Far spazio alla voce di chi è senza voce

Nella versione lucana della parabola del grande banchetto (Luca 14,15-24), l’accento non è tanto sull’estensione dell’invito a buoni e cattivi (come è nella versione di Matteo 22,2-10), quanto sui deboli, quelli che non si aspettano nulla o non possono prendere alcuna iniziativa da se stessi. Molto significativamente, viene immediatamente dopo l’ammonizione di Gesù a non invitare coloro di cui si può star certi che ricambieranno l’ospitalità (Luca 14,12-14). Ciò che va demolito è un intero modello di calcolo del valore umano in un sistema di qualsiasi scambio, secondo il quale varrebbe la pena prendere sul serio questa o quella persona a causa del loro status, dei vantaggi che offrono, della loro abilità a giocare il proprio ruolo nel particolare gioco che è in corso. Che cosa significa non avere il diritto di essere ascoltati, non avere accesso alla moneta corrente del mercato dominante? Significa essere senza parola, senza quei mezzi con i quali quelli che ti circondano addomesticano e organizzano il mondo. Il tuo linguaggio non conta: sia letteralmente, nel caso di soggetti il cui linguaggio non ha status legale, sia in senso più ampio, quando tutta la forma del linguaggio di chi è al potere ti ricorda costantemente che la tua prospettiva non è inclusa. Non puoi parlare in maniera tale da fare concretamente la differenza; la tua moneta viene respinta; niente di quel che dici “riuscirà bene”, persuaderà o avrà successo. Ecco perché Gesù in Luca 22,67 agli uomini del consiglio che chiedono di dire loro se sia il Messia, Gesù replica: “Se ve lo dico, non mi crederete, e se vi interrogo, non risponderete”. In altre parole: non ho niente da dirvi che siate in grado di udire o a cui siate in grado di rispondere. Il Gesù di Luca si mette dalla parte di quelli il cui linguaggio non può essere udito. Sorge allora una domanda: dov’è e che cos’è la “trascendenza” di Dio? Per Luca la trascendenza di Dio si rende in un certo senso presente in e con quelli che non hanno voce, in e con quelli che non hanno potere di influenzare il loro mondo, in e con quelli che si suppone abbiamo perso qualsiasi diritto possano avere avuto al mondo. Dio non è con loro perché siano naturalmente virtuosi, o perché siano dei martiri; è lì semplicemente nel fatto che vengono “lasciati fuori” quando il punteggio sociale e morale viene calcolato dai manager del comportamento morale o sociale. O, per dirla un po’ diversamente, Dio appare nel e attraverso il fatto che i nostri modi di sistemare il mondo lasciano sempre fuori dal conto l’interesse, il benessere o la realtà di qualcuno. Noi non sappiamo organizzare il nostro mondo in modo da lasciare a ciascuno uno spazio possibile. Siamo inevitabilmente costretti all’esclusione nel momento in cui cerchiamo di dare forma alla nostra vita morale e sociale. Allora, che cosa ci dice Luca mediante il modo con cui situa Dio accanto all’outsider? In un senso importante, non dice nulla riguardo a ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Se pensassimo che Dio debba essere trovato dentro e accanto all’outsider perché Dio approva di costui più di quanto approvi di un insider, ricadremmo proprio in quella mentalità che siamo esortati a dimenticare. La sostanza del messaggio di Luca è in un certo senso più semplice: Dio è nelle connessioni che noi non riusciamo a creare. La persona “lasciata fuori”, il cui posto io non posso garantire, che non è adatta, è la persona che mi richiama ai miei stessi limiti; e quando prendo atto del carattere incompleto del mio mondo di riferimento e della mia incomprensione, posso almeno vedere la serietà dell’interrogativo riguardo al destino di quelli a cui non si provvede. Se in un senso o nell’altro riconosco una rivendicazione di interesse per simili persone, seppure non abbia idea alcuna di come portarla a effetto, sono in qualche misura almeno nella direzione di percepire come Dio stia nelle connessioni che io non riesco a creare. Rendermi conto di avere “difficoltà di apprendimento”, che la mia modalità abituale di fare fronte non può fare fronte a questa esperienza, a questa persona, significa permettere che lo straniero continui a essere straniero, piuttosto che divenire un membro fallito del mio mondo o un parlatore incompetente del mio linguaggio. Allora imparare da quello straniero vuol dire permettere che il mio mondo venga ampliato in modi che vanno al di là dei miei piani e del mio controllo, appunto mediante il riconoscimento che lo straniero è davvero uno straniero. Circoscrivere l’altro nella mia cornice di riferimento è commettere uno sbaglio; rifiutare di ascoltare o di apprendere perché l’altro è “strano” vuol dire farne un altro. Lo straniero rappresenta il fatto che devo crescere, non necessariamente nella direzione di una identità simile alla sua, ma almeno in quella di un mondo in cui si possa avere di più la sensazione che si tratti di un mondo condiviso. Riconoscere l’altro senza l’impulso immediato di renderlo uguale, comporta il riconoscere l’incompletezza del mondo che io penso di poter gestire e l’andare verso quel mondo che potrei non essere in grado di gestire così bene, ma che ha maggiore profondità di realtà. Ed è facendo tali passi che si va più vicini a Dio (R; Williams, Il giudizio di Cristo, Qiqajon, Bose 2003, pp. 77-81, 87-88).

