacintova da cui avrà cinque figli.Dopo la rivoluzione russa, nell’ottobre 1917, la vita di Florenskij cambia nettamente. Il nuovo regime professa e pratica l’ateismo, l’Accademia Teologica viene chiusa e vengono introdotte precise forme di censura rivolte soprattutto verso la ricerca e l’attività religiosa. Molti intellettuali russi prendono la via dell’esilio. Florenskij decide di rimanere in patria a fianco della sua gente. Il regime socialista comincia a conferire nuovi incarichi a Pavel al fine di sfruttare la sua competenza scientifica molto qualificata. Verso la fine degli anni venti il potere sovietico inizia a porre in atto precise norme di persecuzione nei confronti della chiesa ortodossa, e sebbene interessato allo sfruttamento delle grandi competenze scientifiche di Florenskij non può accettare che egli continui ad essere un sacerdote ortodosso. Viene quindi arrestato nel 1928 in quanto considerato una minaccia per lo stato. Rilasciato dopo alcuni mesi ha la possibilità di andare in esilio a Parigi ma sceglie fino in fondo di condividere il destino del suo popolo e di rimanere a fianco della sua comunità costretta a subire continue violenze e soprusi. Il 26 febbraio 1933 viene arrestato per la seconda volta. Subisce continue violenze e torture, ed è costretto a dieci anni di lavori forzati. La persecuzione del potere sovietico non è rivolta solo ai cristiani, bensì prende di mira anche tutte le altre religioni presenti nel paese. Nell’agosto del 1933 Pavel Florenskij viene inviato nel lager di Skovorodino, nella Siberia occiedentale e poi nel 1934 nel lager sulle isole Solovki con l’obbligo di continuare la ricerca scientifica per lo Stato. Nonostante le persecuzioni e gli anni passati in carcere Pavel Florenskij continua a professare la propria fede e per questo diventa una figura sempre più scomoda al regime. Così il 25 novembre del 1937 è condannato alla pena suprema e considerato un pericoloso controrivoluzionario viene fucilato nella notte dell’8 dicembre 1937.

Lettura consigliata:
N. Valentini e L. Zak (a cura di),
"Non dimenticatemi.
Dal gulag staliniano
le lettere alla moglie e ai figli
del grande matematico, filosofo e sacerdote russo
",
Mondadori, Milano 2000.

Papa Giovanni XXIII

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papa di Roma (1881-1963)

A Roma il 3 giugno 1963, si spegne all’età di 82 anni Angelo Roncalli, divenuto papa di Roma nel 1958 con il nome di Giovanni XXIII. Era nato in una numerosa e povera famiglia di contadini della campagna bergamasca, dalla quale aveva imparato a riconoscere nella povertà una benedizione del Signore. Reso forte nella fede fin da giovane grazie alla semplice ma solida educazione ricevuta, Roncalli maturò già negli anni del seminario alcune intuizioni che faranno di lui un uomo profetico per tutte le chiese. Avviato dai suoi superiori alla carriera diplomatica, egli divenne nunzio in Bulgaria, poi a Istambul e a Parigi. Ovunque operò per la riconciliazione tra i cristiani, attingendo con rispetto ai tesori custoditi in ogni tradizione ecclesiale. In Turchia ebbe modo anche di interrogarsi riguardo alla presenza della chiesa in un mondo non cristiano. Eletto patriarca di Venezia nel 1953, egli affinò la sua visione della chiesa chiamata a essere povera e in ascolto dell’Evangelo, tesa a lavare i piedi degli uomini, e misericordiosa perché essa stessa generata dalla misericordia di Dio. Il 28 ottobre del 1958, Roncalli fu eletto a sorpresa vescovo di Roma.Giudicato un pontefice di transizione, papa Giovanni mostrò invece i frutti maturi della sua sensibilità pastorale. Nel gennaio del 1959 annunziò la convocazione di un concilio ecumenico, auspicando una nuova pentecoste su tutta l’assemblea dei credenti in Cristo. Papa Giovanni riuscì ad aprire, l’11 ottobre 1962, i lavori del concilio. Morì senza vedere i frutti della sua opera, ma nella pace e nella serenità dei poveri in spirito, lasciando un ricordo straordinario tra le genti di tutto il mondo.

