Tra isolamento e solidarietà

Tra isolamento e solidarietà Gesù, nella sua vita e nel suo ministero, ha incontrato un notevole numero di persone segnate dal male che devasta il corpo e la mente, li ha curati e alcuni li ha guariti. Questo massiccio incontro con malati è stato per Gesù una bibbia di umanità, una scuola di compassione, un luogo che ha plasmato la sua umanità. “Curare” significa servire e onorare una persona, averne sollecitudine, prendersene cura. Gesù vede nel malato una persona, ne fa emergere l’unicità e l’umanità: Gesù vede e ascolta il volto del sofferente. I vangeli narrano che tra le persone incontrate da Gesù, diverse erano “possedute da spiriti impuri” o “indemoniate”. Espressioni che spesso designano uomini e donne sofferenti psichicamente, ovvero afflitte da mali che si manifestavano in modo violento o bizzarro o anomalo e, per questo, attribuiti a spiriti maligni. In questo modo anche malattie inquietanti a cui oggi sappiamo dar nome di “epilessia” (Marco 9,14-28) o di “schizofrenia” (Marco 5,1-20), potevano essere sentite non solo come un’assurdità di fronte a cui l’uomo era totalmente impotente, ma recuperate all’interno di una coesa visione del mondo e rese sopportabili: Dio, infatti, è più forte degli spiriti impuri e demoniaci e può sconfiggerli liberando l’uomo. Il brano di Marco 5,1-20 appare particolarmente denso e eloquente ancora oggi. L’“indemoniato” va incontro a Gesù, quasi attratto dalla sua personalità, e in questo suo andare da Gesù mostra la sua sete di relazione, di vita, di accoglienza, ma una sete che si esprime in modo impetuoso, aggressivo, che suscita più paura che simpatia. Egli desidera incontrare Gesù, ma le sue parole risuonano come minaccia e quasi incitano a respingerlo e ad allontanarsi da lui. Sembra lui stesso spegnere ogni volontà di solidarietà nei suoi confronti. spesso questi malati sono presentati come abitati da una profonda dissociazione interiore che li porta a parlare di sé al plurale. Straniato da se stesso, quest’uomo è stato anche reso straniero rispetto alla sua comunità civile: la società lo ha relegato a vivere tra le tombe, in un cimitero, in un luogo di morte e non di vita, evidenziando così lo stigma che la società appone a persone con tali disturbi. La compagine civile si difende da questo malato che incarna in sé l’impotenza dei sani e rappresenta oscuramente la paura di qualcosa che può riguardare chiunque: allontanandolo, de-solidarizzandosi da lui esorcizza la paura che egli suscita. Quest’uomo si trova nell’isolamento più radicale. L’autolesionismo che lo porta a percuotersi, la bizzarria del suo girovagare senza requie nella nudità, il suo stravolgere il rapporto con il corpo, lo spazio, il tempo e gli altri, fanno di lui il rappresentante di “quel potenziale di rabbia e di stranezza che tutti vivevano come mortifero e che per questo poteva, sia pure illusoriamente, essere collocato lontano dalla vita ordinaria” (Carlo Maria Martini).

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