Chiamati a rispondere al dolore umano

 

Molti di quelli che si sono prodigati per i diritti civili e che hanno operato nel movimento per la pace degli anni ne sono usciti stanchi e spesso cinici. Lo scoprire che la soluzione non dipendeva da loro, che si poteva fare molto poco, che non si ottenevano risultati visibili, ha tolto loro le energie, facendoli ripiegare sul loro io ferito, fuggire in un mondo di sogni e fantasie o unirsi per dispetto alla folla contro cui protestato. Non sorprende perciò scoprire che molti attivisti lottano contro le frustrazioni ricorrendo alla psicoterapia, o le negano con la droga, oppure tentano di alleviarle nel contesto di nuovi culti. La critica che si può fare agli anni sessanta non è che la protesta fosse senza senso, ma che non era abbastanza profonda, nel senso che non era radicata nella solitudine del cuore. Fino a quando solo la mente e le mani lavorano di conserva, ci si abitua presto a dipendere dai risultati delle nostre azioni e si tende a rinunciare se i risultati non si materializzano. Nella solitudine del cuore, invece, si può prestare orecchio attento ai dolori del mondo perché essi non ci appaiono estranei e sconosciuti bensì nostri, di noi stessi. Laggiù ci accorgeremo che ciò che è più universale è più personale e che in realtà nulla di ciò che è umano ci è estraneo. Laggiù potremo sentire che la crudele realtà della storia è invero la realtà del cuore umano, compreso il nostro, e che la protesta esige, anzitutto, una confessione della nostra partecipazione alla condizione umana. E da laggiù potremo rispondere.
Il proclamare che, come individui, siamo responsabili di tutto il dolore umano ci paralizzerebbe, ma il dire che siamo chiamati a rispondergli è un messaggio liberatore. Perché da una solidarietà intima con i nostri fratelli scaturisce il primo tentativo di alleviarne le pene.

H.J.M. Nouwen 

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