Una comunità alternativa

C’è un aspetto di profonda verità in coloro che riscoprono la chiesa come “comunità alternativa”, a partire dall’esperienza della chiesa degli apostoli. Di fronte alla solitudine dell’uomo prigioniero dei propri idoli, la comunità dei discepoli che si vogliono bene annuncia il dono di una comunione nuova, possibile per la grazia di Dio. Come si può definire una “comunità alternativa”? È una rete di relazioni fondate sul vangelo, che si colloca in una società frammentata, dalle relazioni deboli, fiacche, prevalentemente funzionali, spesso conflittuali ... Una riflessione sulla comunità cristiana come comunità alternativa è rinata in anni recenti. Al di là delle proposte talora un po’ utopiche o a rischio di chiusura ideologica, il tema è certamente legato al progetto di Gesù per una nuova umanità: purché si intenda questo progetto in senso largo e aperto, come progetto che si realizza in molti modi analogici, che rimane sempre aperto alla creatività dello Spirito. Una comunità alternativa nel senso del vangelo non é dunque una setta né un gruppo autoreferenziale che si distacca orgogliosamente dal tessuto sociale comune, né un’alleanza di alcuni per emergere e contare. Non è perciò necessariamente e sempre visibile come gruppo compatto, perché sa accettare anche la diaspora, cioè può ritrovarsi, per diverse circostanze storiche, in “dispersione”. Ma nell’insieme ha caratteri di visibilità e in ogni caso, visibile o meno, agisce sempre come il lievito, le cui particelle operano in misterioso collegamento fra loro e si sostengono a vicenda per fare fermentare la pasta.


Nel Nuovo Testamento ci sono offerti diversi modelli di comunità alternative: quello della chiesa di Gerusalemme; descritto in Atti degli apostoli 2-5, quello vigente nelle comunità di Antiochia o Filippi o Efeso o Corinto, che comprende sia rapporti interni fra i membri di ogni comunità locale, sia ricchi scambi tra comunità diverse con forme molteplici di comunione nella preghiera, nella fede, nella carità. I testi del Nuovo Testamento ci mostrano che tali comunità non erano esenti da problemi, divisioni, tensioni, scandali: ma tutto ciò era occasione di revisione e alla fine di crescita nella fede, nel perdono e nell’amore. Comunità alternativa non significa dunque comunità perfetta o senza difetti, ma comunità che si lascia formare e correggere dall’azione dello Spirito santo per portare quelle promesse di comunione e di perdono che preludono alla Gerusalemme celeste.

Anche con tutti i suoi peccati la comunità alternativa rimane un ideale di fraternità in divenire, destinato a mostrare a una società frammentata e divisa che possono esistere legami gratuiti e sinceri, che non ci sono solo rapporti di convenienza o di interesse, che il primato di Dio significa anche l’emergere di ciò che di meglio c’è nel cuore dell’uomo e della società (Carlo Maria Martini, Ripartiamo da Dio! nn. 28-30).

Una comunità a servizio degli uomini

Jean Vanier, Una comunità a servizio degli uomini
Gesù ha iniziato la sua missione chiamando a sé degli uomini e delle donne ai quali ha detto: “Lascia tutto, vieni e seguimi”. Li ha scelti, li ha amati e li ha inviati a diventare suoi amici. È così che tutto è cominciato: con una relazione personale con Gesù, una comunione con lui.
Poi, ha riunito i dodici che aveva chiamato a diventare suoi amici e ha iniziato a vivere in comunità. È chiaro che questo non è sempre stato facile. Ben presto hanno incominciato a discutere per sapere chi era il primo. La vita in comunità ha rivelato tutte le paure e le gelosie che portavano in loro.

In seguito Gesù li ha inviati per compiere un servizio, una missione: annunciare la buona novella ai poveri, guarire i malati e liberare la gente, scacciando i demoni. dopo averli tenuti solo un po’ di tempo con sé, li ha inviati in missione. Quando delle persone si trovano insieme e imparano a volersi bene, il loro amore trabocca all’esterno ... Il primo servizio di una comunità è essere fonte di vita per gli altri, cioè di dare loro una nuova speranza, un senso nuovo alla loro vita. il servizio primo nei confronti dell’altro è quello di rivelare loro la loro bellezza fondamentale, il valore e l’importanza che hanno nell’universo, la loro capacità di amare, di crescere, di fare cose belle e di incontrare Dio. È dare loro una nuova speranza e una libertà interiore più grande; è aprire le porte del loro essere perché sgorghino nuove energie; è togliere dalle loro spalle il giogo di paura e di colpevolezza che li opprime. Dare la vita agli altri significa rivelare loro che sono amati da Dio così come sono, con questo miscuglio di bene e di male, di luce e di tenebre che è in loro; significa dire loro che la pietra che soffoca la vita che è dentro di loro sarà rotolata via come la pietra che è stata fatta rotolare all’entrata della tomba di Gesù ...