J

Responsabilità/alterità

Nella lingua latina il termine che corrisponde alla parola italiana “responsabilità” è sponsio che vuol dire propriamente “promessa”, “impegno”; suo sinonimo è praestatio che vuol dire rendersi garante di qualcuno o di qualcosa. Responsabile è dunque colui che si fa mallevadore di qualcun altro. La responsabilità è una presa in carico: essa obbliga a una risposta. C’è responsabilità solo in quanto c’è relazione. In molti ricorderanno la celebre frase esistenzialista “l’inferno sono gli altri”. Quella frase esprimeva non solo il rifiuto degli altri, ma anche l’insofferenza per l’impossibilità della propria autosufficienza. Che sono poi due facce della stessa medaglia. Chi, infatti, fosse autosufficiente, sarebbe libero da ogni obbligo nei confronti degli altri e di sé: tutto gli sarebbe possibile perché da nessuno dipende. Invece così non è, perché noi esistiamo solo nella e per la relazione, siamo in catena e questo rende la responsabilità possibile e la rivela insieme come inevitabile. Ognuno di noi esiste in virtù di altri, e non solo perché da altri è stato generato, ma perché da questo sarebbe presto uscito, così come vi è entrato, se non fosse stato accolto, cresciuto, da qualcuno a suo modo amato. Nessuno di noi sarebbe al mondo se qualcuno non ci avesse preso in carico, non se ne fosse assunto la responsabilità. Ogni uomo, in ragione del suo semplice esistere, non può che essere grato, anche se ha buone per lamentarsi, per disprezzare, maledire. Questo sentimento si genera soprattutto quando ci si rende conto che il bene di esistere è goduto ampiamente meno di quanto lo si potrebbe e non per inimicizia della natura, ma perché gli uomini, lungi dal sostenersi, si ostacolano, spezzano la catena che li lega nella vana illusione di potersi rafforzare ognuno per proprio conto.