 

Oscar Romero

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Era nato a Ciudad Barrios, da una famiglia di razza mista, e aveva maturato la proprio vocazione presbiterale dopo aver praticato il lavoro di falegname nel borgo in cui era cresciuto.
Compiuti gli studi a Roma durante il secondo conflitto mondiale, Romero rientrò in patria, dove gli furono conferiti incarichi di sempre maggiore responsabilità nella chiesa salvadoregna. Alla morte dell’arcivescovo Luis Chàver y Gonzales, grande difensore di poveri e oppressi, l’arcidiocesi del Salvador era lacerata profondamente da divisioni; Romero fu designato come successore di Chàver, tra la generale soddisfazione dei settori conservatori della società, che lo ritenevano portatore di una spiritualità innocua e disincarnata.
Ma nella drammatica situazione politica e sociale del suo paese, monsignor Romero cominciò a denunciare con forza le ingiustizie e le violenze subite dai contadini e poveri del Salvador, confrontando coraggiosamente la realtà quotidiana con l’Evangelo e le sue esigenze.
Promotore del dialogo e della riconciliazione all’interno della chiesa e del paese, insieme al favore dei poveri si attirò anche l’ostilità dei potenti e di parte della stessa gerarchia cattolica nel suo paese.
Il 24 marzo del 1980 cade così ucciso da un sicario mentre sta celebrando l’Eucaristia.

Oscar A. Romero, “Meditazioni per tutto l’anno”, Borla, Roma 2006

Mohandas K. Gandhi

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Nato a Portbandar il 2 ottobre 1869 in una famiglia della casta dei vaisya, quella dei commercianti, e in particolare della sottocasta dei bania, Gandhi giunge al matrimonio, per volontà dei genitori, all’età di tredici anni. Da sua moglie ebbe cinque figli, il primo dei quali morì poco dopo la nascita. Un altro lutto che colpì Gandhi, fu di lì a poco, la morte del padre. Questi eventi rappresentano per lui una forte e dolorosa provocazione a rispondere, trovando una forma di vita che sia all’altezza delle negazioni che colpiscono la condizione umana. Un primo passaggio che segna il suo cammino verso l’impegno per la pace, è la scoperta dell’eccesso del dolore, l’ingiustizia universale che colpisce le creature viventi.
Un secondo passaggio avviene in lui durante suo soggiorno in Gran Bretagna dal 1888 al 1891 come studente di legge a Londra. È la scoperta del diritto secondo leggi, norme, tutele, argomentazioni che devono in definitiva conformarsi alla verità. Questo orientamento ultimo, non deriva dalla cultura dell’impero britannico, ma dallo stesso sguardo e dal cuore pensante del giovane Gandhi. Divenuto avvocato nel 1893 si reca in Sud Africa come rappresentante legale di una ditta di Porthandar in una causa commerciale. Il breve soggiorno previsto si trasforma in una permanenza fino al 1914. È il terzo passaggio della sua vita: quello dell’assunzione del compito della lotta per la giustizia. In questo tratto di strada Gandhi giunge alla scoperta della nonviolenza. Gli indiani, oltre alle popolazioni di colore, venivano sistematicamente discriminati.


La legge occidentale si rivela inadeguata, espressione della logica dei dominatori.Ma proprio quando la reazione violenta sarebbe sembrata a tutti l’unica via percorribile, lui vede la nonviolenza come via politica da percorrere. Si può dire che la scoperta della nonviolenza fu per Gandhi la scoperta della politica. Con la nonviolenza come metodo si dischiude per lui lo spazio dell’azione politica personale e collettiva. A volte l’idea della nonviolenza è considerata il frutto di un’evasione tutta sentimentale da una realtà spiacevole. Gandhi conosceva la realtà dell’odio e della falsità perché l’aveva vissuta sulla propria pelle: in effetti fu proprio quella realtà a sopraffarlo, quando il 30 gennaio 1948 Gandhi fu assassinato. La sua scelta della nonviolenza non era un’evasione sentimentale o una negazione della realtà del male. Al contrario, era la lungimirante accettazione della necessità di usare la forza e la presenza del male come fulcro del bene e della liberazione.

M.K. Gandhi, “Gandhi per la pace. Aforismi”, a cura di Thomas Merton, Feltrinelli, Milano, 2004

Primo Mazzolari

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Il percorso di Mazzolari fu singolare. Da interventista partecipò alla prima guerra mondiale, visse la seconda partecipando alla resistenza, proclamò le parole del vangelo della pace durante gli anni difficili e drammatici della guerra fredda.

Quando l'Italia entra in guerra nel 1915 don Primo ha venticinque anni ed è prete da tre.
All'inizio del 1917, in una situazione molto delicata per l'esercito italiano, don Primo scrive un articolo per «L'Azione» in cui racconta il suo travaglio: “Forse si è fatto troppo spreco delle sante parole di giustizia, di redenzione dei popoli, di epoca nuova”. La violenza della guerra comincia a mettere in crisi i suoi ideali, e soprattutto ogni giustificazione e legittimazione della guerra stessa e le grandi parole si svuotano di fronte al massacro degli uomini.