il servizio, la missione vanno esercitati in primo luogo verso i membri della comunità. Inizia con loro. Dare la vita, amare è la missione generale di ogni comunità e di ogni persona, ma ogni comunità, ogni gruppo ha la sua missione particolare, il suo modo proprio di dare la vita. Una comunità diventa realmente radiosa quando tutti i membri sentono l’urgenza della loro missione. Nel mondo ci sono troppe persone senza speranza, troppe grida lasciate senza risposta, troppe persone che muoiono nella solitudine. i membri vivono realmente la comunità quando si rendono conto che non sono lì per se stessi né per la loro piccola santificazione personale, ma per accogliere il dono di dio e perché Dio venga a dissetare i loro cuori inariditi, attraverso la loro preghiera, il loro amore, il loro spirito di servizio. Una comunità è chiamata a essere luce in un mondo di tenebre, sorgente rinfrescante per la chiesa e per gli uomini. Se diventa tiepida, il mondo morirà di sete; se non porta frutto, i poveri moriranno di fame. Ma questo senso di urgenza nel servizio non vuole dire che si deve essere iperattivi, nervosi, angosciati. Non è in contraddizione con un sentimento di abbandono, di fiducia, di pace e di gioia. Prendiamo coscienza della sofferenza e del male nel mondo, ma nello stesso tempo della profondità dell’ampiezza della Buona notizia.

Alcuni vogliono stare insieme senza sapere troppo bene il perché. Vogliono soltanto stare insieme. Se gli scopi specifici o il “perché” di una vita in comunità non sono molto chiari, ben presto ci saranno conflitti e tutto crollerà. Questo implica che ogni comunità deve avere una carta o un progetto di vita che specifica chiaramente perché si vive insieme e che cosa ci si aspetta da ognuno. Bruno Bettelheim scrive: “Sono convinto che la vita comunitaria può fiorire solo se la comunità esiste per uno scopo al di fuori di essa. È possibile solo come conseguenza di un impegno profondo verso un’altra realtà al di là di quella di essere una comunità” (Jean Vanier, La comunità luogo del perdono e della festa, Jaca Book, Milano 2000, pp. 103 ss.).

Intimità e solitudine

Una buona parte dell’energia dell’uomo si consuma nel tentativo di vivere in pienezza gli affetti. L’uomo è alla ricerca ardente dell’intimità con altri esseri. La ricerca lo spinge a desiderare relazioni umane senza alcuna barriera, una comunicazione senza restrizioni. L’intimità qui appare come un fine da raggiungere senza il quale non vi sarà felicità terrena, e la sua immagine si aureola come nessun’altra.

Ogni esame di noi stessi ci porta a constatare che ogni relazione di intimità, anche nelle coppie più unite, suppone dei limiti. al di là, ecco la solitudine umana. Chi si rifiuta a quest’ordine della natura conosce la rivolta, conseguenza del suo rifiuto.
Il consenso a questa solitudine fondamentale apre un cammino di pace e, al cristiano, permette di scoprire una dimensione sconosciuta della relazione con Dio. Consentire a questa parte di solitudine, condizione di ogni vita umana, stimola all’intimità con Colui che ci strappa alla solitudine deprimente dell’uomo di fronte a se stesso.

Dire al Cristo “Ti amo” ci spinge a manifestargli la nostra intenzione in un gesto, un atto, altrimenti la parola resta lettera morta. Per lui dobbiamo, in ogni combattimento, spezzare in noi ciò che deve essere spezzato, a rischio di esserne segnati momentaneamente nelle nostre energie vitali. L’intimità con lui colmerà le solitudini, ormai animate.

Con lui la solitudine diventerà comunione e sosterrà una fede capace di trasportare le montagne (Roger Schutz, Dinamica del provvisorio, Morcelliana, Brescia 1965, pp. 110-111)

 

Solitudine e comunione

Molti cercano la comunione per paura della solitudine. Non essendo più capaci di star soli, cercano di vivere tra gli altri. ci sono anche dei cristiani, che non riuscendo da soli a risolvere i loro problemi, o essendosi trovati male soli con se stessi, sperano di trovare aiuto nella comunione con altri uomini. Per lo più restano delusi, e di conseguenza imputano alla comunità quella che è la loro vera colpa. La comunità cristiana non è un sanatorio dello spirito. chi vi entra per fuggire da se stesso, la utilizza abusivamente per distrarsi con vani discorsi, per quanto camuffati da intenti religiosi. In effetti la sua ricerca non ha per oggetto la comunione, ma quell’effetto di stordimento che gli fa dimenticare per breve tempo la sua condizione di solitudine, e proprio per questo procura l’isolamento mortale dell’uomo. il risultato di simili tentativi di guarigione è il dissolversi della parola e di ogni esperienza autentica, e in ultimo la rassegnazione e la morte spirituale.