E così si trovano senza nulla cui attaccarsi, in egoistica e solitaria deriva. In questo paesaggio selvaggio è evidente che le istanze della sicurezza prevalgono su quelle della confidenza, del reciproco affidarsi. Spesso gli uomini non si assumono le responsabilità che dovrebbero, a garanzia dei loro stessi interessi, perché in modo del tutto miope ritengono che per star bene sia sufficiente non danneggiarsi. Se l’atteggiamento è questo, è evidente che nella gerarchia dei valori l’assicurarsi prevalga sul soccorrersi, l’indisponibilità a offrirsi freni la spontaneità del bene. D’altra parte, ignorare l’esistenza degli altri, prescinderne, ci esonera dal dovere di dare risposte. Per non sentirsi colpevoli basta poter dire sempre e in ogni caso: “con questo io non c’entro”. Nelle società contemporanee avanzate, infatti, le colpe maggiori non riguardano tanto quel che si fa, ma quel che non si fa: il peccato corrente è l’omissione. Non assumersi responsabilità è il modo migliore per non sentirsi colpevoli. Si dirà: io ignoro gli altri? Ma quando mai! Infatti, un po’ di beneficenza – che al di là di ogni buona intenzione è pur sempre una monetizzazione delle relazioni umane -, all’occasione, è un modo facile per scaricarsi la coscienza. Ben venga la beneficenza – sempre e in ogni caso – ma non la si faccia mai a discarico o in sostituzione, bensì a compimento, come un portare a perfezione la propria capacità di mettersi a disposizione. anche a costo di personali rinunce. E tuttavia a fronte di indubbie e molteplici generosità gli uomini sfuggono innanzi alle proprie responsabilità. Quanti, infatti, si rendono conto di come e quanto i diversi stili di vita, i livelli di ricchezza, l’impiego distorto delle risorse, il modo ovvio e mai problematizzato di usarle pesino sui nostri reciproci destini.


Assumere su di sé il peso degli altri consapevolmente non può dunque coincidere con la generosità dell’offrire – o nell’offrire quel che si può – ma piuttosto con il diuturno impegno perché si realizzi un mondo più giusto. Questo modo di atteggiarsi permetterebbe – perfino – di pensare la politica diversamente da quanto comunemente accade e renderebbe decisamente stonata la formula qualunquistica “sono tutti uguali”. L’assunzione di responsabilità a causa della giustizia potrebbe essere per tutti una buona ragione per impegnarsi disinteressatamene in politica contro gli usi personalistici ed arbitrari del potere. Ma – ci si chiede – se la politica nasce per mediare interessi come si potrà mai parlare, in essa, di disinteresse? ingenuità o follia. Tuttavia la politica si giustifica se e solo opera in vista dell’interesse generale: in questa luce, l’utopia del disinteresse si mostra più ragionevole di quanto non lo si pensi. Date queste premesse, chiara ne è la conseguenza: le società contemporanee diverranno società responsabili solo quando abbandoneranno la pratica diffusa dell’omissione, che le esonera formalmente dagli obblighi e permette loro la falsa coscienza: quella di sentirsi innocenti. Alla responsabilità non si sfugge perché non è cosa che si possa assumere a discrezione, però, ma è la realtà a imporla. L’altro nel suo puro esistere mi rende sempre e in ogni caso responsabile. Lo posso amare, aiutare, combattere, odiare: sempre e in ogni caso prendo posizione nei suoi confronti e non posso non prenderla. Quand’anche lo ignorassi sarei appunto responsabile di ignorarlo e sarei perciò nei suoi confronti sempre inevitabilmente giusto o colpevole, mai neutrale.


Il mio essere responsabile non dipende da una mia decisione, ma è una mia condizione: è l’altro per il fatto stesso di esistere che mi impedisce di non esserlo. Tanto vale che ognuno assuma consapevolmente le proprie responsabilità. Da questo punto di vista la Bibbia è più che mai esemplare. Dopo che Caino ha ucciso il fratello Dio lo interroga con le note parole: “Dov’è Abele, tuo fratello?” (Genesi 4,9). Caino si difende dichiarandosi irresponsabile. Ma egli responsabile lo è, non tanto e non solo perché il fratello lo ha ucciso, ma perché non lo ha preso in custodia. Evidentemente se lo avesse preso in custodia, se se ne fosse reso responsabile non lo avrebbe ucciso. Essere responsabile di un altro non vuol dire affatto agire per suo conto - e meno che mai sostituire l’altro nella sua libertà - ma, al contrario, prendere la libertà dell’altro a misura della propria azione e del proprio limite. Questo sentirsi reciprocamente responsabili apre la strada al divenire vicendevolmente disponibili (S. Natoli, Parole della filosofia, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 137-139).