Nel marzo 1920, Mazzolari è cappellano in Germania al seguito delle truppe di occupazione italiane.Nel suo diario il 2 aprile 1920 scrive: “Se la patria, come la vedono alcuni, è incompatibile con lo spirito che parla dalle pagine evangeliche, io rinuncio piuttosto alla patria. Io sento di amarla e di servirla meglio di qualunque altro, gridando i miei sentimenti con la parola di Cristo”. Siamo esattamente agli antipodi della posizione assunta da don Primo all'inizio della prima guerra mondiale. Si assiste qui a un rovesciamento della posizione. La patria non è più un valore assoluto, ma lo è l'evangelo. Vi è la coscienza che la guerra non ha prodotto alcun frutto di pace.
L'entrata dell'Italia in guerra il 10 giugno 1940 pone don Mazzolari in un'angoscia profonda.
Non c'è niente di quell'imperialismo cattolico che pure era largamente presente nella chiesa italiana, e non c'è niente di quello spirito che l'aveva portato ad essere interventista convinto nel 1915. Vi è la consapevolezza di vivere un'ora tragica, che avrebbe messo in questione la fede e la chiesa, di un'ora di tenebra che segnerà tutti e ciascuno.


Seguendo questa linea, critica l'intervento degli Stati Uniti nella guerra di Corea; nel gennaio del 1951 a un convegno delle Avanguardie cristiane, movimento da lui fondato, ripercorre la sua storia e a partire da essa mette in questione la giustificazione della guerra.
L'attenzione alla storia, ai suoi eventi, alle nuove condizioni della guerra portano don Primo a un passaggio importante. Proprio la sua attenzione ad un cristianesimo incarnato, che sia capace di misurarsi sui fatti, e sia in grado di modificarli, lo conduce ad abbandonare vecchie categorie, che appartengono ad una lunga stagione storica, ma ora appaiono inadeguate rispetto al mutare dei tempi: “Se non vogliamo che la guerra con tutte le sue inutili stragi si insinui nei nostri piani, in nessun modo, non possiamo ammettere nessuna eccezione, né di guerre difensive, né di guerre rivoluzionarie”.


Nel 1952 Mazzolari scrive Tu non uccidere che uscirà anonimo nel 1955. Rappresenta la riflessione più matura intorno al tema della pace e della guerra. Sottolinea con forza l'alterità tra vangelo e guerra: “Cristianamente e logicamente la guerra non si regge (e tu non uccidere, per quanto ci si arzigogoli sopra, vuol dire tu non uccidere); e per di più si uccidono fratelli, figli di Dio, redenti dal sangue di Cristo; sì che l'uccisione dell'uomo è a un tempo un omicidio, perché uccide l'uomo; suicidio perché svena quel corpo sociale, se non pure quel corpo mistico, di cui l'uccisore stesso è parte; è deicidio perché uccide con una sorta di esecuzione di effige l'immagine e la somiglianza di Dio, l'equivalenza del sangue di Cristo, la partecipazione, per la grazia, della divinità”.
Tu non uccidere è un testo di grande suggestione; in esso è presente la tensione tra prospettiva di cristianità e urgenze del Vangelo, ma in alcuni passi il riferimento alla parola di Gesù è così forte da superare la tradizionale teologia della guerra giusta e da prefigurare la via della testimonianza evangelica della pace fino al martirio, fino a dare la vita per il nemico, in obbedienza al comando del Signore.


Mazzolari non è un teologo cui chiedere una dottrina sistematica, ma un credente e un prete che cerca con tutte le sue forze di incarnare il cristianesimo nella vita degli uomini, nella sofferenza della gente. Lungo la sua esistenza il crinale della pace e della guerra gli appare sempre più un luogo decisivo della testimonianza cristiana. Egli stesso ha sperimentato sulla sua pelle dalla partecipazione come interventista convinto alla guerra del 1915-'18, al dibattito sulla pace e sulla bomba atomica durante la guerra fredda, la faticosa uscita dalla tradizionale teologia della guerra giusta. Per questo non assume mai toni polemici contro la chiesa, anche se spesso la sua critica è profonda e paga per questo prezzi alti - nel 1954 il S. Uffizio gli restringe la predicazione alla sola parrocchia e gli proibisce di scrivere e dare interviste su materie sociali. Chiede solo che la sua posizione non sia negata, che il seme della resistenza evangelica alla guerra sia lasciato germogliare. Il suo itinerario lo porta a prefigurare una chiesa che non ha altra pretesa in mezzo agli uomini che quella di seguire il comando di Gesù, senza appoggi né sostegni umani, dando la vita per i nemici.

Primo Mazzolari, Tu non uccidere, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, 1991