Chi non sa stare solo si guardi dal cercare la comunione. non farà altro che male a se stesso e alla comunione. Eri solo davanti a Dio, quando ti ha chiamato, eri solo quando hai dovuto seguire il suo appello, eri solo quando hai dovuto prendere la tua croce, quando hai dovuto pregare e combattere, da solo morirai e renderai conto a Dio. Non puoi sfuggire a te stesso, poiché Dio stesso ti ha messo da aperte scegliendoti ...

Ma viceversa è vero anche che chi non si trova in comunione, si guardi dallo star solo. Nella comunità sei uno dei chiamati, e non il solo; tu porti la croce, combatti e preghi nella comunità dei chiamati. non sei solo, e anche nella morte e nel giorno del giudizio sarai solo un membro della grande comunità di Gesù Cristo ... “Se anche devo morire, nella morte non sono però solo; nella sofferenza la comunità soffre con me” (Martin Lutero) (Dietrich Bonhoeffer, Vita comune, Queriniana, Brescia 2003, pp. 59-60).

Come ascoltarti?

Cominciamo di qui: come ascoltarti? Non si tratta di ascoltare un messaggio in funzione di un contenuto già codificato dalla società e dalla lingua. Certo, ciò è sempre utile. Se mi indichi l’ora del tuo arrivo o della tua chiamata, è utile che io capisca per essere presente a questo appuntamento. Se mi indichi l’ora del tuo arrivo o della tua chiamata, è utile che io capisca per essere presente a questo appuntamento. Se mi dici il luogo del nostro incontro, è necessario che io ti senta per recarmici ... Ma questa comunicazione è insufficiente per tessere alleanze e storie tra due soggetti. E neppure vi riuscirà l’espressione dell’affetto soggettivo. Infatti posso consolare il tuo dolore, ma esso non è necessariamente il frutto della tua intenzione, e non necessariamente mi aiuta nel mio divenire ... Dunque ti ascolto non è aspettare o sentire da te un’informazione o l’espressione semplice di un sentimento ... Ti ascolto è ascoltare la tua parola come unica, irriducibile, in particolare irriducibile alla mia parola, come nuova, ancora sconosciuta. È sentirla come la manifestazione di un’intenzione, di un divenire umano, spirituale ... ti ascolto come un altro trascendente a me che richiede il passaggio a una nuova dimensione. Ti ascolto: percepisco ciò che dici, vi sono attenta(o), cerco di sentirvi la tua intenzione. Questo non significa “ti capisco, ti conosco, quindi non ho bisogno di ascoltarti e posso persino prescriverti un divenire”. No, ti ascolto come colui e ciò che non conosco ancora, a partire da una libertà e una disponibilità che riservo per questo avvenimento. Ti ascolto; favorisco l’emergere di un non-avvenuto, di un divenire, di una crescita, talvolta di una nascita. “Ti ascolto” lascia spazio per il non-ancora-codificato, per il silenzio, preserva un luogo di esistenza, di iniziativa, di libera intenzionalità, di sostegno al tuo divenire.


Ti ascolto non a partire da ciò che so, che sento, che sono già, e neppure in funzione di ciò che sono già il mondo e la lingua, dunque in modo, in un certo senso, formale. Ti ascolto piuttosto come la rivelazione di una verità non ancora manifestata, la tua, e quella del mondo rivelato attraverso di te e da te. Ti do del silenzio, in cui il futuro di te – e forse di me, ma con te e non come te e senza di te – può emergere e fondarsi ... questo silenzio è spazio-tempo che ti è offerto senza riti né verità stabilite, a priori. È costituzione di un’apertura a te, all’altro che non è e non sarà mio. Questo silenzio è possibile grazie al fatto che né io né tu sono un tutto, che siamo entrambi limitati, segnati dal negativo, differenti senza gerarchia. Questo silenzio è il primo gesto dell’amo a te ... Questo silenzio è condizione di un possibile rispetto di me e dell’altro nei loro limiti. Esso suppone inoltre che il mondo già esistente, anche nella sua forma filosofica o religiosa, non sia considerato compiuto, già manifestato o già rivelato. Perché io possa tacere e ascoltare, ascoltarti, senza presupposti, senza imperativi segretamente all’opera – rivolti a te o a me – è necessario che il mondo non sia già concluso, che sia ancora aperto, che il futuro non sia determinato dal passato. Tutte queste condizioni sono indispensabili perché io ascolti realmente ... Ascoltarti richiede dunque che io mi renda disponibile, che sia ancora e sempre capace di silenzio. questo gesto, fino a un certo punto, mi libera. Ma soprattutto dà a te un luogo silenzioso in cui manifestarti, ti mette a disposizione uno spazio-tempo ancora vergine per il tuo apparire e le sue espressioni. Ti offre la possibilità di esistere, di esprimere la tua intenzione, la tua intenzionalità, senza gridare e persino senza chiedere, senza sovrastare, senza annullare, senza uccidere (Luce Irigaray, Amo a te. Verso una felicità nella storia, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp; 118-122).