Il diniego

I mezzi di informazione, che ci fanno conoscere, come mai prima era accaduto, quel che succede nel mondo, ci hanno messo nelle condizioni di praticare un nuovo vizio, che rischia di passare inosservato perché molto diffuso, senza che la sua diffusione diminuisca di un grammo la sua tragicità. Questo vizio è il diniego, che consiste nel negare, nelle forme più svariate e ipocrite, l’esistenza di ciò che esiste e per giunta si conosce. Il linguaggio è un grande alleato del diniego che può essere letterale: “non è successo niente”, “non c’è stato alcun massacro’, “non sarebbe potuto succedere senza che noi lo sapessimo”; interpretativo per cui la pulizia etnica si chiama “scambio di popolazioni”, un massacro civile “danno collaterale”, una deportazione “trasferimento di popolazione”, una tortura “pressione fisica”. Oppure, ed è il più diffuso, il diniego può essere implicito e ciò avviene quando non si negano i fatti, si esclude solo che questi fatti interpellino proprio noi. I bambini che muoiono di fame in Somalia, gli stupri di massa delle donne in Bosnia, i massacri di Timor Est, i senza tetto nelle nostre strade sono fatti riconosciuti, ma non sono percepiti come un elemento di disturbo psicologico o carichi di un imperativo morale ad agire. Il diniego implicito che scatta qui è lo stesso per cui, di fronte a un incidente stradale, i testimoni si dileguano, perché “il fatto non ha niente a che fare con loro”, perché “ci penserà qualcun altro”. Ogni tipo di diniego comporta una falsificazione della nostra condizione psicologica. Nel diniego letterale non si vuole sapere ciò che si sa, in quello interpretativo si vuole evitare, attraverso una riformulazione di comodo dei fatti, di essere interpellati legalmente o moralmente, in quello implicito si visualizzano i fatti come estranei alla propria competenza, in modo da sentirsi esonerati da un pronto intervento.


Per arrivare a queste conclusioni è necessaria una falsificazione del nostro apparato cognitivo (non riconoscere i fatti che si conoscono), emozionale (non provare sentimenti di fronte a fatti che li sollecitano), morale (non riconoscere nei fatti alcuna valenza di ingiustizia o di responsabilità), e di azione (non agire in risposta a quanto consociamo). Se abbandoniamo il grande scenario della storia, per entrare nella sfera più ristretta della nostra vita privata, il diniego dilaga in tutte le sue forme in maniera insospettata. I membri della famiglia hanno una capacità sorprendente di ignorare o fingere di ignorare che cosa accade davanti ai loro occhi, sia esso abuso sessuale, violenza, alcolismo, follia o semplice infelicità. Esiste un livello sotterraneo dove tutti sanno quello che sta succedendo, ma in superficie si mantiene un atteggiamento di assoluta normalità, quasi una regola di gruppo che impegna tutti a negare ciò che esiste e si vede. Qui il diniego è il primo adattamento della famiglia alla devastazione causata da un membro, sia esso alcolista, o drogato, o pedofilo, o violento, o folle, o dedito a traffici illeciti. La sua presenza deve essere negata, ignorata, sfuggita o spiegata come qualcos’altro, altrimenti si rischia di tradire la famiglia. Qui scatta quella che potremmo definire la morale della vicinanza che è quanto di più pernicioso ci sia per la coscienza privata e, a maggior ragione, per quella pubblica.


