Per via degli incontri che suscita lungo il cammino, la marcia è un invito alla filosofia. Il viaggiatore è instancabilmente sollecitato a rispondere a una serie di domande fondamentali: da dove viene? Dove va? Chi è? Eterne domande di viaggiatori che il sedentario non si pone … Se normalmente si vive nell’amnesia delle questioni fondamentali, a meno di doversi confrontare con l’assenza, la malattia o la morte, lo stesso avviene nella marcia, in cui ogni attimo pone di fronte a interrogativi minimali. Oggi il paesaggio, il clima, la forma delle case, l’accoglienza degli abitanti sono diversi che in passato; conviene almeno dare un nome a quei misteri minuti e tranquilli che occupano per un attimo la mente, renderne conto all’interlocutore del momento, e trarre un senso da queste diversità prendendosi una cura in fin dei conti piacevole, poiché arresta lo sguardo e stimola a interrogarsi sulla turbolenza del mondo. Il viandante, per la natura singolare dei contatti che gli sono propria, è una persona cui facilmente si condividono le piccole cose che vivacizzano l’esistenza: i problemi di salute, la stanchezza del corpo, quel campo che non rende abbastanza, l’inverno più lungo e più freddo del solito o il caldo che persiste in autunno, l’inegualità della pioggia, l’arrivo di stranieri nel villaggio, la forma particolare di un albero, il fumo che si leva da un camino suscitando riflessioni sulla mitica freddolosità dei vicini, un raccolto inaspettato, l’assenza di mele in quell’annata, le susine che nascono in ritardo, una gelata tardiva di maggio(David Le Breton, Il mondo a piedi. Elogio della marcia, Feltrinelli, Milano 2001).
“Mio padre era un arameo errante” (Deuteronomio 26,5). Così, con consapevolezza di essere discendenza di un nomade messosi in cammino verso un “dove” ignoto, inizia una delle prime confessioni di fede di Israele: la vicenda di Abramo con Dio, infatti, e quella della sua discendenza destinata a essere numerosa come le stelle del cielo, prende le mosse da un viaggio che non avrà termine fino alla morte. Ed è ancora un lungo cammino, a segnare la premessa e il fondamento dell’alleanza tra Dio e il popolo di Israele: discesa in Egitto dalla terra di Canaan, la discendenza di Giacobbe proprio dall’Egitto verrà chiamata verso al terra promessa. Così l’esodo, l’uscita dalla terra della schiavitù, segnerà l’inizio del cammino di libertà verso il servizio del Signore. La traversata del mar Rosso, poi il deserto della prova e della tentazione, l’inavvicinabile montagna del Sinai, poi ancora il deserto e un’altra attraversata di acque ostili divenute amiche, quelle del Giordano … È lì, nel cammino, che Dio mette alla prova il suo popolo, lì che si rivela come padre sollecito alle necessità di un figlio ribelle, lì che si impegna con il dono della Legge che dà vita. È lì, in un itinerario lungo piste a volte incerte, lungo una via sovente smarrita che Dio e il suo popolo imparano a conoscersi. E la memoria di questo viaggio sarà anche il luogo cui fare ritorno ogni volta che la rotta imboccata dal popolo dovrà essere corretta, ogni volta che ci sarà bisogno di ridestare quell’amore che aveva innescato il cammino (cf. Deuteronomio 8,2).
L’identità del popolo di Israele, prima schiavo e ora libero, è tutta nel suo essere stato “chiamato fuori”, fatto uscire dall’Egitto: popolo e figlio lo è divenuto in viaggio. Un cammino che non è solo del popolo, ma anche del suo stesso Dio, che con lui ha vegliato nella notte dell’uscita dall’Egitto, con lui ha camminato di giorno e di notte nel deserto. Un Dio che per lungo tempo si è rifiutato di avere a sua volta una dimora fatta da mani di uomo (Secondo libro di Samuele 7,5-7) … Non sorprende allora che quando … una comunità di discepoli si raduna attorno a un rabbi di Nazaret che annuncia l’avvicinarsi del regno di Dio percorrendo a piedi le contrade di Galilea salendo a Gerusalemme, questa non troverà immagine migliore della “via” pe4 definire se stessa. “Quelli della via”: così secondo gli Atti degli apostoli (9,2) venivano indicati i primi cristiani, uomini e donne fattisi seguaci, prima ancora che di un insegnamento o una dottrina, di una via; popolo in cammino fedele al suo Signore Gesù che di sé aveva detto: “Io sono al via” (Giovanni 14,6) e che aveva vissuto come un viandante (cf. Matteo 8,20).
Enzo Bianchi
Camminare significa aprirsi al mondo. L’atto del camminare riporta l’uomo alla coscienza felice della propria esistenza, immerge in una forma attiva di meditazione che sollecita la piena partecipazione di tutti i sensi … La specie umana ha “inizio con i piedi” ricorda l’antropologo Leroi-Gouran … La marcia è una bella immagine dell’esistenza, qualcosa di incompiuto che sfida continuamente lo squilibrio. Per non cadere, chi cammina deve subito compensare un movimento con un altro che lo contraddice, mantenendo un ritmo regolare. Tra un passo e l’altro si sta sempre sul filo del rasoio, oltre il quale è inevitabile la caduta. In breve, l’atto del camminare riesce soltanto se si concatenano i passi l’uno all’altro, sapendo che ogni eccesso di precipitazione o lentezza indurrà la rottura. La marcia è un’apertura al mondo, che invita a essere umili e a cogliere avidamente il momento. La sua etica della curiosità ne fa uno strumento ideale per la formazione personale, una scuola di vita che si avvale del corpo e di tutti i sensi … Per chi cammina, la coscienza della propria vulnerabilità è un incentivo alla prudenza e alla disponibilità verso gli altri, invece che alla conquista e al disprezzo. Una cosa è certa: chi va a piedi raramente ha l’arroganza dell’automobilista o di chi usa il treno o l’aereo, perché sta sempre ad altezza d’uomo, e sente ad ogni passo la scabrosità del mondo e la necessità di rapportarsi amichevolmente alle persone che incontra sul cammino … Camminare è un atto che spoglia, che mette a nudo, e ricorda all’uomo l’umiltà e la bellezza della sua condizione … Non siamo noi che facciamo il viaggio, è il viaggio che ci fa e ci disfa e ci inventa (David Le Breton, Il mondo a piedi. Elogio della marcia, Feltrinelli, Milano 2001).