L’alterità

Tutti hanno più o meno creduto di avere una patria, di riposarsi su un sicuro fondamento. Il moderno nel suo svolgersi ha mostrato quanto tutto ciò sia provvisorio. Viviamo in un mondo caratterizzato da un’estrema mobilità. In questo senso siamo divenuti l’un l’altro stranieri. Non per questo dobbiamo rimanere estranei. Al contrario, l’incontro rivela quello che ci accomuna, non foss’altro che la semplice volontà di capirci, il piacere dello stare insieme. Senza voracità. Nell’incontro l’altro deve essere lasciato essere: non può essere divorato. Ma aprirsi all’altro non significa spogliarsi della propria identità. Se cancelliamo quel che siamo non possiamo reciprocamente riconoscerci. Chi riconoscerebbe chi? Lo stesso si deve dire dell’incontro tra il credente e il non credente. Il vero credente non impone una verità, ma con il suo agire indica una strada. E dal non credente impara: comprende che si può vivere bene senza Dio. Ma lo comprende come lo può paradossalmente comprendere uno che crede. È lo stesso Dio che concede la possibilità di non credere. “L’uomo non è solo capax Dei, capace di Dio, ma è anche ‘capace’ di dire no e di vivere senza di lui. Anche questo canta la grandezza di Dio che ha creato un uomo, una creatura, senza imporsi a essa e senza costringerla a riconoscerle colui che l’ha voluta e plasmata” (Enzo Bianchi). Certo, il non credente non si pensa così – né mai lo potrebbe. Il credente tuttavia può ravvisare anche in chi non crede un gesto, una via inattesa e segreta della grazia. La fede è dono e insieme enigma (Esodo 17,7).