Infatti, la morale della vicinanza, che abbiamo ereditato dall’età premoderna, dove non c’erano i mezzi di informazione e dove la società era circoscritta a piccole comunità o a piccoli gruppi, tendeva difendere il gruppo familiare o comunitario e a ignorare tutto il resto. Oggi che i mezzi di informazione ci fanno conoscere quanto accade in tutto il mondo, il persistere nella morale della vicinanza non ci consente di vivere all’altezza del nostro tempo, se non a colpi di diniego, che può assumere la forma dell’indifferenza per tutte le disgrazie che accadono lontano da noi, o la forma dell’insensibilità dovuta al fatto che fondamentalmente i miei bambini non muoiono e non moriranno di fame, e che io non sono stato né sarò cacciato di casa mia dopo aver visto mia moglie uccisa a colpi di machete. Questa consapevolezza dettata dalla morale della vicinanza finisce col sostituire alla responsabilità, alla sensibilità morale, alla compassione, al senso civico, al coraggio, all’altruismo, al sentimento della comunità, l’indifferenza, l’ottundimento emotivo, la desensibilizzazione, la freddezza, l’alienazione, l’apatia, l’anomia e alla fine la solitudine di tutti nella vita della città. Contro il diniego non dobbiamo invocare la verità che talvolta nemmeno a noi stessi possiamo ammettere, ma quel principio che la rivoluzione francese ha messo in circolazione, e che è stato finora del tutto ignorato: non l’uguaglianza, non la libertà che nel novecento hanno contrapposto la visione comunista e capitalista del mondo, ma la fraternità. L’abbondanza di informazione che è il tratto tipico del nostro tempo ci rende infatti responsabili di ciò che sappiamo e, se non diventiamo sensibili alla fraternità, di fronte a quel che sappiamo diventiamo irrimediabilmente immorali, a colpi di diniego (U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, Milano 2003, pp.107, 111-114).

Pensare il nemico

 

Scrivere del nemico significa prima di tutto pensare al nemico. Cosa cui è ovviamente tenuto chiunque abbia un nemico, anche se ha perfettamente chiaro di essere dalla parte della ragione, anche se si è sicuri della cattiveria, della crudeltà e dell’errore di quel nemico. Pensare (o scrivere) il nemico non significa in alcun modo giustificarlo. Non posso nemmeno immaginare, per esempio, di scrivere sul personaggio di un nazista e trovarmi a giustificarlo, benché abbia sentito l’impulso – persino il dovere – di mettere in Vedi alla voce: amore (Mondadori, Milano 1988) un ufficiale nazista, per poter capire come un uomo comune e normale abbia potuto trasformarsi in un nazista, giustificare se stesso quel che fa e quel che passa, facendo ciò che fa. Pensare il nemico, dunque. Pensarlo con rispetto e profonda attenzione. Non solo odiarlo o temerlo. Pensarlo come una persona, una società o un popolo, distinti da noi r dalle nostre paure, dalle nostre speranze, dalle nostre ferite, dalle nostre fedi e prospettive, dai nostri interessi e dalle nostre ferite. Permettere al nemico di essere “prossimo” – fosse’anche per un solo momento – con tutto ciò che questo comporta. Potrebbe risultare utile anche dal punto di vista della condotta bellica, dall’acquisizione di informazioni essenziali, questo principio del “conoscere il nemico dall’interno”, ma può servirci anche per cambiare la realtà, cosicché questo nemico cessi gradualmente di essere tale per noi. Voglio chiarire che non sto affatto invitando ad “amare il nemico”. A tale proposito non posso dire di essere stato dotato di una così nobile longanimità. Per parte mia, intendo unicamente lo sforzo di tentare di capire il nemico, i suoi impulsi, la sua logica interiore, la sua visione del mondo, la storia che narra a se stesso. Ovviamente non è una cosa facile né semplice quella di leggere la realtà attraverso gli occhi del nemico. È spaventosamente difficile rinunciare ai nostri sofisticati meccanismi di difesa, esporci ai sentimenti vissuti dal nemico nel conflitto con noi, nella lotta contro di noi, a ciò che prova nei nostri confronti. È un’ardua sfida alla nostra fiducia in noi stessi e nelle nostre ragioni.?


Contiene il rischio di sconvolgere la “versione ufficiale”, che è per lo più anche l’unica lecita, “legittima”, che un popolo disorientato, un popolo in guerra, racconta costantemente a se stesso. Anche se forse si potrebbe capovolgere quest’ultima affermazione e dire che non di rado un popolo si trova in uno stato di conflittualità permanente proprio perché è invischiato in una determinata “versione uffciale”… C’è un altro evidente aspetto positivo in questo sforzo di guardare la realtà attraverso gli occhi del nemico. Perché il nemico vede in noi, il popolo che gli sta di fronte, le cose che ogni popolo attribuisce al nemico: la crudeltà, la violenza, la brutalità, il sadismo, la presunzione, l’autocommiserazione, l’ambiguità morale. Non di rado non ci accorgiamo di quel che “trasmettiamo” al nemico, e di conseguenza anche agli altri che non sono nemici e, alla fin fine, a noi stessi. Non di rado diciamo a noi stessi che adottiamo metodi rigidi, che ci comportiamo in modo violento e brutale solo ed esclusivamente perché siamo impantanati in una guerra, e quando questa sarà finita smetteremo immediatamente di fare così e torneremo a essere quella società e quel popolo morali, nobili, che eravamo prima. Può anche darsi, però, che proprio il nemico, colui verso il quale attiviamo quei meccanismi di ostilità e violenza, colui che ne è divenuto la vittima, stia avvertendo molto prima di noi quanto questi meccanismi siano già diventati parte integrante del nostro presente di popolo e di società. Quanto si siano ormai insinuati nelle nostre configurazioni interiori. E può anche darsi che proprio questo capovolgimento di prospettiva, il fatto cioè di vederci con gli occhi del popolo per il quale rappresentiamo i conquistatori, per esempio, possa risvegliare in noi le sirene d’allarme dandoci il modo di capire, e per tempo, il nostro inganno, il danno subito e la nostra cecità. imparando così da cosa dobbiamo metterci in salvo, e quanto è vitale per noi stessi l’urgenza di cambiare radicalmente la situazione. Perché, quando riusciamo a leggere il testo della realtà con gli occhi del nemico, allora quella realtà in cui noi e il nostro nemico viviamo e agiamo diventa improvvisamente più complessa, più realistica; possiamo riprenderci parti che avevamo espunto dal nostro quadro del mondo.


Da questo momento, la realtà non è più soltanto il riflesso delle nostre paure e delle nostre recondite aspirazioni, delle nostre chimere e della nostra ragione inappellabile: ora diventiamo capaci di vedere anche la storia dell’altro, attraverso i suoi occhi; sperimentiamo un contatto più sano e incisivo con i fatti. Aumentano così le nostre probabilità di evitare errori fatali, e diminuiscono quelle di incorrere in una visione egocentrica, chiusa e limitata. Così possiamo cogliere – in un modo che prima non potevamo permetterci – il fatto che quello stesso nemico mitico, minaccioso e demoniaco non è altro che un insieme di persone spaventate, tormentate e disperate, quanto noi. Questa scoperta, secondo me, è l’inizio necessario di un lungo processo di risveglio e di conciliazione. Questo modo di rapportarsi a noi stessi, al nemico, al conflitto in sé, alla nostra vita dentro il conflitto, questo modo di rapportarsi rappresenta secondo me, più di ogni altra cosa, un atto di rinnovata autodefinizione in quanto persone, nel contesto di una situazione la cui sostanza e i cui metodi sono disumanizzanti. Questo tipo di atteggiamento potrebbe anche restituirci quel qualcosa della nostra umanità che ci è stato sottratto con un processo rapido e cruento, di cui non sempre avvertiamo la gravità (D. Grossman, Con gli occhi del nemico, Mondadori, Milano 2007, pp. 32-38).

Il faticoso cammino della compassione

Per leggere onestamente la parabola di Luca 10,25-37 dovremmo non tanto identificarci nel protagonista buono, il samaritano, ma comprendere che di noi fanno parte anche il sacerdote e il levita e che i tre personaggi sono tre momenti dell’unico movimento faticoso verso un atteggiamento di vera compassione e solidarietà. Anche noi per arrivare alla vera solidarietà siamo chiamati a riconoscere le opposizioni che in noi ci sono alla solidarietà e alla compassione. Anche noi, per incontrare l’uomo che soffre, qualunque sia la sua sofferenza, dobbiamo incontrare la nostra sofferenza, la sofferenza che è in noi, il sofferente che noi siamo e averne compassione. Non basta vedere l’uomo nel dolore e nel bisogno: occorre fargli spazio in noi, far sì che la sua sofferenza avvenga un po’ in noi. La compassione è la radice della solidarietà perché essa dice: “Tu non sei solo perché la tua sofferenza è, in parte, la mia”. Possiamo dire che la compassione è il “sottrarre il dolore alla sua solitudine (E. Borgna). Davvero i tre personaggi della parabola disegnano un unico percorso e un’unica storia, quella della compassione che fatica a farsi strada in noi, nel nostro cuore. Occorre saper vedere la propria paura, la mia paura che mi impedisce di cogliere la sua, di lui che è impotente e in balia del primo che si avvicina e gli può dare il colpo di grazia. Forse la mia paura di fronte all’altro sofferente è la paura dell’isolamento in cui giace il ferito: se io accetto di incontrare in me questa solitudine spaventosa, forse potrò farmi vicino all’altro e diventare presenza nella sua solitudine. Da questo sconvolgimento interiore, da questo soffrire la sofferenza dell’altro (Luca 10,33) il samaritano della parabola è condotto a un comportamento etico in base al quale fa tutto ciò che è in suo potere per alleviare la situazione del bisognoso.


Così la compassione non resta solamente un sentimento che si impone al cuore dell’uomo, ma diviene scelta, responsabilità, solidarietà. Essa è la risposta al muto grido di aiuto che si leva dal viso dell’uomo sofferente, dagli occhi atterriti e più che mai nudi e inermi della persona soverchiata dal dolore, vicina alla morte. Nella Scrittura la compassione appare come il fremito delle viscere, la risonanza viscerale della sofferenza dell’altro, risonanza che diviene consonanza: la sofferenza dell’altro grida, e la compassione fa del mio corpo una cassa di accoglienza e di risonanza alla sua sofferenza. La compassione è il no radicale all’indifferenza di fronte al male del prossimo: in essa io partecipo e comunico, per quanto mi è possibile, alla sofferenza dell’altro uomo. L’impotenza del malato, del morente, ha la paradossale forza di risvegliare l’umanità dell’uomo che riconosce l’altro come fratello proprio nel momento in cui non può essere lo strumento di alcun interesse. In questo senso la sofferenza per la sofferenza altrui è uno dei più alti segni della dignità umana. La compassione è una forma fondamentale dell’incontro con l’altro, un linguaggio umanissimo, perché linguaggio di tutto il corpo, che coinvolge i sensi, la gestualità, la parola, la presenza personale. La solidarietà deve ricordarsi di tutto questo se vuole avere una radice nel cuore dell’uomo, nel suo intimo. il samaritano, a differenza del sacerdote e del levita, fa divenire ascolto la visione del ferito. Non solo lo vede, ma lo ascolta, lo accoglie, lo fa avvenire in sé, patisce in sé qualcosa di ciò che sta patendo lui: allora ecco la solidarietà che si manifesta e la solidarietà testimonia che ogni uomo è mio fratello. E che io ne ho la responsabilità (L. Manicardi, {link_prodotto:id=606}, Qiqajon, Bose 2004, pp. 15-16,18-19).